sabato 31 dicembre 2011

Due testi per augurarci buon anno: Don Tonino Bello e l'anno vecchio

Ringraziamento fine anno
(Tonino Bello)

Eccoci, Signore, davanti a te.
Col fiato grosso, dopo aver tanto camminato.

Ma se ci sentiamo sfiniti,
non è perché abbiamo percorso un lungo tragitto,
o abbiamo coperto chi sa quali interminabili rettilinei.

È perché, purtroppo, molti passi,
li abbiamo consumati sulle viottole nostre, e non sulle tue:
seguendo i tracciati involuti della nostra caparbietà faccendiera,
e non le indicazioni della tua Parola;
confidando sulla riuscita delle nostre estenuanti manovre,
e non sui moduli semplici dell'abbandono fiducioso in te.

Forse mai, come in questo crepuscolo dell'anno,
sentiamo nostre le parole di Pietro:
"Abbiamo faticato tutta la notte,
e non abbiamo preso nulla".

Ad ogni modo, vogliamo ringraziarti ugualmente.
Perché, facendoci contemplare la povertà del raccolto,
ci aiuti a capire che senza di te,
non possiamo far nulla. Ci agitiamo soltanto.

Ma ci sono altri motivi, Signore, che, al termine dell'anno,
esigono il nostro rendimento di grazie.

Ti ringraziamo, Signore,
perché ci conservi nel tuo amore.
Perché continui ad avere fiducia in noi.

Grazie, perché non solo ci sopporti,
ma ci dai ad intendere che non sai fare a meno di noi.

Grazie, Signore, perché non finisci di scommettere su di noi.
Perché non ci avvilisci per le nostre inettitudini.

Anzi, ci metti nell'anima un cosi vivo desiderio di ricupero,
che già vediamo il nuovo anno
come spazio della speranza e tempo propizio
per sanare i nostri dissesti.

Spogliaci, Signore, di ogni ombra di arroganza.
Rivestici dei panni della misericordia e della dolcezza.
Donaci un futuro gravido di grazia e di luce
e di incontenibile amore per la vita.

Aiutaci a spendere per te
tutto quello che abbiamo e che siamo.
E la Vergine tua Madre ci intenerisca il cuore.
Fino alle lacrime.

Don Tonino Bello

Tratto da
http://www.qumran2.net/

Due testi per augurarci buon anno: Severgnini e il nuovo anno

TRE PAROLE CHIAVE
Incertezza, Semplicità e Coraggio
Gli italiani e le difficoltà: ci insegneranno a costruirci un futuro


Alla fine del 2011 una certezza, il mondo, sembra averla: siamo tutti incerti. È un coro, più che un'opinione. Attraversa i social network e i media tradizionali, le conversazioni e le pubblicazioni. Si va dal catastrofismo Maya, che ha spiazzato gli astrologi, al disfattismo economico, che ha terrorizzato i risparmiatori.
Se contassimo le copertine e i titoli che la stampa di lingua inglese ha dedicato, quest'anno, all'inevitabile collasso dell'euro, potremmo concludere che in Europa siamo tornati al baratto, o a scambiarci conchiglie.
Non è andata così. L'Italia, l'Europa e il mondo sono arrivati alla fine di un altro anno impegnativo, ma non inutile. La sensazione è che - lentamente - stiamo capendo cosa è importante. È in atto un processo di semplificazione che non riguarda solo una moneta o l'economia; tocca la vita privata, la vita pubblica, il diritto e quasi tutte le industrie che conosciamo.
Bisogna lavorare meglio, lavorare più a lungo, sprecare meno e non rubare: più che un programma, è diventato un obbligo, per l'Italia e non solo. Ci stiamo rendendo conto quali sono le cose che contano; e abbiamo meno pazienza per le cose e le persone che non contano. È il compiacimento che porta agli eccessi, alla superficialità e alla tolleranza dell'incompetenza: lo ha dimostrato, nel 2011, la politica italiana, ma il fenomeno è più diffuso. Tocca le aziende, le famiglie e le persone. «Back to basics»: tornare ai fondamentali è un esercizio che ogni società, periodicamente, deve compiere.

