mercoledì 31 dicembre 2008

Cosa ne pensate?

Io, Saviano e la passione per il Big Mac


Da "Il Corriere della Sera" - 24 Dicembre 2008

Due cupi corazzati macchinoni di grossa cilindrata dall’aria circospetta mi attendono sotto casa. Un paio di uomini mi fanno accomodare con garbo riluttante nella vettura in testa al convoglio. All’interno il tepore ovattato di un ascensore è reso spigoloso da un uomo che bisbiglia nel microfono che gli spunta dal bavero della giacca.

L’impressione di irrealtà svanisce quando Roberto Saviano mi rivolge un suo tipico «E allora? » farcito dall’ironico incurvarsi del sopracciglio. E io — che sono smarrito come un bimbo rapito dai marziani — non trovo di meglio che replicare: «E allora, eccoci qua».

Non appena l’auto entra in uno stretto parcheggio ha inizio una danza il cui effetto è quello di teletrasportarci dentro al salone di un ristorante (preventivamente svuotato per noi). Non è la prima volta che mi accade di constatare la materna premura con cui la scorta tratta Saviano. Uomini posati la cui età oscilla tra i trentadue anni del più giovane (unico celibe e senza figli) e i cinquanta di quello seduto accanto a Saviano. Ragioni di sicurezza mi impediscono di dichiarare le generalità di quest’ultimo ma non di ricordare il suono della voce che sembra provenire dal fondo di una caverna rinfrescata da un umido effluvio di limoni. Mi parla di quanto sia complicato guidare un auto che pesa quattro volte più del normale. Nota che guardo la grande sacca dietro di lui da cui spunta un massiccio mitragliatore: «È uno Spas-12 perfetto per sedare le sommosse. Siamo ben equipaggiati. Se ci attaccano sappiamo come reagire». L’incubo è un altro: un’intercettazione parlava dell’acquisto di una cinquantina di chili di tritolo. Finché tutto quell’esplosivo non verrà fuori dormiranno un po’ meno tranquilli.

Un paio di estati fa trascorsi una settimana di vacanza con Saviano in una località balneare. Ricordo che non avevo tratto una forte impressione dalla scorta che gli avevano affidato. C’era un che di eccessivamente esaltato nel contegno di quei ragazzi. Tutto il contrario di questi qui. La cui professionalità sembra esprimersi nel modo dimesso, quasi ironico, di svolgere le mansioni. Sebbene il cameratismo s’incentri sulla condivisione di un destino che potrebbe rivelarsi tragico, il tono della discussione ostenta la leggerezza tipica di chi ha bisogno di esorcizzare.

«Quando uscì la notizia che volevano farci saltare in aria sulla Roma-Napoli» dice Saviano «la reazione dei ragazzi fu quella di correre ancora più forte. Da casello a casello in quarantacinque minuti».

«Più corri più li induci all’errore» chiarisce il mio vicino di sedia.

«Dopo quella cazzo di notizia mia moglie per la prima volta mi ha chiesto spiegazioni. Era terrorizzata ».

«Invece mia moglie ci scherzò su: "Insomma per Natale vi vogliono fare il pacco regalo"». «Una volta lessi che un killer era entrato in un locale e aveva chiesto: "Chi è che si chiama Gennaro?". Il tizio che rispose: "Io" si beccò una bella pallottola in fronte. All’epoca lavoravo con un giudice e gli dissi: "Senta, dotto’, se qualcuno ci chiede se c’è uno che si chiama Andrea, la prego, faccia rispondere me"».

Il ribollire d’una discussione così spiritosamente macabra non mi ha impedito di notare una stranezza. Un attimo dopo l’arrivo in tavola di vassoi colmi di diversi tipi di pasta, l’uomo dalla voce cavernosa ha afferrato il piatto di Saviano riempiendolo di un trittico di primi.

Frequento Saviano da un tempo sufficiente per sapere che il suo rapporto con il cibo è complicato come quello dei bambini. Accade che lui ti chiami e ti chieda di andarlo a trovare nella sua tana del momento: «Sono solo. Non mi va di rompere le palle ai ragazzi. Perché prima non passi da un cinese? Va bene anche un Big Mac». La stranezza non è in gusti gastronomici così corrivi. Semmai nel modo con cui Saviano tratta quella sbobba. Mangia con gli occhi più di quanto non faccia con la bocca. Si avventa sul cibo con aria famelica, ma si sazia subito. Si alza in piedi, inizia a parlare e a gesticolare come una marionetta. Ti racconta le abitudini sessuali di qual capomafia, l’ossessione per le ostriche di quel pentito. E lo fa per impressionarti, con aria di sfida, ma anche perché non può farne a meno.

