martedì 1 giugno 2010

Una delle prove della grande penna di Diamanti

BUSSOLE
Una società senza baroni
(e possibilmente senza università)
di ILVO DIAMANTI


Tratto da Repubblica.it
31 maggio 2010

Pare che gran parte dei problemi del paese siano riassumibili nel binomio vizioso Statali-Professori. Certo, altre categorie sono, da tempo, bersaglio di critiche durissime. Fra tutti: i magistrati. Ma loro, almeno, hanno potere. Altrimenti non continuerebbero ad essere, dopo tanti anni, al centro di attacchi – sempre più duri - da parte del premier e della classe politica - soprattutto, ma non solo – di centrodestra. Degli statali, invece, “non glie ne frega niente” a nessuno, ormai. La manovra finanziaria del governo, per metà, grava su di loro. Il che - al di là del merito – non ha sollevato nessuna reazione, nessuna protesta. Quasi che, ormai, non si attendessero alcun ascolto. Perché reagire se non ti aspetti alcuna solidarietà sociale - visto che, da fannullone quale sei, il tuo stipendio è, per definizione, rubato?

La posizione dei professori universitari è, in parte, diversa. Difficile sostenere che non contino nulla. Ma, sicuramente, sempre meno. D’altronde, nell’università (iniziale minuscola) non si investe più. (Come nella Cultura: iniziale maiuscola.) Un ambiente in cui è lecito risparmiare, “tagliare”, se hai bisogno di ridurre la spesa pubblica. Tanto la colpa è soprattutto loro. Dei Baroni. Che costano tanto e fanno poco. Anzi, nulla. In fondo sono “statali”. I Baroni: non si riesce a mandarli via. Fino a poco anni fa andavano in pensione quasi a 80 anni. Poi, l’età della pensione, per loro, si è abbassata. Fino a 70. Raro caso – forse unico - in cui si spinge per anticipare l’età della pensione, invece di ritardarla. Ma, come si sa, i Baroni non solo costano, fanno poco o nulla. In aggiunta, impediscono il reclutamento dei più giovani. Visto che, ormai, l’età media dei ricercatori si aggira intorno ai 50 anni. Mentre l’università si è popolata di figure precarie che più precarie non si può. Assegnisti, borsisti, contrattisti. Chiamati, per quattro soldi (e a volte neppure quelli)
a far di tutto. Anche lezione, ovviamente. Come i ricercatori – sempre più attempati, ma ancora ricercatori. E chiamati, ovviamente, a tenere corsi, a fare anch’essi i “professori”. Senza esserlo. Anzi, restando ricercatori – a vita. Visto che il reclutamento è bloccato (non dai Baroni) e loro sono divenuti un ruolo “a esaurimento”. Rimpiazzati da nuovi ricercatori – ma a tempo determinato. Tanto per chiarire che il futuro dell’università è incerto. A tempo determinato, appunto. Come la cultura. Di eterno, ormai, c’è solo il presente. E il premier.

Così, per rimediare, per svecchiare il corpo docente, per ridurre la spesa universitaria, per accelerare il turnover, conviene spingere i Baroni fuori dall’università il più presto possibile. Va in questa direzione la proposta del PD approvata dall’Assemblea nazionale: mandare i Baroni in pensione “ obbligatori” a 65 anni. Mario Pirani, nella sua “Linea di confine”, una settimana fa ha già espresso, al proposito, critiche molto accurate. Da me, molto condivise. A cui aggiungerei un appunto. Molto personale – lo ammetto.