Noi italiani possediamo un ottimismo infettivo: è la nostra fortuna e la nostra disgrazia. Ci mettiamo più di altri - certamente più degli scettici nordeuropei, dei pratici americani, dei realistici cinesi, dei fatalistici russi - a capire che le cose non vanno. Ma quando lo abbiamo capito, siamo capaci di ingegnarci perché cambino. Stavolta sarà necessario più ingegno e più impegno del solito. Perché al netto delle metafore western e sportive di Mario Monti (precipizi, avvoltoi, corse a ostacoli) è chiaro qual è la lezione del 2011: dobbiamo cambiare comportamenti. Lo dobbiamo a chi viene dopo di noi.
Non essendo sciocchi, e se saremo seri, potrebbe accadere. Chissà che il 2012 non sia l'anno del sollievo dopo lo spavento. In un «mondo di modernità multiple, interdipendente e globalizzato, senza un centro politico o un modello dominante» (Charles Kupchan), c'è spazio per tutti: basta fare bene qualcosa, ed evitare errori. L'indignazione - secondo alcuni la parola dell'anno - non è altro che la richiesta di capire. Come funziona la finanza, per esempio, la cui protervia sta diventando insopportabile.

I problemi sono ormai chiari, manca il coraggio delle soluzioni. È chiaro - per tornare all'Italia, citata spesso in questi giorni come caso esemplare della conversione necessaria - che abbiamo bisogno di procedure semplici e trasparenti, di un sistema fiscale equo, di trasporti efficienti, di mezzi per la sanità e l'istruzione cui siamo abituati. La battaglia ingaggiata nel 2011 è contro la Red Tape Industry, l'industria della complicazione burocratica, che nel nostro Paese ha il quartier generale, produce fatturati enormi e tenterà di difenderli.

Anche la tecnologia e i social network segnalano questa tendenza alla semplificazione. Se Amazon macina record - ora anche in Italia - è perché fa una cosa molto bene: ti porta a casa quello che desideri, quando lo desideri. Se la Apple di Steve Jobs ha stravinto, è perché offriva - e offre - prodotti più belli ed essenziali della concorrenza: è stata la prima a sbarazzarsi dei libretti d'istruzioni. Facebook resta dominante, ma comincia a mostrare qualche crepa. C'è chi ha detto: serve a mentire agli amici, mentre Twitter aiuta a esser sinceri con gli sconosciuti. Non solo: molti si stanno chiedendo chi siano, questi «amici», e se valga la pena sopportare a lungo l'ipocrisia di quelle virgolette.

Un altro anno è andato, la sua musica è finita, cantava Francesco Guccini, gran contabile delle nostre malinconie collettive. Non è stato, ripeto, un anno inutile. È servito a distinguere il necessario dal superfluo. La società occidentale - che conta meno, ma conta ancora - è uscita dal «paradosso del progresso» descritto da Gregg Easterbrook nel 2003. Nel decennio scorso, la vita migliorava e la gente si sentiva peggio. Non è escluso che le difficoltà, da qui al 2020, ci insegnino ad organizzare, risparmiare e apprezzare ciò che abbiamo. E a costruirci un futuro.

Oggi è sabato, c'è tempo. Guardate il video «Zeitgeist 2011» messo in rete da Google. La canzone di sottofondo - deliziosa - è di Mat Kearney, il primo verso recita: «We're all standing with our backs against the wall, sooner or later», ci ritroviamo tutti con le spalle al muro, prima o poi. Be', ci siamo già. E non è necessariamente un male. Perché in quella posizione - quando non si può più arretrare - si trova la forza di reagire. O ci si arrende: ma noi non vogliamo farlo.
Zeitgeist 2011 si chiude con una scritta digitata nel campo di ricerca: «We made it», ce l'abbiamo fatta. Certo, è una semplificazione. Ma ne avremo bisogno, a partire da domani.