L’ossessione di Saviano per l’universo malavitoso ha origini balzacchiane. Lui si interessa al caleidoscopio criminale con la dedizione di un moralista classico. Tale fissazione è così radicata da aver polarizzato ogni altro interesse: ecco perché Saviano è un ospite straordinario quando t’invita nel suo regno ma non è mai disposto a muovere le chiappe per venire a visitare il tuo. Ciò che non gli somiglia non lo interessa. Puoi condurre la discussione su qualsiasi terreno: sport, politica, sesso… Ma le sue idee su questi argomenti difficilmente superano la soglia del buonsenso. Ma se ti interessa il genio allora ti basta innescare la sua monomania. Intanto il resto finisce con l’annoiarlo. Le proposte sessuali che riceve tramite My space o Facebook—a prescindere dal sussulto di orgoglio che gli procurano —, o le attempate signore bene che gli si offrono, non lo avvincono più degli spring rolls o dei Big Mac. Non c’è uomo più immune da istinti edonisti di Roberto Saviano.

Anni fa Mario Desiati, all’epoca segretario di redazione di Nuovi Argomenti nonché scout della Mondadori, mi fece leggere un racconto-reportage sulla malavita campana scritto da un certo Roberto Saviano. Poco più che ventenne aveva pubblicato qualche articolo molto tosto e documentato su Lo straniero e su Nazione indiana. A Mario sfuggì un commento tipo: «È una forza della natura ma anche un kamikaze. Bisogna tenerlo d’occhio». Non capii se alludesse al suo destino editoriale o alla sua incolumità. Come pensare che solo pochi anni dopo le due dimensioni—quella artistica e quella legata alla sicurezza—si sarebbero così inestricabilmente intrecciate? Il nostro incontro avvenne qualche settimana dopo, in occasione della presentazione del mio libro organizzata dai miei zii napoletani al Circolo Canottieri. Ed eccolo lì, dove non te lo aspetti, in fondo alla solenne club house con le finestre aperte su spicchi di cobalto. Eccolo lì, splendidamente inadeguato, con jeans da teddy boy, scarpe da ginnastica e occhi dipinti di fresco da qualche allievo di Luca Giordano. Eccolo lì, impantanato in tutta la sua goffaggine sociale. Sebbene Saviano fosse il prodotto di un milieu borghese, era evidente il suo disagio in un contesto mondano. Andammo a prenderci un caffé. Così entrai per la prima volta in contatto con l’arcipelago-Saviano. Camminammo un po’ per Piazzale dei Martiri, ci inerpicammo lungo Via dei mille. Non c’era cinema, né negozio, né ristorante che non custodisse un retroscena malavitoso. Come se il mondo che credevo di conoscere non fosse altro che la presentabile calcomania di un universo popolato di spettri. Capii subito che Saviano apparteneva a quel genere di scrittori per cui la bellezza dorme acquattata sotto spessi strati di immondizia.

(Inside)
(Inside)
Il fatto ragguardevole è che l’enorme risonanza planetaria che il lavoro di Saviano ha frattanto ottenuto non ha in alcun modo alterato il suo sguardo. Ora è certo più scaltro, più vanitoso, più navigato, più guardingo (chi non lo sarebbe al suo posto?), ma il suo sistema solare continua a girare intorno alla stella mefitica da cui è letteralmente tormentato. La sua mente è sollecitata dalla geometrica perfezione dalle strutture criminali. Una vocazione che gli ha consentito di tradurre la dietrologia in un efficacissimo strumento conoscitivo privato del quale si sentirebbe nudo e improtetto. L’ironia è che il suo desiderio di proteggersi abbia finito con il renderlo uno dei dead man walking più protetti del pianeta!

«Quando all’estero mi affidano una scorta» mi dice ridendo «la prima cosa che faccio è cercare di capire come sono organizzati. Il che mi aiuta a conferire un senso a quello che sta avvenendo, e a prevenire quel che sta per succedere ».

