Enzo Bianchi, La Stampa (24 febbraio 2008)
I CRISTIANI E LA POLITICA
Vent'anni dopo la scomparsa del «partito dei cattolici» e l'inizio della loro diaspora in diversi spazi politici privi dell'esplicita denominazione di «cristiani», sembra oggi riemergere la domanda se non sia necessario in qualche misura - senza per questo ripetere vecchie architetture - che i cattolici si ritrovino collocati in una precisa formazione che abbia anche il coraggio di autodefinirsi in un nome e in un simbolo.
Oggi non è purtroppo il tempo, ma mi auguro che un giorno si possa fare una lettura pacata e consapevole della presenza dei cristiani, e dei cattolici in particolare, nella politica italiana, soprattutto nei decenni del dopoguerra, e nutrire fierezza per l'apporto che essi hanno dato all'idea e alla costruzione dell'Europa, allo sviluppo della democrazia nel nostro paese, all'affermarsi di principi legati alla difesa e alla promozione della persona umana, alla prassi di una laicità nella politica anche nell'Italia «cattolica» di quegli anni. Occorre tuttavia riconoscere come la nuova situazione, che vede la presenza di cattolici in partiti diversi, può essere colta positivamente per la vita ecclesiale e anche per quella sociale, ma resta vero che i cattolici non sono riusciti ad avere una voce capace di mostrare la loro «differenza» e la convergenza della loro ispirazione.
Va riaffermato che i cristiani vivono nel mondo come gli altri uomini, sono cittadini come gli altri, devono essere responsabili della costruzione della polis come tutti gli altri: non è loro concesso di disertare dalla città, né di fare una «fuga mundi» disinteressandosi dell'evoluzione del vivere civile, ma con creatività, intelligenza e competenza devono prendere parte alla realizzazione di una società in cui crescano l'umanizzazione e la qualità della convivenza.
I cristiani però - proprio perché il loro «Dio è un'idea politica», come ricorda il grande teologo J.B. Metz - possiedono una determinata visione del mondo e dell'essere umano, hanno delle convinzioni che non vanno assolutamente relegate nell'intimo o nel privato, ma che, in una società pluralista, devono essere presenti e ascoltabili nello spazio pubblico, sociale e politico. La fede cristiana che confessa un Dio che si è fatto uomo, storia degli uomini, non può accettare di non contribuire a plasmare la vita sociale e la cultura degli uomini: senza rivendicare una superiorità rispetto al contributo di altre componenti religiose, filosofiche o ideologiche, senza chiedere privilegi o ascolti discriminanti, i cristiani vogliono e devono poter esprimere le loro convinzioni nello spazio pubblico e politico e poter di conseguenza lavorare a servizio dell'umanità. Essi sono coscienti che ciò che viene chiesto dalla loro fede è sempre umanizzazione, difesa della dignità umana, promozione della giustizia, della pace e della riconciliazione.
Ma noi oggi assistiamo a grandi difficoltà e a grandi tensioni proprio su questa presenza: a differenza delle altre religioni monoteistiche, il cristianesimo ha progressivamente elaborato, pur con fatica e non senza contraddizioni storiche, una distinzione tra fede e politica, tra autorità politica e autorità spirituale, ritornando alle parole autoritative di Gesù riguardo al dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Sembrerebbe quindi che lo statuto della collocazione dei cristiani nella polis sia chiaro, ma in realtà oggi appare più confuso che mai: anche per questo forse qualcuno pensa all'ipotesi di un partito che raccolga i cattolici (anche se ormai non più presente in alcuna società occidentale) in modo da ridare eloquenza ed efficacia ai credenti impegnati nella politica.