Beppe Severgnini
31 dicembre 2011

Tratto da
www.corriere.it

mercoledì 21 dicembre 2011

Auguri per un Natale in cui respirare ossigeno nuovo e progettare un domani migliore

"Quando il Dio-Bambino, che nelle sue manine teneva il mondo intero, le protese compassionevole alla Madre, terra e cielo si fermarono in somma venerazione.
Quando colui che era venuto a scaldare con il suo amore tutte le creature assiderate dal freddo della morte si scaldava al fiato del bue e dell'asino legati nella stalla, anche gli alberi vegliavano"
(Pavel Aleksandrovič Florenskij)

Vi auguriamo con tutto il nostro cuore di sperimentare in questo Natale, assediato da paure e difficoltà, la stessa potenza e lo stesso calore che questa nascita comunica a tutti i cristiani: la potenza di una novità che sia in grado di ridare il giusto senso e il giusto verso alle nostre vite, aiutandoci a distinguere ciò che è indispensabile da ciò che è inutile; il calore di un amore a cui affidare le nostre vite e in cui sciogliere ogni tristezza, aiutandoci a camminare in buona compagnia verso la felicità.

Luca e Vale

mercoledì 23 novembre 2011

“Per fare un tavolo ci vuole un fiore”. I giovani e una nuova primavera della politica