Finché la conversazione tra me e lui si fa più intima: «La fine di un amore. Ecco una cosa che non capisco. Contro la quale mi ribello. Forse perché lì il meccanismo mi sfugge. È come se d’un tratto tutto negasse ciò che hai impiegato del tempo ad accettare. L’esatto contrario del mondo criminale. Fatto di slealtà e tradimenti, ma obbediente a regole precise. Non trovi che la sfera affettiva sia quella che riservi le sorprese peggiori?».

Il desiderio di essere amato, la competizione, la richiesta continua di protezione e di riconoscimenti, la suscettibilità. Tutto questo fa di Saviano un suddito onorario del regno di Edipo. «Mia madre è una donna bella con un carattere da colonnello che si è ammorbidito con gli anni. La mia vita è stata il tentativo di dimostrarle che ero meglio di quello che sembravo. Temo mi considerasse una specie di intellettuale inconcludente ».

Be’, converrete con me che l’encomiabile zelo con cui Roberto Saviano ha voluto dimostrare a una madre così potente di valere qualcosa ha dato frutti fin troppo spettacolari. E tuttavia la mia esperienza personale mi suggerisce che Saviano non si sia emancipato dai riti di quel legame originario. Qualche tempo fa Saviano mi chiese cosa pensassi di un suo articolo. Gli dissi che non era la cosa migliore che avesse scritto. Capii dal tono della voce che quel responso da me pronunciato con tanta leggerezza aveva alterato in modo irreparabile la piega del suo umore.

Casa Saviano. Un vero ossimoro. Da che lo conosco questo è il quarto rifugio in cui mi invita, e d’altra parte ci tiene a dirmi che si tratta di una sistemazione temporanea. A dispetto delle precedenti dimore almeno questa non è angusta né squallida, sebbene egualmente impersonale. Una romantica soffitta all’ultimo piano di un vecchio palazzo. «Che ne dici se apriamo un panettone che mi ha regalato un pasticciere devoto? ».

Non mi stupisce che gli facciano regali votivi. Più di una volta mi è accaduto di constatare il fervore che la vista di Saviano suscita nel prossimo. Quella volta in cui una mamma volle che Saviano toccasse la testa del suo bambino.

Scene del genere mi suscitano ripugnanza, ma anche un fosco divertimento. Le assimilo all’idolatrica devozione a Padre Pio o al culto postumo di Pasolini. Qualcosa di irrimediabilmente italiano che non mi piace. Curioso il modo in cui Saviano assimila il culto di cui è fatto oggetto. Con divertimento direi. Ma anche con una serietà che ti lascia sbigottito. È come se lui intravedesse una relazione tra l’ardore religioso che anima gli altri e la sua percezione di essere in pericolo. Non ho mai conosciuto, per ovvie ragioni, un mio quasi coetaneo che dovesse affrontare quotidianamente l’idea della propria fine. Certe volte sembra quasi che morire è il minimo che la gente si aspetti da lui. Sebbene Saviano abbia un’idea letteraria della propria morte, non ne sottovaluta i lati truculenti tanto meno quelli comici. «Certo, l’idea che un’esplosione mi stacchi una gamba mi fa orrore».

Ricordo quando Saviano mi disse che i casalesi lo volevano eliminare. Era l’autunno del 2006. La notizia stava per divampare. E lui non trovò di meglio che mettersi a piangere di infantile disperazione. Da allora però il suo contegno è cambiato. Il suo umore si è adattato al vertiginoso binario d’una montagna russa impazzita. Ogni tanto annuncia (via sms) che ha un brutto presentimento. Lo chiami e lui non risponde. Altre volte ti spiega con tristezza, come se la cosa non lo riguardasse, che è inutile farsi illusioni, tanto quelli «non dimenticano». Sicché dalla sua enciclopedia dell’orrore stipata di atti criminosi tira fuori un paio di storie istruttive: «Ale, si tratta di persone dotate di una pazienza infinita. Quando tutti si saranno stancati di questa storia, loro agiranno. Te l’ho detto, per i casalesi tutto è cinema. L’happy end è il mio cadavere ».

Il panettone è squisito. Ha il colore giusto: un giallo paglierino dato dall’eccesso di burro. Ma Saviano lo maltratta, piluccando pezzettini di pan di spagna dopo averli separati da uvette e canditi. Ci mettiamo nel piccolo soggiorno. E lui fa la solita fatica a sistemarsi. Si stira, si alza, si risiede. Sembra che stia cercando la soluzione più scomoda per sedersi. Il suo fisico è snodato come quello di una burattino. Fumiamo sigari all’anice e lui mi fa: «Che ne pensi di questa roba del Partito democratico?».