Riguardo all’invecchiamento dei Baroni, ma anche gli altri: i Conti e gli Scudieri. Gli Associati e i Ricercatori. I quali sono “vecchi” non (tanto) per colpa dei Baroni, eterni e immortali. Ma del meccanismo stesso che regola il reclutamento e le carriere nell’università. Autobiograficamente: io, che non ho avuto Baroni a trainarmi, ma molti colleghi e maestri, con i quali ho collaborato, studiato, scritto e pubblicato, ebbene, sono diventato di “ruolo”, ho, cioè, vinto il concorso di ricercatore, quando avevo 40 anni. Prima - e per 14 anni - ho fatto il precario. A mia volta: assegnista, borsista, “ esercitatore”. E poi dottorando e dottorato. Per mantenermi (ma anche per passione), ho diretto un ufficio studi sindacale, poi ho fatto il ricercatore di professione. Così come, durante gli studi universitari, per sostenere i costi e aiutare la famiglia, ho fatto molti altri “lavori”. Fra l’altro: il benzinaio, l’assicuratore, il venditore di enciclopedie, l’operaio. Un’esperienza veramente formativa.

Poi, a 40 anni, dopo tanti anni precari, tante ricerche e tante pubblicazioni (non avere Baroni ha i suoi lati positivi; in particolare: sei più libero), finalmente ricercatore. E quindi uno stipendio regolare per fare quel che mi piace e avevo, comunque, fatto da sempre. Per questo non l’ho mai concepito come un “lavoro”. Da allora, pochi anni dopo, sono divenuto un Barone (ora si dice così). Anche se come Barone sono un disastro, a valutare dalla capacità di curare la politica interna all’accademia (per informazioni, chiedere ai colleghi – più giovani - che collaborano con me). Preferisco fare ricerca, scrivere, insegnare piuttosto che gestire i concorsi. Se davvero mi chiedessero di andare in pensione a 65 anni, temo che, alla scadenza, non raggiungerei i requisiti minimi di anzianità richiesti. A meno di non “riscattare” (si dice così?) gli anni della laurea, del dottorato, ecc… A un costo, mi si dice, tale da azzerare i primi anni di pensione. Per fortuna, ho ancora un po’ di tempo – un po’ di anni di università - davanti, per organizzarmi.

Tuttavia, dubito seriamente che, al mio posto e con il mio stipendio, entrerebbero tre nuovi, giovani ricercatori, come si ipotizza. Intanto perché di giovani, all’università, non ne vedo più. I collaboratori, intorno a me, ormai hanno i capelli bianchi, hanno messo su famiglia, sprezzanti del rischio: hanno persino fatto figli. Magari potessero subentrare a me, loro, precari ad alta qualificazione e con “tanti tituli”. Se così fosse davvero, me ne andrei prima. Anche subito. Magari all’estero, dove in un paio di università, almeno, e in un paio di paesi, almeno, un vecchio Barone come me troverebbe ancora posto. Senza molti problemi

Ma continuo a dubitare che al posto dei Baroni 50-60enni, subentrerebbero davvero tanti giovani ricercatori. Credo e, anzi, temo che – invece - il “taglio” avverrebbe con pochi rammendi. Senza turnover. Chi è fuori ci resterà, raggiunto dai neopensionati. Tutti in cammino verso una società senza (o meglio: con sempre meno) “statali”. E senza Baroni. Verso una società popolata da lavoratori autonomi. Artigiani, commercianti, liberi professionisti. Imprenditori. Grandi, medi, piccoli e piccolissimi. E da lavoratori dipendenti. Ma Privati. D’altronde, come rammentava Eugenio Scalfari domenica scorsa, “gli statali votano in larga maggioranza a sinistra”. E, aggiungo, i Baroni ancor di più. “Il loro scontento non peserà, se non marginalmente, sul consenso raccolto dal governo”. Perché mai, dunque, dovrebbe preoccuparsene il governo insieme alla Lega e al centrodestra?

