Sono giorni molto delicati per il nostro Paese, perché ad una lunga congiuntura di profonda recessione e crisi economica (oramai dilagante e percepibile ad occhio nudo da tutti - checché ne dicano tv e politici) e ad un’improvvisa situazione di catastrofi e rigurgiti idro-sismo-geologici (quanta responsabilità alla natura e quanta colpevolezza all’uomo?) si somma un quadro politico triste e sconvolgente, fumoso e affumicato, esasperato ed esagerato, ma soprattutto pericoloso ed emblematico: pericoloso perché molto più esplosivo e rischioso di quanto l’opinione pubblica sia consapevole, così “costretta a limitarsi” a scandali e processi, congressi e primarie, invece che “allenata ad analizzare” proposte ed idee, provvedimenti e risanamenti; emblematico perché riconsegna una certa strutturale difficoltà delle democrazie odierne, sempre meno facilmente strumento di buon governo e sempre più terribilmente lontane dalle esigenze della gente, o meglio del popolo.
Il popolo, forse uno dei nodi della questione, quello sul quale vorrei un secondo richiamare l’attenzione, perché emblematicamente uno dei sintomi più eclatanti di questa crisi: sarà un caso infatti che da sinistra a destra, con motivazione molto diverse e per questioni e finalità quasi opposte, ci si appelli in continuazione proprio al popolo?
Dal lato del centro-sinistra, il popolo convocato ma frustrato dalla democrazia: un centro-sinistra, quello rappresentato dal Partito Democratico, al quale resta solo un certo esercizio democratico interno al partito, accanto all’incapacità di parlare realmente al popolo al di fuori di esso e attraverso di esso.
Dal lato del centro-destra, il popolo appellato quale protagonista unico (assoluto) della democrazia: un centro-destra, quello rappresentato dal Popolo della Libertà, che sa toccare le corde del popolo, ma che rischia al momento, con il suo leader, di innalzare la democrazia dei numeri sopra quella delle istituzioni.
Che situazione anomala!
Il partito che ha la maggioranza nel paese, che ancora fatica ad essere realmente partito, ad esercitare l’esercizio della democrazia interna, ha un leader acclamato e conclamato, certo e stabile da anni, da più di un anno di nuovo Presidente del Consiglio: a tal punto però che proprio il potere dei numeri, l’esasperazione e l’esaltazione del consenso popolare stanno divenendo l’unico criterio in una deriva che sta opponendo terribilmente governo e stato, popolo ed istituzioni, istituzioni di esercizio del potere ed istituzioni di garanzia del potere. La delegittimazione della terzietà, l’attacco all’imparzialità condotti in nome del riscontro elettorale, delle percentuali di sondaggio e del successo popolare: quale democrazia può oggi permettersi, senza farsi educare dalla storia, che il suo unico criterio di legittimazione sia il risultato dell’urna, fino al punto da essere superiore ad ogni figura ed ordine di garanzia?
Il partito che ha la maggioranza tra le opposizioni, che ancora fatica ad essere realmente un partito, soffocato da discordie che rendono esasperante l’esercizio della democrazia interna, senza un leader legittimato e con il vizio di “uccidere” ognuno che sembra poter avere effettivamente quel ruolo: a tal punto però che proprio la convocazione popolare gli rimane come l’unica testimonianza della propria esistenza; il continuo ricorso a meccanismi di elezione interna e il nuovo ma già troppo spesso utilizzato appello alle primarie come testimonianza della propria democraticità, che finisce però per essere una trappola della propria vitalità. Il ricorso al voto interno e all’appoggio esterno condotti in nome di una trasparenza che rischia di finire per essere l’unico pregio, quasi secondario rispetto all’incapacità cronica di dare un esito adeguato al riscontro: quale seguito può avere un partito che si candida a governare il paese senza essere in grado di governare se stesso? Quale valore ha il continuo appello all’esercizio della democrazia per darsi un organigramma, se poi si è la causa di una stanchezza nei confronti dei medesimi esercizi democratici per una sempre più cronica incapacità di parlare con voce forte e credibile sui problemi della nostra Italia?
Un paradosso davvero simpatico: l’appello al popolo che accomuna due storie e due percorsi così differenti e che per entrambi ci rivela quanto esso solo non debba e non possa bastare per arrogarsi il diritto della democrazia, laddove non sia temperato, in un caso, dal rispetto degli organi garanti dello Stato, dall’intoccabilità di una carta meravigliosa e forse mai realmente realizzata e dall’abbandono di ogni deriva personalistica e, nell’altro, dal riconoscimento dell’esito di un percorso, dall’abbandono di ogni rivalità interna e da un’effettiva chiara e coerente identità politica.
Una paradosso ancora più simpatico se ci accorgiamo che, in un verso o nell’altro, in realtà, oggi, la democrazia si appella al popolo per legittimare o chiedere sempre o comunque soltanto un leader.