venerdì 29 febbraio 2008

E' tanto difficile essere pensanti?

Enzo Bianchi, La Stampa (24 febbraio 2008)
I CRISTIANI E LA POLITICA

Vent'anni dopo la scomparsa del «partito dei cattolici» e l'inizio della loro diaspora in diversi spazi politici privi dell'esplicita denominazione di «cristiani», sembra oggi riemergere la domanda se non sia necessario in qualche misura - senza per questo ripetere vecchie architetture - che i cattolici si ritrovino collocati in una precisa formazione che abbia anche il coraggio di autodefinirsi in un nome e in un simbolo.
Oggi non è purtroppo il tempo, ma mi auguro che un giorno si possa fare una lettura pacata e consapevole della presenza dei cristiani, e dei cattolici in particolare, nella politica italiana, soprattutto nei decenni del dopoguerra, e nutrire fierezza per l'apporto che essi hanno dato all'idea e alla costruzione dell'Europa, allo sviluppo della democrazia nel nostro paese, all'affermarsi di principi legati alla difesa e alla promozione della persona umana, alla prassi di una laicità nella politica anche nell'Italia «cattolica» di quegli anni. Occorre tuttavia riconoscere come la nuova situazione, che vede la presenza di cattolici in partiti diversi, può essere colta positivamente per la vita ecclesiale e anche per quella sociale, ma resta vero che i cattolici non sono riusciti ad avere una voce capace di mostrare la loro «differenza» e la convergenza della loro ispirazione.
Va riaffermato che i cristiani vivono nel mondo come gli altri uomini, sono cittadini come gli altri, devono essere responsabili della costruzione della polis come tutti gli altri: non è loro concesso di disertare dalla città, né di fare una «fuga mundi» disinteressandosi dell'evoluzione del vivere civile, ma con creatività, intelligenza e competenza devono prendere parte alla realizzazione di una società in cui crescano l'umanizzazione e la qualità della convivenza.
I cristiani però - proprio perché il loro «Dio è un'idea politica», come ricorda il grande teologo J.B. Metz - possiedono una determinata visione del mondo e dell'essere umano, hanno delle convinzioni che non vanno assolutamente relegate nell'intimo o nel privato, ma che, in una società pluralista, devono essere presenti e ascoltabili nello spazio pubblico, sociale e politico. La fede cristiana che confessa un Dio che si è fatto uomo, storia degli uomini, non può accettare di non contribuire a plasmare la vita sociale e la cultura degli uomini: senza rivendicare una superiorità rispetto al contributo di altre componenti religiose, filosofiche o ideologiche, senza chiedere privilegi o ascolti discriminanti, i cristiani vogliono e devono poter esprimere le loro convinzioni nello spazio pubblico e politico e poter di conseguenza lavorare a servizio dell'umanità. Essi sono coscienti che ciò che viene chiesto dalla loro fede è sempre umanizzazione, difesa della dignità umana, promozione della giustizia, della pace e della riconciliazione.
Ma noi oggi assistiamo a grandi difficoltà e a grandi tensioni proprio su questa presenza: a differenza delle altre religioni monoteistiche, il cristianesimo ha progressivamente elaborato, pur con fatica e non senza contraddizioni storiche, una distinzione tra fede e politica, tra autorità politica e autorità spirituale, ritornando alle parole autoritative di Gesù riguardo al dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Sembrerebbe quindi che lo statuto della collocazione dei cristiani nella polis sia chiaro, ma in realtà oggi appare più confuso che mai: anche per questo forse qualcuno pensa all'ipotesi di un partito che raccolga i cattolici (anche se ormai non più presente in alcuna società occidentale) in modo da ridare eloquenza ed efficacia ai credenti impegnati nella politica.
