Fino a qualche tempo fa la parola “sport” risuonava con una leggerezza non gravata di troppe responsabilità, ma felice della sua dimensione giocosa; oggi ha le spalle stanche, cariche di interessi e della ricerca senza scrupoli del massimo profitto. I suoi due sistemi circolatori – quello arterioso, che ne ossigena la valenza virtuosamente agonistica, culturale, pedagogica; quello venoso, che porta il peso di una vera e propria economia industrializzata – ne complicano l’esistenza e ne rendono stentata la sopravvivenza: lo sport nutre grandi passioni, ma muove miliardi; insegna a soffrire per un obiettivo, ma ossessiona per una vittoria; educa alla vita, ma esaspera la competitività.
Proviamo allora a vedere se il giochetto dei barbari, che ci siamo inventati come esperimento per capire i nostri tempi, funziona anche in questa cornice complessa e fragile e vale per una dimensione della nostra esistenza che sembra relegata al tempo libero, ma che in realtà ne investe una più ampia porzione. Costretto, e me ne scuso, a generalizzare un po’ (finiranno nello stesso calderone il totem sacro del calcio con le altre mille discipline), l’esperimento vuole però guardare allo sport in genere come allo specchio di una situazione culturale più ampia e pensarlo come provetta attendibile per esaminare lo stato della società e verificarne la crisi delle autorità, come in fondo ci siamo prefissi.
Avete fatto caso a quale crescita esponenziale di esoneri degli allenatori stiamo assistendo? Dal calcio alla pallavolo, passando per i mille rivoli delle altre discipline, la figura dell’allenatore sta indubbiamente attraversando una fase di crisi: da autorità autorevole a calamita di ogni male, da capo del gruppo a capro espiatorio, da bagaglio formativo a bersaglio di giocatori che spesso non sono più in grado di ascoltare, lavorare, sacrificarsi e scoprono che è più semplice gettare a mare il comandante che rispettare le regole della navigazione.
Avete mai assistito ad una gara di giovanissimi sportivi in erba? Siete rimasti forse attoniti di fronte ai comportamenti di genitori esasperati ed esasperanti che testimoniano con le parole – e spesso non solo – una totale e radicale mancanza di rispetto nei confronti dell’arbitro? Quel medesimo spregio del senso del limite che sta alla base dei tanti casi di doping è la medesima causa di un doping pedagogico che non permette di accettare un errore umano e che impedisce il rispetto di chi in campo deve far osservare regole e virtù.
Avete per caso sperimentato come le curve degli stadi abbiano perso l’identità di luogo organizzato di passione e colore per divenire espressione di un’anarchica violenza? La figura storica del capo ultras nasce per “governare” animi “innamorati” di una squadra, mentre oggi non ha più la capacità di organizzare niente, perché giovani schegge impazzite non trovano nulla di sensato nell’ascoltare chi ha più esperienza di loro.
Tre casi banali, sicuramente diversi, forse volutamente radicali, ma senza dubbio emblematici, che offrono uno spettro ampio per rintracciare, anche nello sport, quell’invasione barbarica che spazza via ogni obbligo nei confronti degli altri e di se stessi, abbattendo le differenti figure che domandano rispetto e obbedienza: il vuoto di autorevolezza diviene il buco nero in cui trovano spazio il tradimento dell’idea stessa di sport (e quindi la capacità di formare ed educare se stessi nella propria integralità), la barbarie di un successo ad ogni costo (violentando i propri limiti e il valore dell’avversario) e la deriva individualistica di una autoreferenzialità che ha perso la propensione al sacrificio, al rispetto, all’apprendimento.
Analisi del 2015
8 anni fa