venerdì 7 novembre 2008

Tre spunti, tre nodi polemici, tre domande. Riflessioni “a monte” della "Riforma Gelmini"

Finendo dritto in una di quelle che Jung avrebbe definito senza ombra di dubbio “sincronicità”, qualche giorno fa, mentre ero immerso nelle eco, tutte personali ed interiori, di quella che per sintesi ed immediatezza mi limiterò a chiamare “Riforma Gemini”, mi sono imbattuto in modo davvero casuale in un testo di Hannah Arendt, intitolato La crisi dell’istruzione: una coincidenza che ha finito per regalarmi il piacere di guardare con una profondità tutta nuova ai fenomeni del nostro “oggi” tutto italiano. Provando infatti ad andare oltre la sacrosanta ricaduta nell’immediato, giustamente sulla bocca di tutti (tagli lontani da ogni progettualità e decisioni incapaci di intercettare il bisogno di futuro), il “soccorso” della filosofa tedesca è servito per provare ad ampliare ulteriormente il raggio della riflessione: caricando un po’ di vena critica e provocatoria le righe di quel testo (spero comunque di restarvi il più possibile fedele) e decontestualizzandolo dal periodo per il quale è stato scritto (siamo a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 con una lente di riguardo per la situazione americana) emergono tre coordinate della crisi dell’istruzione che ritengo non solo valide per i tempi che stiamo vivendo, ma quasi, addirittura, una sorta di condizioni in negativo della “riforma” in oggetto.
Proviamo a vederle rapidamente nel dettaglio, forzando un po’ un parallelismo che mi porterà a rapportare ognuna di queste coordinate ad altrettanti nodi problematici sollevati dalle decisioni del nuovo ministro dell’istruzione (il grembiule, l’insegnate unico, i tagli all’università), in una sorta di crescendo di gravità e insopportabilità.

La prima. Scrive Hannah Arendt: il problema è che esiste “un mondo di bambini e una società di bambini, autonomi e da lasciare per quanto possibile all’autogoverno dei bambini stessi”. Viviamo cioè, in una società, e mi verrebbe da dire, visto il contesto, in una scuola, in cui l’adulto si trova disarmato di fronte al bambino e il bambino, a sua volta, solo e sottoposto alla tirannia della maggioranza dei suoi coetanei. Come scrive la Arendt, a tale situazione “i bambini tendono a reagire o con il conformismo o con la delinquenza giovanile, e spesso con un miscuglio dell’uno e dell’altra”. Cosa significa? Significa che, sospendendo il giudizio sulle responsabilità di ambienti familiari e sociali in genere, responsabilità che la scuola non può assumersi, resta comunque il dubbio che anche l’edificio scolastico, inteso in senso materiale e metaforico, sia il covo di questa cattiva relazione: la scuola ha perso la capacità di realizzare un effettivo dialogo tra adulti (insegnanti in questo caso) e bambini (alunni in questo caso) e non è più capace di garantire un flusso benefico che sia qualcosa di più di un mero “baby-sitteraggio” o di un asettico “punto-informazioni”.
Ed eccoci allora alla prima questione: quale ambizione pedagogica e sociale, quale progetto sostanziale nasconde un provvedimento che riduce al grembiule e al voto in condotta il dramma della crisi di autorità dell’insegnante-adulto e del sempre maggiore appiattimento omologante di bambini-alunni sempre più uguali? Non che pensi ingenuamente che aspetti così profondamente e culturalmente rilevanti debbano passare attraverso la cruna dell’ago di una riforma ministeriale, ma è poi così strano chiedere che si parta da un progetto e da un’identità di scuola (che tra l’altro testimonierebbe di puntare sulla scuola per il futuro) piuttosto che da provvedimenti isolati e piatti (che tra l’altro sanno amaramente di spot di vuota pubblicità)?

La seconda. Hannah Arendt così si esprime a riguardo dell’insegnamento: “Influenzata dalla psicologia moderna e dai dogmi del pragmatismo, la pedagogia si è trasformata in una scienza dell’insegnamento in genere, fino a rendersi del tutto indipendente dalla materia che di fatto insegna”. Quale ritratto migliore di un percorso circolare che ha finito per chiudersi su se stesso, tornando infruttuosamente indietro? Si era partiti dal maestro unico e si era arrivati ai tre maestri: nel frattempo però la pedagogia è divenuta la nuova signora e padrona del mondo scolastico e accademico, ha finito per monopolizzare dibattiti e corsi di laurea, ha conquistato il gradino più altro del podio tra le scienze umane, finendo per totalizzare il panorama di ogni disciplina e diventando una sorta di insegnamento dell’insegnamento, un insegnamento al quadrato, unidimensionale e generico. E’ un po’ come se la pedagogia unica (estesasi universalmente e universitariamente) avesse ora come sua propaggine, nel mondo delle scuole elementari, la nuova figura del maestro unico, in un corto circuito per il quale la sua onnipervasiva presenza “a monte” dei vari insegnamenti trovasse la sua estrema diramazione in quello che è meramente un ritorno al passato.
Ed eccoci alla questione: l’insegnate unico ha spalle tanto grandi da respingere il sospetto che sia il semplice frutto di tagli e non di un investimento culturale; da reggere la presunzione di cancellare con un colpo di spugna quanto accaduto nelle scuole italiane negli ultimi anni e quanto di buono seminato dal modello dei tre maestri; da difendere l’affermazione di un modello per il quale non conta più la materia che di fatto s’insegna?

La terza e ultima. La Arendt sottolinea come, a suo modo di vedere, fin dalla modernità, si sia affermata l’idea per la quale si può conoscere e capire solo ciò che si è fatto da sé. “Applicato all’istruzione – e sono parole sue queste –, ciò significa, in termini primitivi quanto ovvi, che l’imparare viene per quanto possibile sostituito dal fare” e si è tesi a mostrare quasi esclusivamente il processo produttivo della conoscenza. Viviamo cioè un’epoca nella quale non si tende più ad insegnare una conoscenza ma piuttosto ad inculcare una tecnica. Lo scheletro dell’istruzione non è più quello nobile, chiamato a sostenere, oltre che le necessità del corpo, anche le tensioni dello spirito, ma quello concupiscente, geneticamente modificato per diventare macchina produttiva e consumatrice.
Per quanto quest’ultimo nodo concettuale costituisca forse “il” problema dei problemi, l’apice della piramide dei problemi strutturali del nostro sistema-istruzione, il virus che ha colpito chiunque si sia avvicinato a queste dinamiche, finendo per fare innumerevoli vittime sia a sinistra che a destra (su questo punto forse molto più vicine di quanto potrebbe sembrare o potrebbero far credere), come si può accettare un riforma che non è tale, in quanto si limita a togliere fondi a chi ne ha pochi e usati male e a ridarne a chi ne ha già molti e li usa nel pieno rispetto di tale logica, che così male ha fatto e sta facendo alla nostra società? Come si può accettare, socialmente, culturalmente e politicamente, una serie di provvedimenti molto lontani da qualsiasi progetto di università, a meno che non si riduca tale progettualità ad un’idea privatistica, produttiva e manageriale del massimo luogo di formazione che un paese possiede?

D'altronde non sarebbe altro che il passo successivo dell’affermazione di un modello molto chiaro, che ha già inficiato il luogo della deliberazione e della decisione, la politica, e che è pronto per contagiare il luogo dell’assistenza e della solidarietà, la sanità.

Luca Alici