sabato 25 ottobre 2008

Che bell'affresco sull'università italiana

Pubblico l'intervento di Adriano Prosperi su Repubblica del 21 ottobre 2008

COSA DARE AGLI STUDENTI
Dobbiamo prendere atto di una realtà: l' analfabetismo civile della società italiana è un fenomeno gravissimo. E non è per caso che lo scontro sociale si sta riaccendendo intorno alla scuola. I giovani, le famiglie, gli insegnanti stanno prendendo coscienza di quello che li aspetta: una scuola pubblica pesantemente impoverita nei servizi, nel personale, negli edifici e nelle attrezzature. A cui si aggiunge una università di infimo livello, fabbrica di lauree ridicole e di docenti senza qualità. Il tempo è giudicato maturo da chi comanda per liquidare la pesante struttura della scuola pubblica e per affiancare all' università pubblica in via di smantellamento fondazioni private capaci di velocizzare la fornitura del personale tecnicamente preparato e civilmente incolto richiesto dal sistema produttivo. La giustificazione che regge la proposta è quella dello stato di crisi delle finanze pubbliche, aggravato oggi dalla tempesta mondiale delle banche. Ma la voce che si leva dalle piazze e che trova la via dei fax e delle mail per raggiungere il Quirinale dice che, accanto alle banche, prima e più delle banche, c' è ancora chi vuole salvare la formazione dei giovani e la qualità del nostro sistema della ricerca universitaria. È urgente affermare che qui si gioca una partita strategica essenziale. Prenderne coscienza è fondamentale. Lo stanno facendo le famiglie, gli studenti, i docenti, con proteste e richieste di interessi diversi, non sempre componibili tra di loro. Alle famiglie la riforma minacciata per decreto renderà più complicato raggiungere scuole accorpate, più ridotto il tempo dell' affidamento dei figli, più povera l' offerta culturale. Agli scolari e agli studenti toccherà in sorte un luogo di rafforzata disciplina esteriore negli abiti, nella condotta, e di inadeguata offerta per la crescita civile e culturale. Queste economie tagliate con l' accetta sul sistema scolastico ricordano quel Procuste che segava le gambe ai clienti per adattarli alla dimensione dei suoi letti. La scuola è il pilastro fondamentale della società civile in una democrazia vitale, il luogo della socializzazione e dell' avvio a una cittadinanza consapevole, l' unico mezzo efficace per eliminare le discriminazioni di religione e di etnia, per assorbire l' impatto dei flussi migratori mondiali abituando a crescere negli stessi ambienti coloro che, da adulti, si troveranno fuori dalla scuola a convivere nella stessa società. La rivelazione della stupefacente crescita numerica della popolazione italiana ci ha fornito i numeri di quel che è accaduto negli ultimi anni, ma ha fatto anche di più: ha dimostrato implicitamente quello che i risentimenti, le chiusure, i pregiudizi e le paure seminate a piene mani cercano di nascondere, il fatto cioè che ciascuno di noi conta per uno e che tutti insieme facciamo la somma paese. Democrazia e demografia debbono andare di pari passo. L' idea di istituire classi differenziate è sorella di quell' altra balorda idea delle impronte digitali da prendere ai bambini rom. Riuscirà la protesta degli studenti a frenare la deriva italiana? La giovinezza e la speranza di cambiare in meglio il mondo sono sorelle. Speriamo, dunque. Quanto ai compagni di strada che i giovani in agitazione e le loro famiglie stanno incontrando, la loro solidarietà non potrà esimerli da qualche esame di coscienza. Sulla protesta dei sindacati gravano quei limiti corporativi che tanto hanno pesato in passato nell' ostacolare l' avanzata dei docenti migliori e la rimozione dei peggiori e nel sostituire pressioni e contrattazioni alla logica del concorso pubblico senza limitazioni, senza fasce protette o categorie riservate. Ma è ai docenti e al sistema che governa l' università come luogo di insegnamento e di ricerca che oggi si chiede una prova speciale di credibilità. Ne saranno, ne saremo capaci? C' è da dubitarne. Un fatto recente rafforza i dubbi. Se il clan dei casalesi compie una strage in un centro abitato in pieno giorno, nessuno vede, nessuno denunzia, nessuno testimonia. Precisiamo: nessun italiano. La "vittoria dello Stato" di cui nel caso di Castel Volturno si è gloriato il ministro dell' Interno è dovuta a un immigrato, l' unico salvatosi dalla strage. Un uomo solo, terrorizzato, sfuggito alla morte, ma capace di un atto di coraggio elementare, di una domanda di giustizia