martedì 29 aprile 2008

I NUOVI BARBARI 2 – Il potere dello sport

Fino a qualche tempo fa la parola “sport” risuonava con una leggerezza non gravata di troppe responsabilità, ma felice della sua dimensione giocosa; oggi ha le spalle stanche, cariche di interessi e della ricerca senza scrupoli del massimo profitto. I suoi due sistemi circolatori – quello arterioso, che ne ossigena la valenza virtuosamente agonistica, culturale, pedagogica; quello venoso, che porta il peso di una vera e propria economia industrializzata – ne complicano l’esistenza e ne rendono stentata la sopravvivenza: lo sport nutre grandi passioni, ma muove miliardi; insegna a soffrire per un obiettivo, ma ossessiona per una vittoria; educa alla vita, ma esaspera la competitività.
Proviamo allora a vedere se il giochetto dei barbari, che ci siamo inventati come esperimento per capire i nostri tempi, funziona anche in questa cornice complessa e fragile e vale per una dimensione della nostra esistenza che sembra relegata al tempo libero, ma che in realtà ne investe una più ampia porzione. Costretto, e me ne scuso, a generalizzare un po’ (finiranno nello stesso calderone il totem sacro del calcio con le altre mille discipline), l’esperimento vuole però guardare allo sport in genere come allo specchio di una situazione culturale più ampia e pensarlo come provetta attendibile per esaminare lo stato della società e verificarne la crisi delle autorità, come in fondo ci siamo prefissi.
Avete fatto caso a quale crescita esponenziale di esoneri degli allenatori stiamo assistendo? Dal calcio alla pallavolo, passando per i mille rivoli delle altre discipline, la figura dell’allenatore sta indubbiamente attraversando una fase di crisi: da autorità autorevole a calamita di ogni male, da capo del gruppo a capro espiatorio, da bagaglio formativo a bersaglio di giocatori che spesso non sono più in grado di ascoltare, lavorare, sacrificarsi e scoprono che è più semplice gettare a mare il comandante che rispettare le regole della navigazione.
Avete mai assistito ad una gara di giovanissimi sportivi in erba? Siete rimasti forse attoniti di fronte ai comportamenti di genitori esasperati ed esasperanti che testimoniano con le parole – e spesso non solo – una totale e radicale mancanza di rispetto nei confronti dell’arbitro? Quel medesimo spregio del senso del limite che sta alla base dei tanti casi di doping è la medesima causa di un doping pedagogico che non permette di accettare un errore umano e che impedisce il rispetto di chi in campo deve far osservare regole e virtù.
Avete per caso sperimentato come le curve degli stadi abbiano perso l’identità di luogo organizzato di passione e colore per divenire espressione di un’anarchica violenza? La figura storica del capo ultras nasce per “governare” animi “innamorati” di una squadra, mentre oggi non ha più la capacità di organizzare niente, perché giovani schegge impazzite non trovano nulla di sensato nell’ascoltare chi ha più esperienza di loro.
Tre casi banali, sicuramente diversi, forse volutamente radicali, ma senza dubbio emblematici, che offrono uno spettro ampio per rintracciare, anche nello sport, quell’invasione barbarica che spazza via ogni obbligo nei confronti degli altri e di se stessi, abbattendo le differenti figure che domandano rispetto e obbedienza: il vuoto di autorevolezza diviene il buco nero in cui trovano spazio il tradimento dell’idea stessa di sport (e quindi la capacità di formare ed educare se stessi nella propria integralità), la barbarie di un successo ad ogni costo (violentando i propri limiti e il valore dell’avversario) e la deriva individualistica di una autoreferenzialità che ha perso la propensione al sacrificio, al rispetto, all’apprendimento.

Rappresentare un'idea e non numeri

“Il problema degli altri è uguale al mio.
Sortirne tutti insieme è la politica.
Sortirne da soli è l’avarizia”
(Don Milani)


