Le ragioni di una crisi oramai sotto gli occhi di tutti che attanaglia la nostra politica nazionale e la sua miserevole classe dirigente sono a mio avviso molteplici e ben più profonde di quanto il gossip e il killeraggio dossieristico (vedi Fini-Berlusconi) o le dispute personali e personalistiche (vedi Veltroni-D’Alema - ops, Bersani) possano mascherare e meritano ben altro spazio di approfondimento, pur ruotando attorno ad un nodo che inizio ad avere molto chiaro: la totale inadeguatezza progettuale dei nostri politici e l’abissale sproporzione tra le proposte (miopi, tappabuchi e non riformatrici) e la situazione drammatica del nostro paese (uno stile di vita totalmente sovraelevato rispetto a quanto i conti pubblici possono permettere).
Vorrei però in quest’occasione soffermarmi alla superficie per evidenziare, non paradossalmente, come già a questo livello si percepisce uno smarrimento completo della bussola del bene comune e la degenerazione di un’etica pubblica e politica che ha perso la capacità di essere coerente fino in fondo. E lo faccio evidenzando i limiti delle posizioni di due figure che in questo momento della nostra storia politica hanno la ribalta della cronaca nelle vesti di “censori” rispettivamente della cattiva via intrapresa da un lato dalla maggioranza e dall’altro dalla minoranza: Fini e Veltroni.
Perché sull’affaire Fini sembrano avere tutti ragione
La cosa strana di tutto ciò che, in questo periodo, ruota attorno a Gianfranco Fini, di cui non posso che stimare il tentativo di dare un nuovo volto (e spero corpo) alla destra del nostro paese e di cui non posso che accogliere con piacere una critica concreta e solida non a Berlusconi ma al berlusconismo (peccato che i semi di questo nuovo costume sono, dopo quindici anni, tanto diffusi da fagocitare numericamente anche lui), è che sembra che tutti abbiano ragione. Hanno ragione, nei contenuti, i suoi adepti di Futuro e Libertà; hanno ragione, in alcune richieste di chiarimento, alcuni dei suoi “nuovi” nemici del Popolo della Libertà; ma, paradossalmente, hanno tanto più ragione due figure tra loro lontanissime, Mario Campi (ideologo di Fare Futuro) e Antonio Di Pietro (padre dell’Italia dei Valori), che condividono un medesimo appello: lasci la presidenza della camera e si senta libero di dare seguito a ciò che predica. La rivendicazione di una purezza di ideali si mescola infatti in questo caso ad un realismo politico che qualche interrogativo lo pone: se possiamo infatti accettare che il recente passato di Fini sia stato una machiavellica convivenza forzata con Berlusconi per ottenere spazio, tempo e microfono al fine di costruire e rendere visibile una destra alternativa (il fine giustifica i mezzi), può questo meccanismo valere ancora? Può cioè il nostro Presidente della Camera spingersi alle dichiarazioni che ha fatto nei confronti di Berlusconi (politiche, etiche, economiche) e convivere ancora con lui? Nel momento in cui rivendica una supremazia della sua etica pubblica, non può scinderla da una presa d'atto e da una presa di posizione vera che culmini con una scelta altrettanto chiara: se Berlusconi è quello che lui ora dipinge come può essere alleato di chi gestisce, a suo dire, società offshore e faccendieri in Sud America? Certo che l’Italia ha bisogno di stabilità come altrettanto certo è che occorre essere fedeli ad un chiaro mandato elettorale: ma il bene comune e la purezza degli ideali, al cospetto di un male tanto sventolato e attaccato, non viene prima anche di tutto ciò?
Dal sacrificio è risorto solo Gesù
Nonostante alcuni passaggi potessero farlo immaginare (“non farò agli altri ciò che hanno fatto a me” sa di una invidiabile ripresa della Regola d’Oro così come nel Vangelo è ripresa e attualizzata), Walter Veltroni deve capire che non è la re-incarnazione di Gesù. Al di là della battuta, quasi blasfema, che intendo dire? Penso che, al di là del fatto che il suo gesto di qualche mese fa (quando ha lasciato la segreteria del PD) sia da intendesri come suicidio politico o come sacrificio (io tendo ancora fiduciosamente a propendere per la seconda), egli ha in quell’occasione ucciso una sua precisa presenza pubblica e un suo chiaro ruolo dentro al PD, che non può pensare di riproporre: il suo gesto è stato un gesto ultimo, ultimativo e definitivo, dal quale non si torna indietro; dal sacrificio non si resuscita. Fuor di metafora: a Veltroni spetta il diritto di dire la sua nelle molte sedi istituzionali del partito che ha modo di frequentare, a Veltroni spetta di avere un’opinione su quella che deve essere la rotta del partito di cui è importante parlamentare, ma non spetta più di parlare da leader, di smuovere le acque di correnti o pseudo-correnti rispetto alle quali non può più rivendicare un ruolo ufficiale, non spetta più di tornare ai vecchi giochi da cui è voluto uscire e, se anche il suo sacrificio non ha avuto l’esito che sperava, il suo gesto rimane e deve restare coerente con esso. Certo che il Pd ha bisogno di una nuova marcia e di un nuovo scatto altrimenti il progetto è destinato a morire, senza essere mai nato veramente: ma anche in questo caso il bene comune del partito e la purezza di precisi ideali alla base di una progettualità alta, al cospetto di un'inerzia criticata e attaccata, non viene prima delle solite becere lotte per la leadership?
Come mai allora persino chi si candida a purificare la politica dalle sue derive personalistiche (Fini nel caso del Presidente del consiglio) o dai sui limiti partitici (Veltroni nei confronti di un Segretario che ha fin qui deluso) finisce per ricadere nel circolo vizioso di una “realpolitik” che sembra rendere impossibile, nei loro casi, essere coerenti fino in fondo e inaugurare una strada nuova, che sia un partito magari non ancora in grado di vincere le elezioni (Fini) o un confronto lontano dai giornali, ma capace di portare risultati veri, fuori da ogni disputa vecchia e logora (Veltroni)?
Analisi del 2015
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