lunedì 1 settembre 2008

I NUOVI BARBARI 4 - RIPIEGATI SUL PRIVATO

“Chi vive fuori dalla città o è un Dio o è una bestia”. Queste parole di Aristotele, lapidarie ed intense, oltre a tratteggiare un affresco del mondo greco, esprimono, con chiarezza e radicalità, uno dei cardini del pensiero politico classico e, più in generale, di tutto l’occidente: il legame indissolubile tra l’umanità dell’uomo e la sua dimensione politica. La destinazione dell’essere umano, il compimento autentico e pieno della sua natura e delle sue potenzialità, sono eminentemente sociali e politici: di questo tesoro la polis – nella unicità delle sue dimensioni, nell’arcaico rifiuto di donne e schiavi, nella moderna centralità della piazza – è stato il forziere che andava difeso e protetto dall’aggressione dei barbari, dei non-greci, distruttori dell’ordine costituito e portatori di tradizioni inaccettabili.
Sembrerà strano, ma oggi l’invasione barbarica è giunta dentro le nostre città – così asetticamente grandi, così apparentemente inglobanti, così urbanisticamente complesse – e, seppur ben nascosta da una globalizzazione pretesa ma incompresa e da un’apparente onnipresenza della politica, che si rivela solo vano tecnicismo legislativo o retorico, porta con sé un’epidemia latente e strisciante: l’oblio del vero senso della politica e la disaffezione nei suoi confronti, che, “dall’interno”, sta erodendo ogni autorità e promuovendo arbitrarietà. Viviamo infatti un’età in cui la partecipazione alla cosa pubblica ha lasciato spazio al disinteresse nei confronti dell’architettura del nostro convivere; lo spazio in comune si è ritratto e prosciugato, lasciando in secca il terreno di incontro e finendo tristemente con il coincidere con la piccola zolla del nostro privato; il coraggio della responsabilità nei confronti delle generazioni future non trova progetti che superino l’oggi.
Vale allora ancora, per noi, quel fatto, così evidente a chi consideri la storia degli eventi e quella delle idee, che l’uomo è un animale politico?
Se volessimo disegnare la planimetria del nostro vivere in comune, rispettando la profondità e la tridimensionalità che il suo volume integrale richiede, avremmo bisogno di indicare principalmente tre assi, sui quali declinare una possibile risposta: il legame sociale, le istituzioni, le leggi. Provando però a cucire addosso alla nostra società questo modello ideale, ci accorgeremmo ben presto che le tre coordinate di cui sopra scricchiolano e vacillano nel tentativo di inglobare una densità di fenomeni che al tempo stesso le traboccano e più in generale trascurano la dimensione politica del nostro esistere: il legame sociale non è ritenuto gratificante e costituivo; le istituzioni sono considerate opprimenti e limitanti; le leggi hanno perso l’ambizione all’universalità, divenendo malleabili a seconda delle esigenze di ognuno. Si desiderano garanzie e tutele, ma non si accetta responsabilmente di mettersi in gioco; si esigono beni e diritti, ma non si è disposti a lavorare per un bene che sia il più ampiamente e sostanziosamente comune; si pretendono protezione ed assistenza, ma si vuole essere liberi di compiere ciò che si vuole.
La vocazione politica non appartiene più ad individui disamorati della condivisione perché indifferenti ai doveri, lontani dalla progettualità perché ancorati al presente, privi di riferimenti autorevoli perché capaci di ascoltare solo il metro soggettivo della produttività, anche in politica: una rivoluzione barbarica che si nutre di una tradizione lunga secoli, delegittimando istituzioni e regole, lasciando sul campo della sua battaglia subdola e silenziosa le sembianze vane di una politica ridotta a vuoto contenitore e le mutazioni degenerative di una natura umana attenta solo ai propri desideri.

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