sabato 26 gennaio 2008

Come meglio non si poteva dire...

Il migliore ritratto della crisi di governo italiana

Ezio Mauro, La Repubblica (25 gennaio 2008)
COSI' MUORE IL CENTROSINISTRA

Nemmeno due anni dopo il voto che ha sconfitto Berlusconi e la sua destra, Romano Prodi deve lasciare Palazzo Chigi e uscire di scena, con il suo governo che si arrende infine al Senato dove Dini e Mastella gli votano contro, dopo una settimana d'agonia. È lo strano - e ingiusto - destino di un uomo politico che per due volte ha battuto Berlusconi, per due volte ha risanato i conti pubblici e per due volte ha dovuto interrompere a metà la sua avventura di governo per lo sfascio della maggioranza che lo aveva scelto come leader.

Con Prodi, però, oggi non finisce soltanto una leadership e un governo, ma una cultura politica - il centrosinistra - che tra alti e bassi ha attraversato gli anni più importanti del nostro Paese, segnando la storia repubblicana.

Ciò che è finito davvero, infatti, è l'idea di un'ampia coalizione che raggruppi insieme tutto ciò che è alternativo alla destra, comunque assemblato, e dovunque porti la risultante. Prodi è morto politicamente proprio di questo. È morto a destra, per la vendetta di Mastella e gli interessi di Dini, ma per due anni ha sofferto a sinistra, per gli scarti di Diliberto, Giordano e Pecoraro, soprattutto sulla politica estera. Mentre faceva firmare ai leader alleati un programma faraonico e velleitario di 281 pagine e un impegno di lealtà perfettamente inutile per l'intera legislatura, Prodi coltivava in realtà un'ambizione culturale, prima ancora che politica: quella di tenere insieme le due sinistre italiane (la riformista e la radicale), obbligandole a coniugare giustizia e solidarietà insieme con modernità e innovazione, in un patto con i moderati antiberlusconiani.

Quell'ambizione è saltata, o meglio si è tradotta talvolta in politica durante questi due anni, mai in una cultura di governo riconosciuta e riconoscibile.

I risultati positivi di un governo che ha rovesciato il proverbio, razzolando bene mentre continuava a predicare male, non sono riusciti a fare massa, a orientare un'opinione pubblica ostile per paura delle tasse, spaventata dalle risse interne alla maggioranza, disorientata dalla mancanza di un disegno comune capace di indicare una prospettiva, un paesaggio collettivo, una ragione pubblica per ritrovare il senso di comunità, muoversi insieme, condividere un percorso politico.

Anche le cose migliori che il governo ha fatto, sono state spezzettate, spolpate e azzannate dal famelico gioco d'interdizione dei partiti, incapaci di far coalizione, di sentirsi maggioranza, di indicare un'Italia diversa dopo i cinque anni berlusconiani: ai cittadini, le politiche di centrosinistra sono arrivate ogni volta svalutate, incerte, contraddittorie e soprattutto depotenziate, come se la rissa interna - che è il risultato di una mancanza di cultura comune - avesse succhiato ogni linfa. Ancor più, avesse succhiato via il senso, il significato delle cose.

Fuori dal recinto tortuoso del governo, la destra non ha fatto molto per riconquistarsi il diritto di governare. Le sue contraddizioni sono tutte aperte, e la crisi della sinistra regala a Berlusconi una leadership interna che i suoi alleati ancora ieri contestavano. Ma la destra, questo è il paradosso al ribasso del 2008, è in qualche modo sintonica e addirittura interprete del sentimento italiano dominante, che è insieme di protesta e di esclusione, forse di secessione individuale dallo Stato, probabilmente di delusione repubblicana, certamente di solitudine civica. Nella grande disconnessione da ogni discorso pubblico, che è la cifra nazionale di questa fase, il nuovo populismo berlusconiano può trovare terreno propizio, perché salta tutte le mediazioni, dà agli individui l'impressione di essere cercati dalla politica e non per una rappresentanza, ma per una sintonia separata con la leadership, una vibrazione, un'adesione, ad uno ad uno.