Nell’epoca che continua a generare vite in stato di emergenza, si possono riscontrare, tra le altre, due tendenze opposte: una privatizzazione delle esistenze, che riduce la politica a tecnica di difesa dalla paura (“Mi interessa solo ciò che avviene dentro le pareti domestiche, da proteggere con siepi e muri di cinta”); un surplus di impegno civile, che convive con la zavorra di una sfiducia sempre più radicale nei confronti della politica (“Mi interesso degli altri, ma in forme immuni da una politica malata terminale”). Quest’ultima è forse ancora la regione più densamente frequentata dai giovani, per lo meno da quanti hanno deciso di ingaggiare una lotta serrata tra la propria natura, fisiologicamente audace e inquieta, e la cultura che li circonda, patologicamente prona al consumo dell’istante; ma persino coloro che tentano di ribellarsi all’idea di una distanza incolmabile dagli altri e dal futuro sono oramai affetti da una cronica disaffezione verso la politica e da un calo del desiderio riguardo l’impegno politico.
Senza tornare sulle molte motivazioni di quest’anomalia, è forse l’ora di spalancare qualche finestra dopo l’inverno e sentire l’odore di una nuova primavera, in cui protagonisti sappiano essere proprio quei giovani che fino ad ora hanno preferito restare in secondo piano, magari piegandosi silenziosamente sugli ultimi, piuttosto che quanti - pochi ma microfonati - hanno deciso di adeguarsi ad una sceneggiatura scadente, pur di proferire parola in storie già scritte, credendo di accreditarsi con professioni pubbliche di fede e rivendicazioni identitarie. C’è bisogno di questi giovani, non di giovanilismi: forti di una fede che può essere solo sovversiva (tanto meno incastonabile in un partito); pazienti nei tempi della semina e del raccolto, che non è detto spetti loro; capaci di diventare esempio e testimonianza in un quadro di cui la stretta attualità evidenzia la miseria.
Torna allora preziosa una delle storielle solo apparentemente banali di Gianni Rodari.
Per fare un tavolo ci vuole il legno. La politica è convivialità delle differenze, per usare un’espressione cara a Don Tonino Bello, in cui ci si siede tutti allo stesso tavolo: non per assistere allo spettacolo delle differenze, ma per farle dialogare; non per spartire la mensa, ma per condividerla; non per decidere i ruoli, ma per dirsi che tutti sono responsabili di tutti. E chi meglio dei giovani credenti deve ricordare come stare alla mensa non voglia dire cedere a compromessi, ma mirare al bene qui e ora, ricordarsi di gettare lo sguardo non solo su chi occupa il capo della tavola, che spesso ubriaca di promesse, ma su quanti, ai piedi, chiedono le briciole? Il tavolo ha bisogno del legno, come la politica deve nutrirsi della vita quotidiana di ognuno, della sua esperienza, del suo equilibrio e dei rapporti, anche lavorativi, che le danno senso. A motivo di ciò un quotidiano della precarietà non permette una riappropriazione matura della coscienza politica; avere un lavoro (e tornare al proprio lavoro) può consentire di guardare alla politica realmente come servizio; un lavoro che non c’è non può far diventare lavoro ciò che lavoro non è. Il rischio è di finire schiavi di logiche interne ad un mondo che ha la sola necessità della propria riproduzione: i giovani che iniziano a vedere nella politica la soluzione dei propri problemi lavorativi non si rendono conto che stanno già svendendo i loro seppur nobili ideali sullo stesso mercato che rinnegano.