Comunque il fenomeno della diaspora appare irreversibile e quindi ci chiediamo come possono i cattolici, senza l'inquadramento in un proprio partito, essere ciò che devono essere? Già all'epoca della fine del partito dei cattolici, consapevole delle difficoltà e dei vuoti che avrebbero potuto aprirsi, avanzai una proposta che però non venne presa in seria considerazione né tanto meno attuata. Non mi pare fuori luogo riproporla ora: si tratterebbe di istituire nello spazio ecclesiale, a livello regionale come a quello nazionale, un forum, un luogo in cui i semplici cristiani e i pastori - dunque le figure rappresentative della chiesa - potessero confrontarsi, riflettere, dibattere sui differenti temi che emergono nella società e sui quali diventa prima o poi necessario un intervento legislativo da parte dello stato. Sarebbe lo spazio per un convenire organico dei credenti, una assemblea in cui fare soprattutto opera di discernimento dei problemi, delle situazioni critiche, delle urgenze presenti nella polis, per verificarle alla luce del vangelo e per smascherare al contempo gli «idoli» che troppo facilmente seducono anche i cristiani.
Insomma, un'assemblea di credenti, ecclesiale nella sua natura e qualità, che insieme cercano, riflettono, discutono e cercano di giungere a una convergenza sulle esigenze dettate dal vangelo in un determinato luogo e tempo della storia degli uomini. Da lì potrebbe emergere ciò che un cristiano deve testimoniare e operare nel mondo, in conformità alla sua fede e alla «differenza cristiana». Ma, va ribadito con chiarezza, tutto questo percorso deve restare nell'ambito pre-politico e pre-economico, non deve cioè giungere a esprimere soluzioni tecniche. Amo definire questo spazio - difficile da creare e custodire, ma preziosissimo - come «profetico» perché in esso il linguaggio usato è quello della fede, l'autorità invocata è quella del vangelo e della grande tradizione, il magistero ascoltato in materia di fede e di morale è quello dei pastori della chiesa. «Spetta alle comunità cristiane - scriveva Paolo VI nella mai abbastanza ricordata Octogesima adveniens - analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili del vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione nell'insegnamento sociale della chiesa».
Da uno spazio di questo tipo ogni cristiano è rinviato alla sua responsabilità di cittadino e alla sua eventuale collocazione politica, affinché lì operi secondo l'ispirazione del vangelo: i modi e le soluzioni tecniche per tradurre queste ispirazioni stanno nell'ambito della politica, dell'economia, del diritto e, come tali, ricadono sotto la responsabilità del singolo credente-cittadino. Questi, allora, agirà non più nell'ambito profetico pre-politico, ma si impegnerà in prima persona in politica, liberando così, tra l'altro, le figure rappresentative della chiesa, i pastori, da accuse di ingerenze politiche nella società ed evitando di creare divisioni nella comunità cristiana. È in questo senso, credo, che il concilio, cui ci riferiamo sempre volentieri, diceva: «È di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori» (Gaudium et spes 76,1).
Ritengo che in questo modo i cattolici non sarebbero afoni, né confusi o contraddittori nelle loro scelte, mostrerebbero la convergenza e la forza dell'ispirazione evangelica, ma anche la pluralità delle scelte politiche ed economiche di cui si assumerebbero la responsabilità senza coinvolgere le figure rappresentative ecclesiali che non hanno competenza in materia. Si andrebbe verso una chiara distinzione degli ambiti di operazione come dei soggetti operanti e, al contempo, verso una unità nell'ispirazione e quindi nella testimonianza della «differenza cristiana».
La chiesa non può lasciarsi chiudere nel particolarismo stretto dei movimenti politici che magari rivendicano un'impropria esclusiva. Così scriveva ancora Paolo VI: «Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi… ciò che unisce i fedeli è, in effetti, più forte di ciò che li separa». Sì, nessun partito può dire di essere l'unico depositario del messaggio cristiano in una società pluralista animata da progetti politici in concorrenza, i quali non potrebbero che trarre beneficio da un confronto serio con la «differenza cristiana» resa eloquente da cattolici responsabili e impegnati.
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