«Delle lezioni di moralità che dovresti impartire ai nuovi dirigenti?».

«Esattamente».

Gli dico che raramente ho sentito una cazzata più ridicola, tendenziosa, demagogica. Gli chiedo se non gli costi essere diventato un’entità politica così influente. Se la responsabilità a cui è tenuto, quel modo di misurare le parole che lo ha reso un’icona bipartisan, non sia una negazione dello spirito kamikaze di Gomorra.

«Se mi abbandonassi, ora che ne ho il potere, a una serie di dichiarazioni di pancia, metterei in pericolo tutto quello che ho raccontato. Ma la responsabilità non inquina la mia operatività. L’articolo in cui fornivo gli indirizzi dei mandanti e degli esecutori degli omicidi dei sei africani mi sembra che rispettasse lo spirito di Gomorra ».

Per dire come il suo libro abbia infettato i miei pensieri gli dico come fino a poco tempo fa quando m’imbattevo nel termine Gomorra pensassi alla Bibbia oppure alla Recherche mentre oggi invece mi ritrovi subito scaraventato a Casal di Principe ma anche in quel fucsia genialmente pop dei cartelloni pubblicitari del film di Garrone. Ride. E continua: «Io sono contro l’economia criminale che considero la vera gorgone del capitalismo contemporaneo. Questa è la mia sola passione politica. E la letteratura naturalmente. Anche se lo sai, m’interessano gli scrittori che usano il sangue al posto dell’inchiostro: Junger, Nizan, Cendrars, Céline».

Il dato affascinante è che una frase come questa che, pronunciata da qualsiasi altro, suonerebbe pretenziosa, sulla bocca di Saviano prenda un suono così vivido. La cosa che gli invidio (almeno dal punto di vista professionale) è l’essersi conquistato sul campo il diritto alla retorica. Sapete com’è: i millenni che ci separano da Omero ci hanno fatto dimenticare, per una questione di buon gusto e per un’idea tutta moderna di autenticità, quanto la retorica sia nutriente per la nostra vita spirituale. Ebbene, tutto quello che Saviano ha fatto fin qui sembra essere al servizio di una strategia: poter pronunciare certe impronunciabili frasi, ingaggiare, con l’aiuto della scorta, un’omerica battaglia contro un branco di assassini. Sapete, l’intercalare che precede tutte le sue proposizioni è «paradossalmente ». Un avverbio che suona come una specie di auto-definizione o come una preventiva richiesta di scuse per l’improbabilità di ciò che sta per narrare.

Ma quando ricaccia fuori la solita solfa degli scrittori che sarebbero tutti «pavidi», perdo le staffe. E gli chiedo se non attribuisca al termine «coraggio» un’accezione un po’ troppo hollywoodiana: «Insomma certe volte si direbbe che dovendo scegliere tra Charles Bronson e Gustave Flaubert getteresti dalla torre quest’ultimo senza pensarci un attimo. In fondo la paralisi nevrotica in cui Kafka viveva gli ha consentito di cogliere la condizione umana in un modo assai più efficace dei tuoi Junger o Nizan del piffero».

«Be’ allora pensa al coraggio di Primo Levi». E anche qui ci troviamo decisamente in disaccordo. Se c’è una cosa che mi tocca della tragedia di Levi è che lui non se l’è andata a cercare. Ce l’hanno trascinato…

Lascio casa Saviano con il senso di vacuità (certo incongruo) di chi abbandona un uomo solo. Il destino è sempre determinato dalle tue scelte, mai dal caso. Parola di Jean-Paul Sartre. Le scale, l’ascensore, l’androne dell’elegante stabile ottocentesco parlano con gli odori e le luci del Natale incipiente. È tardi e fa un freddo orribile. L’eco dei miei passi mi percuote i timpani. L’idea di uscire da quel portone per un attimo (un secondo appena) mi fa rabbrividire. Non ha senso vivere così.

Alessandro Piperno
24 dicembre 2008

martedì 16 dicembre 2008

Un piccolo segno della Grazia!?!