Per fare il legno ci vuole l'albero, per l'albero ci vuole il seme, per il seme ci vuole il frutto, per il frutto ci vuole un fiore. Per ottenere un buon legno l’albero deve essere ben radicato nel terreno: ai giovani è proibito non interessarsi di ciò che succede attorno a loro, perché il prezzo del disinteresse è un appalto di potere ad altri da cui si finisce per dipendere, perché se non si avverte questa reciprocità con il mondo che abitiamo e il tempo che viviamo si diventa aridi e privi di linfa. Senza dimenticare che un cristiano, in virtù del Dio fatto uomo in cui crede, ha l’obbligo, come ben dice Don Arturo Aiello, di essere nella storia, appassionarsi della storia e dell’uomo, perché la storia e l’uomo sono luoghi di grazia. Ma l’albero cresce dal seme e il seme proviene a sua volta dal frutto: questo è forse l’impegno più arduo che spetta ai giovani, ovvero quello di essere insieme, in questo momento storico e in questa nostra Italia, seme e frutto, senza bruciare i tempi, ma rispettando le stagioni. Essere il seme di nuove forme di partecipazione e cittadinanza, all’altezza di sfide alle quali si può rispondere solo con la progettualità, solo con il coraggio, solo con l’entusiasmo di guardare lontano; essere il seme di un abitare che metta al centro davvero l’uomo e non il cemento, che ricostruisca l’uomo, per citare ancora Don Tonino Bello, più che costruirgli (o magari condonargli) la casa. Ma anche essere frutto, che ha resistito alla siccità e all’aridità perché ha attinto acqua altrove, sapendo scegliere le sorgenti sotterranee di un impegno lontano dall’immediato e dall’effimero, e rifiutare le fonti avvelenate della ricerca ossessiva di leader: l’Azione Cattolica è in questo miniera inestimabile di esempi di santità quotidiana e fioritura di un carisma partecipato, mai affidato ad alcun capo carismatico.
Per fare un tavolo ci vuole un fiore. Ai giovani spetta il compito di ricordare che persino per quel tavolo che è la politica serve coltivare la bellezza e la gratuità, ma soprattutto un’altezza di ideali che non significa distacco dalla realtà. In un tempo in cui tutto sembra appaltato al tecnicismo e l’utilità si misura solo con la produttività, i giovani non possono dimenticare che la politica non si risolve nei numeri o nell’efficienza, ma ha realmente bisogno di sogni; di sogni che rilancino il “non per profitto” e promuovano il valore di ciò che appare inutile secondo il vocabolario dei nostri tempi: la cultura, la civiltà, i legami. Ai giovani è dunque chiesto di avere a cuore la poesia di questo fiore e parafrasarla con una prosa all’altezza; di impegnarsi per una politica che sia profezia, non favori di cui vergognarsi; mappa dei bisogni reali, non strategie della scorciatoia; occhio e orecchio sull’umano, non autismo procedurale. Allora agli adulti sarà magari più facile, come ben scrive Ernesto Olivero, farsi dominare dai giovani che crescono nella fedeltà a Dio e dare loro responsabilità anche superiori alle proprie.

