Vogliamo capire davvero l’intensità e la radicalità di quell’invasione barbarica così generalizzata e diffusa di cui abbiamo provato a tratteggiare alcuni lineamenti? Desideriamo conoscere fino in fondo la pervasività di una crisi che attanaglia il rispetto dell’autorità e cancella ogni autorevolezza che non sia semplicemente quella dettata da una coscienza ripiegata su se stessa e sui propri bisogni?
Facciamo allora come farebbe ogni bravo e serio studioso di laboratorio, prendiamo un campione in provetta della nostra società, guardiamolo attraverso il dettaglio di un buon microscopio, mettiamo a fuoco fino ad arrivare alla sua ultima cellula, quella che ne regola i ritmi, ne conserva il segreto della vitalità, ne permette il battito vitale regolare ed equilibrato: siamo al cospetto della cellula sociale della nostra esistenza, la famiglia. Ecco, se la osserviamo bene, ci accorgiamo che l’imbarbarimento è arrivato fin qui, fino all’interno delle nostre mura domestiche, fin dentro i nostri rapporti privati, personali e parentali, erodendone l’autenticità, mutandone le finalità, tradendone la vocazione.
Omicidi e violenze di figli nei confronti dei genitori, aggressioni e attacchi di genitori nei confronti dei professori dei propri figli: la frequenza e la crescita esponenziale di questi fenomeni quasi rischiano di “appiattire” la radicalità del problema sull’eccezionalità delle sue manifestazioni. In realtà, andando a fondo e oltre l’impatto eclatante delle cronache dei giornali, vi è un sottobosco meno visibile e spesso non raccontato: gran parte dell’iceberg è sott’acqua, pericolosamente indebolito e trascurato, attaccato da un ridiscusso equilibrio tra amore e dovere, tra educazione e libertà, tra privato e pubblico.
La famiglia è una scelta che domanda altre scelte, un dono che genera un dono, un amore che origina amore, una relazione che suscita relazioni, un vincolo che causa vincoli, un impegno che detta impegni: se si assolutizza una soltanto delle sue componenti, se si riduce l’amore a permissivismo, se si cancellano le regole di cui è laboratorio, se si elimina la condivisione che arricchisce le singole esistenze, se si bandisce la sua essenziale dimensione pubblica, la famiglia diviene un vuoto contenitore, formatore di individui ma non di persone, generatore di creature ma non di figli, produttore di licenze e non di educazione. E l’invasione barbarica? C’è, ma non si vede: anzi costituisce una delle chiavi di lettura forse privilegiate per penetrare il meccanismo degenerativo.
I genitori screditano la propria autorevolezza barattando il valore vincolante di alcuni imperativi formativi con una libertà che risulta priva di dighe solide, che pensa di realizzare in automatico un legame di fiducia reciproco, che spesso finisce per mascherare l’aspirazione ad una maggiore libertà per sé; i figli svendono il senso di appartenenza e il vincolo di riconoscenza non appena si imbattono, percorrendo il loro sentiero di crescita, nel “Gatto” dei propri desideri e nella “Volpe” dei propri bisogni; la famiglia non riesce più a “socializzare” l’uomo privato, ad offrire alla comunità servizi e disponibilità e ad equilibrare l’intimità del proprio vissuto con la pubblicità del comune convivere.
Una rete di rapporti che continuamente viene infranta, allontanando tra loro i soggetti, richiudendoli nell’ambizione dell’autorealizzazione e realizzando legami meccanici e funzionali: une rete di rapporti che chiede di essere difesa, rinsaldata e rintrecciata in nome di un amore che è vero e solido solo quando riesce a conciliare gratuità, libertà, impegno e responsabilità.
Analisi del 2015
8 anni fa
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