Piccolo diario di sensazioni frammentate dagli Stati Uniti
(per lo più “solo” in viaggio di nozze) / 1“Questo giorno deve diventare un momento di virtù attraverso l'eredità luminosa che le vittime ci hanno lasciato nell'oscurità di questi giorni. Esse ci chiedono di restare uniti e questo vale oggi e varrà per tutti gli altri 11 settembre perché gli anni che passano non diminuiscono la pena […]. Ogni anno in questo giorno siamo tutti newyorkesi”. Se in gran parte dei suoi interventi, da quando, per fortuna, è presidente degli Stati Uniti, Barack Obama ha avuto lo straordinario merito di trovare parole all’altezza della situazione (basti citare, ultimo in ordine di tempo, il discorso al congresso per presentare la sua idea di riforma sanitaria), stavolta è riuscito persino a trovarle all’altezza del mio stato d’animo, nel giorno in cui, per la prima volta, vivo un 11 settembre “anomalo”, dopo che i miei occhi hanno visto, il mio naso respirato, le mie mani toccato il luogo dove tutto è avvenuto. E mi sembra giusto iniziare da questa data e mi sembra ancora più giusto iniziare da queste parole il tentativo di dare voce a qualche ricordo, sensazione e, soprattutto, contraddizione che gli Stati Uniti mi ha impresso dopo il mio primo viaggio al di là dell’oceano: iniziare con una data che da oggi vivrò in maniera diversa; iniziare da parole che indicano forse l’unico modo in cui si riesce a viverla se si è stati, anche solo per una briciola della propria vita, come nel mio caso, non solo “spiritualmente” newyorkesi.
Qualche pomeriggio fa, quello del giorno fatidico (11/09), in una zappinghevole pausa pomeridiana mi sono fermato sulla sempre interessante La7 e vi sono rimasto quasi forzatamente avvinghiato a causa di un documentario (in questi anni sfuggitomi) in cui venivano ricostruite, grazie al racconto di alcuni superstiti, gli ultimi minuti di vita delle due torri più famose del mondo e dei loro inquilini innocenti e maledetti. Non che fosse realizzato in maniera troppo pregevole, ma stavolta erano i miei occhi ad essere diversi, perché guardavano quelle immagini con una profondità e tridimensionalità che prima non avrebbero potuto avere: ovviamente non mi azzardo a dire che si può comprendere la tragicità di quanto è successo in quel 2001 solo se si è stati a New York, ma mi sento di dire che lo si vive in maniera molto diversa se si è guardata di persona la ferita di una città che ancora faccio fatica a dire cosa rappresenti, tanta è la sua maestosità post-moderna, la sua ricchezza multiculturale, la sua centralità globale, ma che ti offre un importante saggio di se stessa, paradossalmente, proprio da questo baratro. Certo, nove anni or sono, di fronte alla tv del mio appartamento a Perugia, si era fatta fatica, ma si era percepito come in un attimo potesse essere possibile uccidere migliaia di persone, sfregiare la capitale del mondo, costringere milioni di persone a non avere mai più la stessa città, terrorizzare un paese intero e renderlo fragile e impotente, creare una ferita ed una cicatrice sul viso del pianeta: il tutto in un colpo solo; ma ora, di colpo mi sono sentito addosso quella polvere interminabile, lo sgomento dell’insensatezza e la paura terrificante di sirene ossessive, la specificità di quelle strade e di quegli edifici violati, sporcati, distrutti e la globalità che la detonazione ha sprigionato: il tutto in un colpo solo.
E se questo piccolo album di sensazioni si raccoglie attorno al sapore della contraddittorietà, come gourmet, nel bene e nel male, di questo paese così vasto e così indefinibile, forse questa è proprio la prima delle contraddizioni sulla quale gettar luce, anche se l’ultima, in ordine di tempo, tra quelle che mi sono sollevato tra me e me: dimensioni fuori dal comune, grandezze sproporzionate, coordinate spazio-temporale tremendamente vaste e veloci, New York (per lo meno in quel suo campione al tempo stesso attendibile e anomalo che è Manhattan) si impegna, e con successo, a comunicare l’immediatezza di una forza, la sicurezza di un equilibrio, la scorrevolezza di una convivenza fino a quando si arriva di fronte a quel baratro: i lavori in corso tendono a ricostruire non solo il cemento, ma anche la sicurezza e la normalità, e quasi ci riescono, di fronte a te che hai visto in tv la tragedia e ora, dal vivo, non vedi più demolizione, quanto piuttosto ricostruzione; è bastato però rivedere quelle immagini per guardare in maniera nuova anche a quella ferita: di colpo la sofferenza, le grida, le morti, i suicidi, gli eroi, gli scampati, i superstiti divengono le voci assordanti sopra le quali quel modello prova per lo meno a galleggiare. La frenesia sconfitta dall’assenza, la velocità annientata dal vuoto, la perfezione sporcata dall’irragionevole, l’onnipotenza sciolta dalle fiamme: eccola la prima contraddizione che mi regala New York a cavallo di questo nono 11/09, la contraddizione della metropoli che riesce a girare forte e ad aggirarsi perfetta in tondo a qualcosa che perennemente le ricorderà l’ineliminabile fragilità umana e l’insostenibile perfezione dell’autosufficienza.