Luca Alici



Testo pubblicato sulla rivista mensile dell'Azione Cattolica "Segno", del novembre 2011, intitolata "Educarsi alla politica, educare la politica". Per info: http://www2.azionecattolica.it/

sabato 5 novembre 2011

Adesso BASTA!!

«Mi sembra che in Italia non si avverta una forte crisi. La vita in Italia è la vita di un Paese benestante. I consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto». Questa è l’ultima uscita in ordine di tempo del "Mio" Presidente del Consiglio; questa è l’uscita che mi ha spinto a scrivere queste righe, come classica ma indecente goccia che fa traboccare un vaso pieno zeppo di delusione, ma fin qui costretto a pensare ad altro piuttosto che a scrivere del proprio sdegno.
Lo faccio ora mosso dall’inaccettabilità di un flatus voci distante dalla realtà di tutti e vicino solo a se stesso, incompatibile con una idea di bene comune nella stessa misura in cui com-patisce solo un bene personale che coincide sempre più con una personale sopravvivenza politica; lo faccio ora mosso dall’esempio di un cittadino toscano, di cui non ho strumenti tecnici per valutare la qualità della proposta economica, ma di cui non posso non apprezzare lo sforzo economico per acquistare una pagina del Corriere, pur non essendo Della Valle, e dal cui amore per il proprio Paese mi sento trascinato. In virtù di questi due stimoli, mi sento di dire anche io “BASTA, ADESSO BASTA DAVVERO”, ma anche “FORZA, ORA SERVE IL MEGLIO DI OGNUNO DEI MIGLIORI”.
Dico “BASTA”, perché faccio fatica a sentire come mio un Presidente del Consiglio che finge di ignorare la verità, che fa finta di non sapere quanto persino io sia più rappresentativo della nostra Italia piuttosto che lui, la sua vita, le sue idee e le sue parole (e persino più di quanti continuano a spendere indebitandosi, rispetto ai quali lui non ritiene di fare da padre saggio, ma solo da avvilente testimonial): vivo da cinque mesi senza uno stipendio, da quattro anni il mio contratto di lavoro in università è annuale; mia moglie è laureata in beni culturali, per due anni è stata schiavizzata da quel precariato barbaro che ha assalito e conquistato anche le cooperative e ora lavora tre ore al giorno insieme ad un commercialista e ad una ragioniera grazie alla sua tenacia (che l’ha portata a mettersi in gioco a fare ciò per cui non ha studiato per ben otto anni) e alla disponibilità di sua zia; sono circondato da amici che non trovano sbocchi in università, che si vedono accorciare il proprio monte ore di commessi nei negozi dei centri commerciali, di disoccupati con una laurea che è più deflazionata della moneta corrente. Ecco, mi sento un campione statistico dell’Italia, di questa Italia di questo esatto momento storico, ma mi sento uno dei campioni statistici ancora messi meglio: perché ho due famiglie, quella di mio padre e mia madre e quella della mamma di mia moglie che riescono a darci dei soldi, a farci spesa e mettere qualcosa per pagare la rata del mio mutuo che altrimenti non saprei come pagare; perché ho una rete di rapporti, amicizie, esperienze e servizi che danno il senso alla mia vita, pur nella loro totale gratuità; perché credo in un Dio che è personale e provvidenziale, al quale comunque mi sento di affidare la mia vita e, sbagliando, non ancora un figlio (vittima incolpevole della contabilità domestica). E allora dico BASTA alla porcheria di parole indecenti non tanto per rispetto mio, ma per rispetto dei molti che stanno peggio di me e che magari non si possono permettere nemmeno di trovare cinque minuti per scrivere questo sfogo. BASTA Presidente del Consiglio: non si permetta più di dire qualcosa di simile, perché così si spoglia non di ciò di cui è abituato a spogliarsi, i suoi vestiti, ma di ciò che crede di avere addosso per diritto e prepotenza, la sua credibilità politica e la sua dignità di uomo rispettoso degli altri. BASTA persone che state vicino a questo "Mio" Presidente del Consiglio: abbiate un po’ di coraggio per sdegnarvi e abbiate la dignità per non fare calcoli personali in questa fase, perché se un pezzo della vostra dignità magari l’avete già venduta, fermatevi e fermatelo, prima di vederla tutta messa nelle mani di chi non merita neppure voi.
Ma dico anche “FORZA”, e lo dico a tutti coloro che fin qui hanno pensato di non essere all’altezza e di non essere significativi, lo dico a tutti i giovani che sono chiamati a prendere in mano il proprio Paese, lo dico a tutti i più grandicelli perché non credano che le loro fatiche siano finite, lo dico a quanti hanno esperienza nei mille rivoli dell’Italia migliore (associazionismo, volontariato, terzo settore): a voi tutti dico che serve il vostro essere il meglio del nostro paese e il meglio di voi. Serve che dal basso venga piantato e germogli il seme di un nuovo modo di vivere la propria vita e di sentirsi partecipi e protagonisti della vita dei propri paesi e del proprio Paese. Questa crisi così generale e generalizzata deve diventare occasione per farsi promotori di una nuova mentalità, per farsi portavoce di nuovi messaggi, per farsi tessitori di nuove relazioni, per farsi costruttori non più di case da condonare ma di una umanità che sappia davvero abitare questo tempo. E allora FORZA davvero, FORZA a uomini e donne che sappiano servire e non assecondare, FORZA a ragazzi e ragazze che sappiano inventare ed ideare piuttosto che spaccare e abdicare, FORZA a lavoratrici e lavoratori che sappiano rivendicare senza compromessi diritti e qualità invece di cedere alla quantità e al sopruso, FORZA a dirigenti, imprenditori e politici che sappiano dare un volto maturo alla responsabilità piuttosto che dare i contorni del privilegio al proprio vivere, FORZA a insegnanti, guide spirituali, sacerdoti ed educatori perché siano i primi testimoni che questo è il momento per rivoluzionare i cardini delle nostre vite e non per scovare nuove scorciatoie, FORZA, infine, a quanti sapranno avere e comunicare la pazienza e la tenacia del vero futuro, affinché ogni generazione impari a pensare a chi ci sarà dopo di sé e predisponga tutto il possibile perché stia realmente meglio.