Ma la Chiesa non è una città sotto assedio

Repubblica — 15 dicembre 2008

In questi tempi si parla spesso, sui giornali, delle autorità ecclesiastiche: papa, cardinali, vescovi; e delle loro opinioni ed iniziative. Siccome mi considero (o vorrei essere o lo sono per alcune ore del giorno) un cristiano e un cattolico, ne parlo poco volentieri. Nel mondo, esiste una cosa indicibile che si chiama la grazia: l' unica cosa che importa in una religione, assai più della fede e delle opere. La grazia è una luce, un barlume, che talvolta ci visita (non sappiamo perché né quando), e dà un tocco alla nostra vita. Non ci viene data per nostro merito: nessun uomo ha meriti di nessuna specie. Ci viene data; e noi dobbiamo tenerla carissima. La ritroviamo nei Vangeli, in molti libri religiosi; e in quasi tutti i grandi scrittori. Sono le uniche testimonianze nelle quali ho fiducia. La grazia può scendere su tutti, e forse specialmente su coloro che hanno consacrato la loro vita a Dio - l' ignoto mittente della luce. Ora, sono esistiti papi, cardinali, vescovi sciocchi e incolti: ma la grazia non ha molto a che fare né coll' intelligenza né con la cultura. Così ascolto le parole dei sacerdoti con una specie di secondo orecchio, cercando di capire se qualcosa palpita e si muove dietro le parole apparenti. Non posso dimenticare un fatto straordinario. Circa un secolo fa, molti famosi e brillanti studiosi affermavano che il primo cristianesimo era legato alle cosiddette "religioni dei misteri". Avevano torto. Avevano ragione modesti professori cattolici (certo ispirati da una oscura grazia), i quali sostenevano che il primo cristianesimo si era nutrito soprattutto di ebraismo. Ho avuto e ho molta ammirazione per papa Giovanni Paolo II. Non era un papa come gli altri: un papa rappresenta in primo luogo la tradizione della chiesa, e la parla. Certo, Giovanni Paolo II venerava moltissimo la tradizione cristiana. Ma era anche un uomo: come un papa non è. Mangiava, sciava, parlava, pregava, abbracciava, sorrideva, recitava, piangeva, come nessun papa ha mai fatto. Al tempo stesso, era o pensava di essere una reincarnazione di Cristo: come testimonia tutta la sua esistenza, l' attentato, le pallottole inviate nella corona della madonna di Fatima, l' intuizione dei segni e dei miracoli, e la sua morte - imitazione degli eventi del Golgotha. Per queste due ragioni, i fedeli erano così affascinati dalla sua figura. Papa Giovanni Paolo II ebbe l' intuizione grandiosa che la Chiesa fosse il mondo: che tutto l' universo creato - i fiori, le piante, gli uomini, le case, le chiese, il mare, i pesci, gli uccelli, i sacerdoti, i bambini e persino gli infedeli e i nemici - fossero il corpo della Chiesa vivente. Così immaginava la Chiesa cattolica del Rinascimento e del Seicento - quella che ha prodotto San Pietro e i presepi napoletani. Di qui avevano origine i suoi incontri oceanici, nei quali due milioni di ragazzi sudati lasciavano cadere al suolo due milioni di lattine di birra, gridando trionfalmente la loro fede. Come disse Gesù nel Discorso della Montagna: «Tu, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo in segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà...Il Padre vostro sa già di che avete bisogno, prima ancora che lo chiediate. Voi, dunque, pregate così: "Padre nostro che se nei cieli"». La religione è in primo luogo questo: un luogo dietro la porta chiusa, nel segreto, una preghiera silenziosa che solo Dio ascolta e accontenta. Papa Giovanni Paolo II aveva un grande bisogno di presenza: doveva pronunciare quello che portava nell' anima, dirlo a tutti, tutti insieme e uno per uno, abbracciando ogni persona e cosa nel suo immenso cuore. Niente doveva sfuggire. Non rifiutò nessuno strumento: le grandi prediche, i viaggi, i perdoni pubblici, l' abbraccio dell' assassino, l' edizione delle sue opere giovanili, l' abolizione del segreto (almeno in parte), il racconto televisivo della sua vita. Un papa ha mille modi per essere presente: le encicliche, le parole dalla finestra di San Pietro, i gesti simbolici, il tocco delle mani, la preghiera silenziosa (che certo egli praticava). Purtroppo Giovanni Paolo