Comunque il fenomeno della diaspora appare irreversibile e quindi ci chiediamo come possono i cattolici, senza l'inquadramento in un proprio partito, essere ciò che devono essere? Già all'epoca della fine del partito dei cattolici, consapevole delle difficoltà e dei vuoti che avrebbero potuto aprirsi, avanzai una proposta che però non venne presa in seria considerazione né tanto meno attuata. Non mi pare fuori luogo riproporla ora: si tratterebbe di istituire nello spazio ecclesiale, a livello regionale come a quello nazionale, un forum, un luogo in cui i semplici cristiani e i pastori - dunque le figure rappresentative della chiesa - potessero confrontarsi, riflettere, dibattere sui differenti temi che emergono nella società e sui quali diventa prima o poi necessario un intervento legislativo da parte dello stato. Sarebbe lo spazio per un convenire organico dei credenti, una assemblea in cui fare soprattutto opera di discernimento dei problemi, delle situazioni critiche, delle urgenze presenti nella polis, per verificarle alla luce del vangelo e per smascherare al contempo gli «idoli» che troppo facilmente seducono anche i cristiani.
Insomma, un'assemblea di credenti, ecclesiale nella sua natura e qualità, che insieme cercano, riflettono, discutono e cercano di giungere a una convergenza sulle esigenze dettate dal vangelo in un determinato luogo e tempo della storia degli uomini. Da lì potrebbe emergere ciò che un cristiano deve testimoniare e operare nel mondo, in conformità alla sua fede e alla «differenza cristiana». Ma, va ribadito con chiarezza, tutto questo percorso deve restare nell'ambito pre-politico e pre-economico, non deve cioè giungere a esprimere soluzioni tecniche. Amo definire questo spazio - difficile da creare e custodire, ma preziosissimo - come «profetico» perché in esso il linguaggio usato è quello della fede, l'autorità invocata è quella del vangelo e della grande tradizione, il magistero ascoltato in materia di fede e di morale è quello dei pastori della chiesa. «Spetta alle comunità cristiane - scriveva Paolo VI nella mai abbastanza ricordata Octogesima adveniens - analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili del vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione nell'insegnamento sociale della chiesa».
Da uno spazio di questo tipo ogni cristiano è rinviato alla sua responsabilità di cittadino e alla sua eventuale collocazione politica, affinché lì operi secondo l'ispirazione del vangelo: i modi e le soluzioni tecniche per tradurre queste ispirazioni stanno nell'ambito della politica, dell'economia, del diritto e, come tali, ricadono sotto la responsabilità del singolo credente-cittadino. Questi, allora, agirà non più nell'ambito profetico pre-politico, ma si impegnerà in prima persona in politica, liberando così, tra l'altro, le figure rappresentative della chiesa, i pastori, da accuse di ingerenze politiche nella società ed evitando di creare divisioni nella comunità cristiana. È in questo senso, credo, che il concilio, cui ci riferiamo sempre volentieri, diceva: «È di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori» (Gaudium et spes 76,1).
Ritengo che in questo modo i cattolici non sarebbero afoni, né confusi o contraddittori nelle loro scelte, mostrerebbero la convergenza e la forza dell'ispirazione evangelica, ma anche la pluralità delle scelte politiche ed economiche di cui si assumerebbero la responsabilità senza coinvolgere le figure rappresentative ecclesiali che non hanno competenza in materia. Si andrebbe verso una chiara distinzione degli ambiti di operazione come dei soggetti operanti e, al contempo, verso una unità nell'ispirazione e quindi nella testimonianza della «differenza cristiana».
La chiesa non può lasciarsi chiudere nel particolarismo stretto dei movimenti politici che magari rivendicano un'impropria esclusiva. Così scriveva ancora Paolo VI: «Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi… ciò che unisce i fedeli è, in effetti, più forte di ciò che li separa». Sì, nessun partito può dire di essere l'unico depositario del messaggio cristiano in una società pluralista animata da progetti politici in concorrenza, i quali non potrebbero che trarre beneficio da un confronto serio con la «differenza cristiana» resa eloquente da cattolici responsabili e impegnati.