Luca Alici

venerdì 4 novembre 2011

Ospito una bella riflessione del Prof. Norberto Patrignani, docente di Computer Ethics alla Scuola di Dottorato del Politecnico di Torino

"Stay hungry, stay foolish"
The Whole Earth Catalog
Steward Brand, 1975 circa.

In memoriam - Steve Jobs

Caro coscritto,
da quando sei mancato qui tutto il pianeta ti sta ricordando con una frase, "stay hungry, stay foolish", che ti attribuiscono.
Ho ascoltato con attenzione il tuo discorso di fronte ai neo-laureati di Stanford del 2005 dove citi la vera fonte di quelle parole: Steward Brand.
Ho apprezzato molto il racconto della tua vita tenuto in quella occasione perché riconosci con onestà il grande contributo dato alla tua formazione dalla cultura californiana di quegli anni, i mitici anni '60.
Mi ha colpito nel tuo discorso la citazione della rivista The Whole Earth Catalog, fondata nel 1968 proprio da Steward Brand. Per molti di noi resta il crogiuolo più rappresentativo di quegli anni pieni di speranze per il futuro. Ci scrivevano autori come Amory Lovins, Ivan Illich, Ursula K. Le Guin, Gregory Bateson, etc.
Molti di noi erano convinti che la conoscenza e l'innovazione avrebbero contribuito a creare un mondo più sostenibile dal punto di vista sociale ed ambientale. Nascevano i movimenti che avrebbero cambiato per sempre le sensibilità di tutti noi.
Fanno sorridere oggi i racconti delle riunioni al "Homebrew Computer Club" (il club del computer auto-costruito) di Palo Alto dove discutevate liberamente di tecnologia con Lee Felsenstein e tanti altri. Bello il tuo colpo di genio del 1975, quando a vent'anni vendi il tuo Volkswagen e Wozniak la sua vecchia calcolatrice HP per poter costruire nel garage dei tuoi il secondo personal computer (infatti sappiamo tutti che il primo personal computer della storia è la Olivetti P101 presentata alla Fiera di New York del 1965, dieci anni prima di voi).
Quando uscivamo a mangiare un panino dal cinese che arrivava con un carrello di hotdog davanti alla sede della Olivetti di Cupertino, di fronte a noi vedevamo crescere la tua impresa che, per molti, sarebbe diventa il simbolo stesso del cambiamento continuo (a proposito, è vero che la mela morsicata è un tributo a Alan Turing?).
Dobbiamo riconoscere che la tua azienda, anche riusando idee di altri, cambia radicalmente l'interfaccia con la macchina quando immette sul mercato il computer con il mouse (inventato da Douglas Engelbart e Bill English nel 1963) e con l'interfaccia a finestre (inventata dal Palo Alto Research Center della Xerox nel 1973).
L'innovazione, il vecchio che lascia il posto al giovane, come spieghi molto bene, è il ciclo stesso della vita. "Think different" recita, appunto, l'azzeccato slogan coniato dall'agenzia di pubblicità TBWA nel 1997 per il lancio sul mercato dell'iMAC. Tutto il resto è noto.
Il problema, caro coscritto, è che qui tutto il pianeta ti sta celebrando come un profeta, la gente fa processioni con le candele in mano. Qualcosa non torna. Non si capisce perché l'innovazione che crea valore per gli azionisti (oggi l'azienda fattura circa 60 miliardi di dollari) viene vista di per sé come qualcosa addirittura di spirituale. Sarà pure una questione di "brand community" o di "life-style" ma forse neanche tu ti trovi a tuo agio in questo trionfo di melassa nostalgica un po' di cattivo gusto.
Ora, so bene che la responsabilità sociale dell'impresa non è mai stata tra i tuoi interessi ma la creazione del valore comporta un lavoro da parte di qualcuno. Come la mettiamo, ad esempio con gli iPad, prodotti dai lavoratori della Foxconn a Shenzhen, Cina, dove le condizioni di lavoro sono terribili, sia dal punto di vista contrattuale che dal punto di vista ambientale?
Nel 1955, quando tu nasci, Adriano Olivetti, un imprenditore visionario di Ivrea, Italia, prova a coniugare innovazione e responsabilità sociale, arte e tecnologia, cerca di costituire una comunità basata sulla condivisione e sulla bellezza, ma purtroppo muore prima di riuscire a costituire una struttura capace di continuare la sua opera, di sopravvivergli. Una storia completamente diversa dalla tua.
La tua azienda non è mai stata così bene economicamente in tutta la sua storia, ma il prezzo è anche quello di impedire agli utenti di andare oltre le interfacce fornite, la conoscenza incorporata nelle macchine non è libera ed accessibile. Ormai gli utenti non sono più liberi nemmeno di installarsi le applicazioni, devono passare dai server dell'azienda. Mi sembra una scelta un po' distante dal sogno del "personal" computer della Olivetti P101 del 1965 o del "club del computer auto-costruito" di Palo Alto del 1975. Ma anche questo non è mai stata una preoccupazione per te che non hai mai nascosto la tua predilezione per le tecnologie chiuse e proprietarie.
Infatti chi vuole più libertà sceglie il software libero, l'hardware libero, i dati liberi. Le immense risorse della tua azienda avrebbero potuto essere indirizzate verso una nuova rivoluzione industriale? Rendere le condizioni di lavoro più umane, le tecnologie più libere ed aperte, con minore impatto ambientale? Non lo sappiamo, ma sicuramente non è quello che ti ha ispirato.
Sicuramente ti ha ispirato lo "Stay hungry, stay foolish" di Steward Brand.
Soprattutto quando da ragazzo vendevi i vuoti delle lattine, raccolte per le strade di Portland, a cinque centesimi l'uno o quando per poter mangiare qualcosa andavi a fine settimana al tempio degli Hare Krishna. Il tuo sogno, la tua passione ti hanno salvato, reso ricco e famoso in tutto il mondo.
Oggi qualcuno addirittura ti paragona a Adriano Olivetti. Forse questo è troppo: tra innovazione e responsabilità sociale, tu hai sempre scelto solo l'innovazione, a qualsiasi costo. In questo momento dobbiamo rispettare anche la tua storia, oltre al silenzio per la tua morte, senza operazioni di nostalgia che non hanno niente a che fare con la verità. E che non avresti apprezzato nemmeno tu.