II diede interviste: a pessimi giornalisti. Sebbene io sia un mediocre cristiano, gli errori di fatto nelle sue interviste (un papa non deve sbagliare) mi danno un grande dolore. *** Oggi, quasi tutto sembra cambiato. La gerarchia ecclesiastica pensa che la Chiesa sia una cittadella assediata: fuori ci sono gli empi, gli infedeli, i laici cattivi; e dunque bisogna alzare muri, muretti, scavare fossati, puntare cannoni o piccoli fucili, alzare il dito, proclamare principi ed assiomi. Non voglio negare che i cosiddetti laici - specie quelli che scrivono libri e articoli - dicano stolidità religiose, che avrebbero fatto impallidire il più umile fedele del tredicesimo secolo. Né che sia tollerabile vedere i cristiani perseguitati e uccisi (come gli ebrei) in molti paesi. Oggi la Chiesa non è una cittadella assediata. Cinquant' anni o sessant' anni fa, le chiese erano piene, ma quasi nessuno leggeva i Vangeli o san Paolo o Origene o sant' Agostino o Giovanni Scoto o Ildegarda di Bingen o san Bernardo, senza i quali non è facile dirsi cristiani. Almeno in Italia, il mondo cattolico possiede una straordinaria vivacità e ricchezza: case editrici, letture appassionate, movimenti di ogni specie, missionari, molteplici e ammirevoli opere di assistenza. Oso dire che mai, negli ultimi due secoli, l' Italia ha conosciuto una vita cattolica così intensa. In questi giorni è uscito un libro di Marcello Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani (Mondadori p. 200, 18 euro). Sostiene che il "dialogo interreligioso" (con l' Islam e qualsiasi altra professione di fede) è oggi impossibile. Vorrei capire meglio. È sempre stato impossibile? Le religioni sono cattedrali essiccate, abitate da morti e da spettri, dove nessuno mette il naso alla finestra, perché teme di esser violato nella sua fede? Nel XII e XIII secolo, la mistica bizantina e quella islamica si influenzarono profondamente, generando un tesoro supremo. Ma Marcello Pera, che ignora tutto sull' Islam classico e ignora persino cosa sia una religione, non sa assolutamente niente di questo. Molti secoli prima, ebraismo, cristianesimo, manicheismo, buddismo, Islam, taoismo ebbero rapporti fruttuosi, fecondandosi a vicenda, persino in Cina. Ancora prima, nel quarto secolo dopo Cristo, Fausto di Milevi (appartenente alla feroce eresia manichea, che i cristiani massacrarono per secoli, bruciandone i libri e le vesti rituali), disse a sant' Agostino: «Io ho lasciato il padre e la madre, la moglie, i figli e tutto ciò che il Vangelo chiede di lasciare, e mi chiedi se io accetto il vangelo?... Ho rifiutato l' argento e l' oro e ho smesso di tenere il danaro nella borsa, contento del cibo di ogni giorno, senza curarmi di quello dell' indomani. E tu richiedi se accetto il vangelo?... Tu vedi in me il povero, vedi il pacifico, il puro di cuore, l' uomo che piange, che ha fame, che ha sete, che soffre persecuzioni e odi per la giustizia; e dubiti che accetto il vangelo?». Ancora prima, verso la fine del terzo secolo, sempre gli stessi eretici manichei lessero, in Egitto, questo Salmo: «Gesù, mio vero guardiano, possa tutti proteggere. Tu, figlio primogenito del Padre delle Luci, possa tu proteggermi. Tu sei il vino della vita, il figlio della vera vigna, fa' in modo che noi beviamo del vino vivente della tua vigna. Nel mezzo del mare, Gesù guidami, non abbandonarci, le onde non ci afferrino. Quando io pronuncio il tuo nome sul mare, esso calma le onde... Questo nome, Gesù, una grazia lo circonda. Il tuo fardello è leggero per chi lo porta su di sé...Quanto grande è il tuo amore verso l' uomo, o Gesù, prima rosa del Padre! Fino a che punto giunge la tua dolcezza? Possa io trovare la dolcezza degli dèi». Tutte le frasi che ho ricordato appartengono, o non appartengono, a quello che Marcello Pera chiama con disprezzo "dialogo interreligioso"? Forse mi sbaglio. Come sostiene Marcello Pera, oggi "ogni dialogo interreligioso" è impossibile. Viviamo in tempi mediocri, dove esistono uomini di fede, ma nemmeno un pensatore cattolico (tanto meno islamico). Così può accadere che, in questi tempi, vengano casualmente pubblicati i libri di Marcello Pera.
PIETRO CITATI