In una delle puntate pre-elettorali de “Le Invasioni barbariche”, all’interno del solito suo piccolo spazio, Vittorio Zincone, forse in una delle migliori cartoline di presentazione, finiva per tratteggiare un quadretto acutamente allegorico e realisticamente simbolico sulla nuova avventura veltroniana del Partito Democratico e così concludeva: “Per rappresentare gli interessi dei vari segmenti sociali deve esserci per forza qualcuno di esterno alla politica e di interno a quei mondi? Ma non è che in questo modo diamo l’idea che nell’Italia moderna nessuno è in grado di rappresentare altro che se stesso?”.
Provando a prendere sul serio una questione di spessore che in un’agenda politica tutta centrata sui bisogni e non più sulle architetture, dettate da una quotidianità sempre più pressante e soffocante, rischia di apparire esercizio di pura accademia, viene da declinare tali punti interrogativi su due piani: il primo legato all’orizzonte più ampio e nazionale della nostra politica; il secondo correlato ad una delle sue novità principali, ovvero, per l’appunto, il Partito Democratico.
Mi preme davvero però evitare innanzitutto due fraintendimenti: la lettura antipatica e “spocchiosa” di chi per “contro-tendenza forzata” si stacca dal coro multiforme dell’anti-politica e prova a difendere “il” politico; quella ingenua e “sciacallesca” di chi analizza un risultato complesso e negativo (completatosi con i ballottaggi di qualche giorno fa), finendo per puntare il dito e cercare i classici capri espiatori.
Ed allora procedo.
Primo punto: la politica chi rappresenta?
Certamente l’apertura ad ampi settori della società civile, pur ingabbiata nelle maglie costrittorie delle liste chiuse volute da questa legge elettorale, ha regalato un passo avanti verso la democrazia (la tanto odiata “casta” ha guardato finalmente al mondo fuori dal palazzo e lo ha arruolato); ma ciò, alla lunga, non rischia però di accelerare una deriva che renderà presto o tardi la presunta cura un veleno subdolo? Se infatti un simile passo lo si compie appiattendo verso il basso la progettualità, riducendo ad una somma algebrica il tentativo di far riportare i conti, non si rischia definitivamente di s-cadere in una visione tecnicistica e industrialistica della politica? E cioè: se finalmente il politico di professione ha deciso di arricchirsi delle braccia e delle menti provenienti dalla vita quotidiana e queste ultime hanno voluto entrare nell’agone politico, è il caso che entrambi lo facciano provando a rappresentare interessi più alti, e non solo propri (che è ed è stato l’unico vero grande male della politica italiana e non solo); se una mentalità “manageriale” può apportare in termini di risultati e pianificazione un surplus di efficienza, non vorrei che ciò significasse avere una politica ridotta alla somma aritmetica dei singoli interessi, incollati dalla prospettiva comune di risolvere grane quotidiane e non più cementati dal comune orizzonte valoriale che unisce la nostra generazione a quelle passate e a quelle successive (nonché ridurre la sacralità delle cariche istituzionali al servizio di un’operatività del governo che finisce per spazzare via gerarchie e garanzie).
Morale della favola: temo che rappresentare se stessi sia pensare a se stessi; non essere in grado di rappresentare gli altri voglia dire non volerli aiutare: eccoci qua, di fronte al terrore che la politica viva un rigurgito di egoismo autoreferenziale, vittima delle reggenza oltre il limite di supplenti che sono divenuti titolari della cattedra a causa di titolari in congedo a cui è piaciuto più del lecito. La politica è un progetto di vita e di società non centrata su se stessi, ma sugli altri; ridurre la politica all’autoreferenzialità del risultato è farle violenza; il politico è così ridotto a funzionario, la politica a funzione, la rappresentanza ad acquisizione, la cittadinanza a mercato.
Secondo punto. Il Partito Democratico che cosa ha rappresentato?
Certamente l’apertura di un’ampia, importante e ambiziosa nuova strada, indubbiamente la semplificazione del panorama politico italiano, senz’altro un progetto alto rattrappito dalla tempistica di una campagna elettorale improvvisa e rapida. Ma ora più che mai, sconfitta alla mano (e alcune non trascurabili note liete da ricordare), sarebbe il caso che si desse il tempo fisiologico per decidere quale progetto di società vuole rappresentare e chi vuole rappresentare: si è fatto qualche calcolo nel periodo pre-elettorale, che ha dato l’idea di mettere insieme intercettatori di voti più che calamite di idee; si rischia di fare vecchi calcoli ora, con il solito imperativo del “contiamoci” che ha il sapore scaduto della politica stantia. Non c’è da contare un bel niente, c’è piuttosto da realizzare un’idea di paese che è ben presto raffigurabile e non conflittualmente ampia: abbattere la logica del ”mio, ora e subito”. La politica è architettura, disegna il futuro e prende spunto dai modelli del passato, usando l’oggi solo come occasione di progetto: evitare di avere un pantheon di riferimenti e guardare a ciò che oggi può produrre il mio orticello è condursi progressivamente all’isolamento e all’aridità.
E’ questa la vera sfida del Partito Democratico da domani: non cedere a reflussi di vecchia politica e finalmente provare a costruire un’idea di società che funga realmente da catalizzatore per chi voglia rappresentarla, indipendentemente da chi rappresenta, e per tutti coloro che devono essere risvegliati dal torpore dell’egoismo e dall’autoreferenzialità. Conta cosa si rappresenta e non chi; semplicemente perché se si sceglie la prima e se ne dimostra il valore si può essere esempio, modello e governo per molti, mentre se si sceglie il secondo si è sempre inevitabilmente scissi e ricattabili: l’idea da realizzare coinvolge e offre una soluzione, il bisogno da soddisfare crea conflitto e divide. Il vero obiettivo, elevato e prezioso, che non si può svendere al miglior offerente di voti e ricatti elettorali e che non merita di essere assassinato sull’altare della sconfitta, diventa allora quello di distogliere l’Italia da una deriva individualistica montante, che non deve essere inoculata nei meccanismi della democrazia: una sfida che, per parafrasare Franco Vaccari, deve essere personale e comunitaria. “Se solitaria è populista, se corale è politica” (F. Vaccari, Portici, Politica vecchia e nuova passione, AVE, Roma 2007).