sabato 2 febbraio 2008

Tacere non è rispetto

Riporto, trascritto, e quindi tagliato - visto che non se ne trova ancora una versione "informatica" - uno degli "schiaffi buoni" di Don Milani, da meditare

«L’opinione pubblica attribuisce ai cattolici di destra lo strano privilegio d’apparire quelli che viaggiano sul sicuro saldamente agganciati alla roccia della Chiesa […] Le cose non sono così semplici. La via che conduce alla Verità è stretta e ha da ambo i lati precipizi. Esistono eresie di sinistra ed eresie di destra. Il fatto che qualche importante cardinale penda verso le eresie di destra non dà ad esse patente di ortodossia. Siamo nella Chiesa apposta per sentirci serrare dalle sue rotaie che ci impediscono di deviare tanto in fuori che in dentro […] Se questa tranquillità la Chiesa non ci potesse dare non meriterebbe davvero star con lei. Si potrebbe andare a brancolare nel buio della libertà come i lontani. Così stando le cose io non mi spiego come voi cattolici di sinistra siate ancora tanto timidi di fronte ai cardinali. Forse è che mancate di quadratura teologica […] Esigete dunque un trattamento di parità. Siete figlioli devoti della Chiesa voi e loro, per quanto dissenzienti loro da un cardinale voi da un altro […] La Dottrina dice che il Papa è infallibile. Eretico è chi lo nega ed eretico è chi estende ad altri questo attributo. Non vedo poi argomenti per attribuire maggior dignità all’eresia per eccesso che a quello per difetto. Cattolico è dunque chi si ricorda che i cardinali e i vescovi son creature fallibili. Eretico chi mostra per loro un rispetto che travalica i confini del nostro Credo. Caso mai, se proprio una distinzione si volesse fare ci sarebbe solo da dire che tra due tendenze egualmente ereticali, l’eresia per eccesso ha l’aggravante d’essere ostacolo al ritorno dei lontani. Si può avvicinarsi alla Chiesa se essa con rigore dogmatico chiede al neofita solo ciò che ha il diritto di chiedergli. Non a una Chiesa in cui si debba sottostare giorno per giorno alle opinioni personali e agli umori di ogni cardinale. Noi la Chiesa non la lasceremo perché non possiamo vivere senza i suoi Sacramenti e senza il suo Insegnamento. Accetteremo da lei ogni umiliazione […] ma ce lo dovrà dire il Papa con atto solenne che ci impegni nel Dogma […] E fino a quel giorno vivremo nella gioia della nostra libertà di cristiani. Criticheremo vescovi e cardinali serenamente visto che nelle leggi della Chiesa non c’è scritto che non lo si possa fare. Il peggio che ci potrà succedere sarà d’essere combattuti da fratelli piccini con armi piccine di quelle che taglian la carriera. Ma son armi che non taglian la Grazia né la comunione con la Chiesa. Il resto tenteremo di non contarlo. […] Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo loro bene. Vogliamo il loro bene, cioè che diventino migliori, più informati, più seri, più umili. Nessun vescovo può vantarsi di non aver nulla da imparare. Ne ha bisogno comme tutti noi. Forse più di tutti noi per la responsabilità maggiore che porta e per l’isolamento in cui la carica stessa lo costringe. E non è superbia voler insegnare al vescovo perché cercheremo ognunoi di parlargli di quelle cose di cui noi abbiamo esperienza diretta e lui nessuno. L’ultimo parroco di montagna conosce il proprio popolo, il vescovo quel popolo non lo conosce. L’ultimo garzone di pecoraio può dar notizie sulla condizione operaia da far rabbrividire dieci vescovi non uno. L’ultimo converso della Certosa può aver più rapporto con Dio che non il vescovo indaffaratissimo. E il vescovo, a sua volta, ha un campo in cui può trattarci tutti come scolaretti. Ed è il Sacramento che porta e quelli che può dare. In questo campo non possiamo presentarci a lui che in ginocchio. In tutti gli altri ci presenteremo in piedi. Talvolta anche seduti e su cattedre più alte della sua. Quelle in cui Dio ha posto noi e non lui. L’ultimo di noi ne ha almeno una di queste cattedre e il vescovo davanti a lui come uno scolaretto. E qualche volta, credimi, c’è bisogno urgente di trattarlo così! Non è forse come un bambino un cardinale che ci propone a esempio edificante un regime come quello spagnolo? Non c’è neanche da arrabbiarsi con lui. Diciamogli piuttosto bonariamente che non esca dal suo campo specifico, che non pretenda di insegnarci cose di cui non ha nessuna competenza. Non l’ha di fatto e non l’ha di diritto. Ne riparli quando avrà studiato meglio la storia, visto più cose, meditato più a fondo, quando Dio stesso gliene avrà dato grazia di stato. Oppure non ne parli mai. Non è da lui che vogliamo sapere quale sia il tenore di vita degli operai spagnoli. Son notizie che chiederemo ai tecnici. Di lui in questo campo non abbiamo stima. Lo abbiamo anzi sperimentato uomo poco informato e poco serio. La vita di un vescovo! Io ne so poco, ma me la posso immaginare perché conosco qualche sacerdote importante e anche qualche grosso militare e qualche grosso primario di ospedale. Parallelo al crescendo di importanza un crescendo di isolamento […] Passa per il mondo senza toccarlo. Non abbastanza alto per essere illuminato dal Cielo. Non abbastanza basso per insozzarsi la veste o per imparare qualcosa. Fa errori puerili, s’intende di tutto, giudica la storia, la politica, l’economia, le vertenze sindacali, il popolo con la beata incoscienza di un infante, con l’innocente pretenziosità del generale di armata o del contadino di montagna. È appunto come il generale di armata e come il contadino di montagna un uomo cui nessuno fa scuola. Un infelice. E tanto più è un infelice per il fatto che nel frattempo perfino i laici cattolici hanno aperto un po’ di occhi. Loro che il muro di incenso non proteggeva dai morsi della storia [...]. Un prigioniero bisogna aiutarlo e liberarlo, e tanto più quando è prigioniero il nostro padre. se non gli sbraneremo il muro di carta e non gli dissolveremo il muto di incenso Dio non ne chiederà conto a lui ma a noi. Ci toccherà rispondergli di sequesetro di persona» (continua…)