che non è giunta da nessun' altra parte. Ma parliamo dell' università. Qui le stragi ci sono ma non si vedono. Sono stragi di speranze e di intelligenze. Ogni anno in questa stagione il saldo demografico dell' università si chiude in negativo: i giovani migliori vanno all' estero, i pochi che vengono in Italia da fuori vi arrivano da paesi più poveri e più incolti del nostro. Anche qui è stato un immigrato, un raro esempio di "ritorno dei cervelli" a fare una radiografia impietosa e documentata del sistema universitario. Il professor Roberto Perotti, già docente alla Columbia University di New York, oggi alla Bocconi, ne L' Università truccata (edizioni Einaudi) ha denunziato le malattie dell' Università e ha avanzato proposte. Pagina dopo pagina leggiamo nomi e cognomi. Una tabella a pagina 22 ricostruisce il sistema di parentela che domina la facoltà di economia dell' Università di Bari come pure quelle di Medicina e Chirurgia di Bari e della Sapienza di Roma. E una tabella fittissima di ben cinque pagine illustra il meccanismo dei "concorsi dei rampolli". Le regole della parentela sono elementari nelle popolazioni primitive studiate dal grande antropologo Claude Levi-Strauss. Lo sono anche nelle tribù accademiche italiane. Qui basta un padre Magnifico Rettore a determinare l' irresistibile entrata dei membri della sua famiglia nell' università che governa e nel suo stesso dipartimento. Naturalmente il problema non è la consanguineità dei professori ma il blocco degli studi e la penalizzazione dei giovani migliori che la logica mafiosa dominante nei concorsi ha prodotto con la scomparsa tendenziale delle università italiane dalla parte alta della comunità scientifica internazionale. Le pagine di Perotti fitte di nomi e cognomi potevano scatenare una tempesta di querele e di proteste, riempire le aule dei tribunali di dignità offese. Non è accaduto niente. Le toghe infangate e svergognate hanno continuano a coprire magnificenze fasulle abbarbicate a cattedre e rettorati. Si diceva una volta: "Calunniate, calunniate, qualcosa resterà". Viene voglia di dire oggi: criticate, criticate, niente resterà. Resta solo uno stato d' animo di invidia e di rancore, diffuso tra le famiglie soccombenti e nella poltiglia umana che dallo spettacolo dell' ignoranza trionfante e prevaricante ricava solo una spinta alla maldicenza anonima e indifferenziata e può consolarsi così delle proprie frustrazioni. Ma lo scandalo vero è la sordità delle istituzioni e dei poteri. In un' altra cultura avremmo visto probabilmente manifestazioni pubbliche, esibizioni delle vergogne su lenzuolate di nomi, proteste di associazioni e di sindacati, inchieste di magistrati, interrogazioni parlamentari. Nel libro di Perotti c' è quanto basterebbe in un paese dotato di un vero governo e di una vera opposizione per mettere in movimento almeno una inchiesta parlamentare. Anche perché gli intrecci osceni che avvengono nei concorsi non sono fatti solo di dinastie familiari. Come tutti sanno, il vigente principio dello "ius loci" affida al potere delle cosche accademiche localmente prevalenti la selezione delle nuove leve di docenti attraverso il paravento di finti concorsi. Su questa materia è stato detto tutto. Non è stato fatto nulla. Quel che è stato fatto è un disastro bipartisan che negli ultimi anni, col sistema del tre per due e con la regola concorsuale dello "ius loci" ha svenduto le residue energie dell' università italiana, ha riempito le scuole di ignoranti e ha moltiplicato le etichette di fantasia per fare posto agli asini obbedienti al potere del capocosca locale. Ora siamo arrivati al rendiconto finale. Lo sforzo degli studenti in agitazione per coinvolgere i docenti e di riceverne pacche sulle spalle è patetico. Ci fa misurare la distanza dalle aspre e irridenti satire del ' 68, quando l' apparizione di un professore in un' assemblea studentesca faceva scattare cori di derisione. I giovani di allora oggi sono vecchi. Molti di quelli che allora dominarono le assemblee studentesche occupano o hanno occupato cattedre, ministeri seggi parlamentari. Pesa sulle loro spalle un fallimento che non hanno saputo evitare, che hanno spesso contribuito ad accelerare. Il loro eventuale appoggio andrebbe esorcizzato come una minaccia da chi vuole veramente che la scuola e l' università italiana riprendano la loro funzione di cuore pulsante della società. Lo tengano presente i giovani che oggi, timidamente, cominciano a uscire dal torpore di un paese gravemente malato.