Intorno si è mossa e si muove la gerarchia cattolica, che ormai lascia un'impronta visibile non nel discorso pubblico dov'è la benvenuta, ma sul terreno politico, istituzionale e addirittura parlamentare, dove in una democrazia occidentale dovrebbe valere solo la legge dello Stato e la regola di maggioranza, che è la forma di decisione della democrazia. Un'impronta che sempre più, purtroppo, è quella di un Dio italiano fino ad oggi sconosciuto, che non si preoccupa di parlare all'intero Paese ma conta le sue pecore ad ogni occasione interpretando il confronto come prova di forza - dunque come atto politico - , le rinchiude nel recinto della precettistica e se deve marchiarle, lo fa sul fianco destro.

Un contesto nel quale poteva reggere soltanto una politica in grado di esprimere una cultura moderna, cosciente di sé, risolta, capace di nascere a sinistra e parlare all'intero Paese. Tutto questo è mancato, per ragioni evidenti. La vittoria mutilata del 2006 ha messo subito il governo sulla difensiva, preoccupato di munirsi all'interno, col risultato di una dilatazione abnorme di ministri e sottosegretari. Ma i partiti, mentre si munivano l'uno contro l'altro, si disconnettevano dal Paese. Nel loro mondo chiuso, hanno camminato a passo di veti, minacce e ricatti, indebolendo la figura dello stesso Presidente del Consiglio, costretto a mediare più che a indirizzare. Si sono sentite ogni giorno mille voci, a nome del governo. La voce del centrosinistra è mancata.

Oggi che Mastella ha firmato un contratto con il Cavaliere e Dini ha onorato la cambiale natalizia, risulta evidente che Prodi salta perché è saltato quell'equilibrio che univa i moderati alle due sinistre, e come tale poteva rappresentare la maggioranza dell'Italia contemporanea. Tuttavia, senza il trasformismo (non nuovo: sia Dini che Mastella sono ritornati infine a casa) Prodi non sarebbe caduto. Barcollando, il governo avrebbe ancora potuto andare avanti, e questa è la ragione che ha spinto il premier ad andare al Senato, per mettere in piena luce sia la doppia defezione da destra e verso destra, sia l'assurdità di una legge elettorale che dà allo stesso governo la vittoria alla Camera e la sconfitta al Senato.

Da qui partirà il presidente Napolitano con le consultazioni, nella sua ricerca di consolidare un equilibrio politico e istituzionale che ritrovi un baricentro al sistema e al Paese. Il Capo dello Stato dovrà dunque tentare, col suo buonsenso repubblicano, di correggere queste legge elettorale prima di riportare il Paese al voto. La strada è quella di un governo istituzionale guidato dal presidente del Senato Marini, formato da poche personalità scelte fuori dai partiti, sostenuto dalle forze di buona volontà per giungere al risultato che serve al Paese.

Riformare la legge elettorale, e se fosse possibile, riformare anche Camera e Senato, cambiando i regolamenti, riducendo il numero dei parlamentari, correggendo il bicameralismo perfetto. Un governo non a termine, ma di scopo.

Che può durare poco, se i partiti sono sinceri nell'impegno e responsabili nelle scelte, col Capo dello Stato garante del percorso e dell'approdo.
Berlusconi è contrario a questa soluzione perché vuole votare al più presto, con i rifiuti per strada a Napoli (altra prova tragica d'impotenza del centrosinistra, locale e nazionale), con piazza San Pietro ancora calda di bandiere papiste, con il volto di Prodi da esibire in campagna elettorale come un avversario già battuto, in più in grado di imbrigliare l'avversario vero, che è da oggi Walter Veltroni.

