Nel V secolo a.C, Protagora, come buona parte della tradizione classica, ricorre ad un mito per narrare le prime origini della vita dell’uomo in comunità: per salvare gli uomini da uno sterminio Zeus invia loro, tramite Ermete, aidòs e dìke, ovvero correttezza e giustizia; Zeus però decide in questo caso una distribuzione diversa rispetto a quella utilizzata nel caso delle téchnai, ovvero delle capacità professionali; se infatti può essere sufficiente l’istituzione di un persona capace in medicina, a servizio di numerose altre, correttezza e giustizia vanno riversate su tutti gli uomini, perché solo così tutti possono essere partecipi; se correttezza e giustizia fossero possedute solo da qualcuno, come avviene per le professionalità, non vi sarebbe città; ne deriva che tutti i cittadini non in virtù dell’attività professionale, bensì di queste doti, possono intervenire negli affari “comuni”. In uno dei suoi interventi sui nostri quotidiani Roberto Saviano di recente ha scritto: “Mi guardo intorno e penso: come deve sentirsi un giovane italiano che voglia usare in politica la sua passione civile, il suo talento? La politica di oggi lo incoraggia o lo spaventa? E qual è il prezzo che tutti paghiamo per questa esclusione e per questa diffidenza? Qual è il costo sociale della paura?”.
Da un lato la saggezza antica e profonda che scava fin nelle radici antropologiche, dall’altro le domande assillanti del nostro presente tutto italiano; da una parte la capacità di cogliere le doti e le virtù del paradigma di una buona politica; dall’altro la paura che i talenti migliori vengano divorati dai limiti della nostra cattiva politica. Che cosa unisce questo mito del V secolo a.C, raccontato da un retore e da un filosofo, capace di guidarci con immediatezza su un piano universale, con le riflessioni di un giovane scrittore del 2000 e qualcosa d.C., che guarda la sua Italia e ne denuncia i problemi che la tengono in scacco o sotto ricatto continuo? Il rapporto tra politica, lavoro e professionalità, che, da allora fino ai giorni nostri, continua a costituire oggetto di riflessione e confronto, ma che oggi, più di ieri, sembra avvinto e soffocato da un circolo vizioso che nessuno è in grado o vuole realmente interrompere. Quale circolo vizioso? Quello di un luogo di servizio che si è fatto luogo di privilegi e quello di un lavoro che non c’è che fa diventare lavoro ciò che lavoro non è. Come spiegarlo? Mettendo due generazioni, quella degli ultracinquantenni e quelli degli appena trentenni, al cospetto della domanda “la politica è un mestiere?”. La risposta ovvia di entrambi sarà “no”, ma le pratiche di vita raccontano tutta un’altra storia, che forse ci affida una delle ragioni a causa delle quali è così difficile cambiare la nostra classe dirigente e la logica che la anima.
Vi siete mai chiesti quale è la professione di alcuni totem della nostra politica? Vi siete mai chiesti quanti anni sono che si dicono intepreti di cambiamenti radicali e strutturali del nostro convivere quotidiano? Ecco, la prima sensazione che mi viene in mente è che c’è una generazione di ultracinquantenni che ha snaturato il senso della politica, perché ne ha fatto il proprio mestiere e, mentre racconta al mondo intero delle qualità della flessibilità e dei meriti di contratti a tempo determinato che agevolano il cambiamento e magari il successo lavorativo, restano indeterminatamente avvinghiati al loro ruolo, lontani da un mondo in cui e per cui non lavorano da tempo, vestiti di un ruolo che oramai non solo ha fagocitato e digerito le loro singole professionalità, ma ne ha spesso traviato correttezza e giustizia. La politica che diventa lavoro è divenuta un lavoro senza politica: proceduralmente schiava delle logiche e delle leggi interne di un mondo tutto volto alla propria autoriproduzione, radicalmente incapace di rinnovarsi perché terribilmente paralizzata dall’idea di dover fare altro (ma quale altro a questo punto), ma soprattutto oramai definitivamente priva di ragioni e progetti, così come della sua vocazione gratuita e della sua dimensione di servizio.
Andiamo indietro di qualche annetto, cambiamo generazione, manteniamo lo stesso sfondo, cosa troviamo? Una generazione di appena trentenni che vorrebbe cambiare il mondo e in primis il mondo della politica, ma che è afflitto da sfiducia e delusione. E di fronte a questo panorama, quale mela avvelenata viene offerta loro? Quella di una vita sotto ricatto: da un lato un lavoro che non c’è, che va cercato, cambiato, capito e riadattato; dall’altro una politica che chiede nuovi volti, nuove presenze, nuove idealità, ma molto tempo, il tempo che solo la serietà può permettersi di domandare. Ecco, la tentazione del serpente è già in atto: non ho lavoro, non ho soldi e se unissi la mia passione politica con la possibilità di tirarci su qualche lira? Che c’è di male in fondo? I miei ideali sono alti e nobili, questo non è poi altro che un modo per comunicarli e iniziare a farli conoscere… Ovviamente nulla da dire al cospetto di chi viene valorizzato per una competenza che mette a disposizione, ma quello che noto è un meccanismo decisamente più perverso. La politica che può diventare un lavoro rischia di essere una politica senza lavoro: il bivio tra quanti devono per forza rinunciare ad un impegno di puro volontariato in politica perché costretti a farsi in quattro per uno o più posti di lavoro, da conciliare magari con una famiglia (ed ecco qua che le 24 ore di una giornata e i 7 giorni di una settimana sono belli che andati) e quanti iniziano a vedere nella politica la soluzione dei propri problemi lavorativi e non si rendono conto che stanno già svendendo i propri seppur nobili ideali al mercato che accusano (prolungando la vita a quel sistema perverso di cui erano e magari pensano di continuare ad essere gli accusatori).
Da dove cominciare allora?
Analisi del 2015
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