Mi sfuggono, semmai, i motivi, le ragioni per cui ci stiano pensando l’opposizione e il PD. Forse perché è più facile – e popolare - combattere i Baroni che il Cavaliere.
(31 maggio 2010)

Una delle prove della sterilità delle attuali forze politiche

LINEA DI CONFINE

Se l'Università rottama i professori a 65 anni
di MARIO PIRANI


Tratto da Repubblica.it
31 maggio 2010

Speriamo di sbagliare ma è lecito il timore che qualche spiraglio di demagogia riesca ad influenzare il Pd. Con la suggestione che laddove gli argomenti della ragione non riescono a prevalere l'appello populista, di cui - non dimentichiamolo - la destra ha l'imbattuto copyright, riesca a rianimare gli spiriti. Di qui il ricorso all'improperio di un personaggio serio e di buon senso come Bersani, ma ancor più grave il documento sull'Università votato senza discussione dalla stessa assemblea del Pd che aveva applaudito in piedi l'epiteto contro la Gelmini. Si tratta di un documento proposto da una esponente delle nuove leve, la professoressa Maria Chiara Carrozza, direttrice della Scuola Superiore Sant' Anna di Pisa, responsabile del "Forum Università Saperi Ricerca" del Partito che lo aveva già illustrato in una intervista alla Stampa. Il clou dell'iniziativa è individuabile in una "rottamazione" generale dei professori al compimento dei 65 anni (di contro agli attuali 70). Da qui si dovrebbero ricavare risorse capaci di finanziare un cospicuo turn over a favore dei ricercatori. Era stato annunciato che questa innovativa riforma sarebbe stata discussa all'assemblea nazionale assieme ad altri temi (lavoro, giustizia, ecc.) ma risulta che solo sul tema del lavoro le proteste del professor Ichino sono sfociate in una discussione e votazione a maggioranza dei 700 delegati, ma su un argomento complesso come quello della cultura universitaria (a cui non molto tempo fa Italianieuropei aveva dedicato un appassionato e documentato seminario) è stato ridotto al rango di un qualsiasi odg che si vota in assemblea con un Sì o con un No.

Non resta che rifarsi all'intervista di presentazione, la cui forma e contenuto riecheggiano la animosità antiaccademica propria di alcuni ambienti della destra leghista ed ex-An: "mandare a casa i vecchi" e "fare largo ai giovani!", togliere potere ai "baroni", presentati come anziani nullafacenti, attaccati alle loro cattedre, ecc. Il riferimento al potere dei baroni, per chiunque conosca appena la situazione di disintegrazione del sistema e la metamorfosi delle funzioni e dei ruoli tradizionali della ricerca e degli studi all'interno delle Università-Aziende, appare come una farsesca ripresa degli slogan dei movimenti sessantotteschi, e infatti viene oggi adoperato in funzione apertamente populista da parte di associazioni studentesche di sinistra e di destra, (in particolare Azione Giovani). Ma colpisce ancora più l'insipienza del ragionamento che supporta la proposta stessa, e che consiste nella convinzione dell'effetto benefico che il cosiddetto "shock generazionale" dovrebbe produrre all'interno di un sistema delicato qual è quello dell a ricerca e degli alti studi. Secondo la professoressa Carrozza il ricambio di competenze e di esperienze può, anzi deve, realizzarsi attraverso traumatiche liquidazioni di esperienze di gruppi e di scuole, deve prodursi cioè con sostituzioni di stock di personale. Un conteggio approssimativo degli effetti della proposta, se attuata ad oggi, lascerebbe prevedere la sparizione da un giorno all'altro di circa 6.000 professori, di cui 4.000 ordinari, con una falcidie di specializzazioni scientifico-disciplinari difficilmente recuperabile o risanabile, e con un abbassamento di qualità e di prestigio globale della nostra Università. Nel quinquennio successivo si aggiungerebbero altri 5.000 pensionamenti di ordinari e 3.200 di associati, con un ricambio di circa il 50% dei professori titolari di cattedra. Per valutare la poca consapevolezza che sovrintende questa trovata, va ricordato che l'esodo fisiologico, al compimento dei 70 anni, prevede peri prossimi dieci anni l'uscita di 9000 ordinari e 5200 associati e che il bilancio risultante da questo esodo assicura già un ordinato scorrimento di carriera per gli attuali ricercatori, nonché un reclutamento di nuovi ricercatori a tempo determinato.