martedì 22 gennaio 2008

Mastella metafora della politica italiana

Proviamo a fare un esperimento mentale - tra l’altro nemmeno troppo complicato in teoria, ma forse divenuto improponibile oggi nel nostro paese – e cerchiamo di ragionare su un episodio e su un personaggio, senza scadere nelle pieghe del caso singolo (e quindi mettendo da parte ogni giudizio personale e ogni chiave di lettura ideologica o partitica), anzi provando ad “universalizzare” il discorso, a renderlo esemplare e paradigmatico: il caso è l’imminente crisi di governo e il personaggio è l’on. Clemente Mastella. Senza finire intrappolati nella sabbie mobili, da un lato, della questione giudiziaria che ha coinvolto la famiglia del leader dell’Udeur e, dall’altro, degli scricchiolii continui della maggioranza di governo, l’idea, lontana da ogni forma di accanimento mediatico, è quella di provare a leggere il passo compiuto da Mastella e le sue possibili conseguenze come la metafora migliore e più efficace per rendere d’un colpo tutte le storture della nostra politica.
Il primo livello lo potremmo definire “vengo prima di tutto il resto”: si può decidere di posporre alle pur gravi vicende che affliggono la propria famiglia il bene di un intero paese? E’ accettabile che per una mera questione di “solidarietà” (come senza troppa vergogna è stato candidamente ammesso in pubblico) si decida di affossare una maggioranza e la governabilità di un paese? E’ ammissibile che un uomo politico, esattamente nel giorno in cui le borse di tutto il mondo hanno segnato una delle crisi più gravi degli ultimi cinquant’anni, non abbia lo spessore di avvertire la gravità del passaggio storico e sentire il peso di una scelta, che inevitabilmente finisce per aggravarne la situazione, pur se magari solo nel nostro miserello paese? Se la sfiducia nei confronti della nostra classe dirigente va scemando, siamo obbligati a non stupirci più: gli esempi che arrivano d'altronde sono questi, in cui perennemente le esigenze di regolare la quotidianità dei governati vengono poste in secondo piano rispetto ai bisogno di soddisfare le singolarità dei governanti.
Il secondo livello potrebbe essere raffigurato così: “se non c’è più il contenuto perché dovrei badare alla forma”? Abbiamo assistito ad un membro della maggioranza di governo che ha deciso di aprire la crisi di governo al termine di un ufficio tecnico del proprio partito e che l’ha motivata in uno studio televisivo: l’anomalia del primo passaggio consiste “semplicemente” nel fatto che, come dire, l’on. Mastella si sarebbe dovuto limitare ad annunciare il proprio allontanamento e non la morte di un esecutivo, che non spetta, per titolarità e merito – o demerito – a lui; la gravità inaudita del secondo passaggio è evidente agli occhi di tutti – o, oramai, di nessuno: si può accettare che la televisione sostituisca il parlamento? Come si può concepire che non si esponga in aula, di fronte ai propri colleghi, ma al cospetto delle telecamere e dei giornalisti le ragioni – presunte tali – di una decisione così grave? Non è questione di stile o puro formalismo, ma la testimonianza che la volgarità dei costumi ha attecchito anche tra chi dovrebbe regolarli.
Penultima “figurina”: “amici come prima”! Quale coerenza ci viene testimoniata e quanto veniamo ritenuti – o realmente siamo – incapaci di capire, ricordare e giudicare, se una opposizione allo sbando fino a qualche settimana fa – giorni e non anni –, divisa su questioni di merito e di metodo, venuta a parole, allontanatasi praticamente su tutto, all’improvviso, odorando le ceneri di una prossima scottatura del governo, ritorna compatta all’improvviso e complessivamente? Capisco la misericordia cristiana e posso anche immaginare che la lezione del figliol prodigo sia tenuta a mente da chi rivendica e ostenta la propria cristianità, ma le diversità non scompaiono in una notte, le contrapposizioni non si risolvono grazie alla conferenza stampa di qualcun altro, le agende politiche e le alleanze non si realizzano lucrando sul cadavere di una maggioranza.
Infine, forse il problema più strutturale: “le regole regolano”? Mettiamola giù così, senza farla troppo per le lunghe: il problema è a monte e valle. A monte vi è un sistema che permette ad ogni politico che non sia d’accordo su qualcosa con i propri colleghi di partito di non dover più affrontare la scalata ardua del dibattito democratico interno e delle altrettanto democratiche votazioni interne, ma di dissentire – per carità non fosse mai che non ne abbia il diritto –, ma subito dopo di fuggire e creare un nuovo partito, un nuovo soggetto, un nuovo statuto, un nuovo protagonista, un nuovo vincolo alla governabilità del paese. A valle vi è un sistema elettorale che oggi probabilmente permetterà che il governo sia salvo alla camera e muoia in senato, che l’esecutivo cada, pur rimanendo di diritto in piedi su una delle sue gambe. Tutto ciò regola cosa? Permette cosa? Solo che si alimenti il circolo di calcoli interni e si dimentichino le vere esigenze del paese.
Come tutta questa vicenda, nuovamente e tristemente, dimostra.

Luca Alici