Ciao Steve, riposa in pace.

Norberto Patrignani
Ivrea, Ottobre 2011

Articolo tratto da www.centrosanrocco.it

mercoledì 31 agosto 2011

Campo di servizio a Falconara: a caldo

All’improvviso, appena mi sono voltato verso la porta, ho sentito qualcuno saltare e atterrare sulle mie spalle. Era l’ultimo giorno della nostra settimana a Massignano ed è stata subito un sensazione strana e forte: non ho avvertito il peso, ma la leggerezza, quasi anomala, di un corpo, giovane e magro, ed in quella leggerezza c’erano scritte, insieme, la tragedia e la felicità. Questa è la prima immagine che porto nel cuore di una settimana meravigliosa, in cui il servizio agli altri è diventato un dono per noi, la fatica delle giornate un nuovo modo di scoprire se stessi, le persone che abbiamo visitato tanti volti con cui provare a sorridere e i ragazzi che abbiamo accompagnato la fonte di una bellezza che il nostro tempo spesso dimentica o addirittura violenta. C’era un ragazzo sulle mie spalle, reso esile dal suo passato e leggero dal suo presente: un passato lungo e sofferto di sostanze e dipendenza che lo ha fatto diventare quasi scheletrico; un presente breve e gioioso di compagnia e volti nuovi che gli ha ridato entusiasmo e coraggio. La nostra presenza che diventava sollievo, la nostra normalità che diventava eccezionalità, il nostro ascolto che diventava assenza di pregiudizi: partiti con la paura di dover fare chissà cosa, ci siamo accorti che allacciare relazioni e raccontarsi storie è il modo migliore per scoprirsi e volersi bene.
Torno indietro, riavvolgo il nastro e vedo diciannove ragazzi in cerchio su un piccolo pezzo di prato che si raccontano la loro prima giornata in giro per quattro strutture, uno di fronte all’altro, un po’ indecisi sul da farsi, ma capaci di fermare le loro vite, rubare una settimana di agosto al clima festoso delle vacanze e al richiamo della compagnia dei loro amici: che cosa li spinge e cosa li motiva? Per ora basta questo sì, è sufficiente per essere orgoglioso di loro; per capire il motivo ci sono sei giorni da vivere tutti d’un fiato, con qualche sacrificio e molta pazienza, un pizzico di trascuratezza per sé e tanta curiosità per l’altro. I giorni trascorrono, ma il cerchio e il luogo è esattamente lo stesso: siamo alla fine del campo e ora però hanno tutti capito il motivo della loro scelta, hanno tutti provato emozioni forti (senza sperimentare chissà quali brividi extra-ordinari o indotti) e i loro occhi ce lo comunicano. E questa è per molti versi la felicità: essere insieme a dei giovani che ti lasciano giovane, a dei ragazzi che dove vanno si sentono dire che sono belli, a un gruppo che ti fa capire quanto sia bella la vita di Ac, a delle vite che cercano e sognano, alle quali però, quasi inconsapevolmente, Dio ha fatto il regalo grande di custodirle in questa settimana magnifica, di sorreggerle e di consentire con la sua provvidenza ciò che, comprensibilmente per molti di noi, altrimenti si farebbe fatica solo a pensare.