I NUOVI BARBARI 6 – DALL’INVASIONE ALLA RISCOSSA

Siamo giunti al capolinea: si scende!
Il nostro viaggio è compiuto ed approda al suo ultimo momento, quello del congedo e del ritorno a casa: ognuno riprenda la propria vita, i propri ritmi, le proprie cose. Possiamo finalmente togliere gli occhiali ingombranti ed “angoscianti” con i quali abbiamo cercato di guardare in maniera nuova i paesaggi che ci circondano, le cui lenti hanno forse caricato, ingigantito e amplificato la realtà; stropicciamoci gli occhi, che rivedono la luce, e riguadagniamo la nostra vista naturale sul mondo. La speranza è però che questo gesto non cancelli di colpo quanto abbiamo osservato e non getti nell’oblio i risultati del nostro esperimento, ma offra lo stimolo a leggere tra le righe i fenomeni che viviamo: occorre saper scavare dietro ogni accadimento, senza subirne l’irruzione passiva, provando a rintracciarne invece la corrente carsica e mutarne il corso, laddove pericoloso; serve ascoltare il nostro tempo e il nostro mondo, i suoi moniti, le sue sollecitazioni, purificando i segnali e le voci, arrivando al cuore dei problemi. Tornando a casa dopo il nostro peregrinare, la provocatorietà dell’analisi lasci allora spazio ai buoni propositi, l’atto di accusa sia scalzato da un’assunzione di consapevolezza, la nota volontariamente pessimistica venga sconfitta dall’impegno attivo.
Abbiamo attraversato alcune delle regioni calpestate dall’invasione barbarica, portato alla luce la crisi di autorevolezza delle nostre autorità, ribadito come l’arbitrarietà e il desiderio siano divenuti il solo criterio spendibile nell’ampio ventaglio delle umane possibilità. E’ necessario ora rinsaldare le nostre radici comuni, ridare loro linfa e forza vitale, non solo per permettere che resistano agli attacchi (sarebbe troppo poco), ma per renderle affascinanti e credibili, in maniera tale che l’attacco barbarico imploda su se stesso, sconfitto dalla propria infondatezza, e ceda al cospetto della nobiltà dei nostri valori autentici. Lascio con umiltà e speranza ad altre voci la costruzione di possibili itinerari alternativi e costruttivi, in cui attecchiscano, germoglino e fioriscano il recupero di una sana relazionalità e il riconoscimento autentico delle molte autorità che educano e formano le nostre esistenze.
Jean-Jacques Rousseau ha scritto: “L’unione tra debolezza e prepotenza non può che generare follia e miseria”. Parole che indicano uno dei possibili punti di partenza: spezzare l’incontro paradossale e funesto tra identità oramai fragili e deboli, incapaci di riconoscere e rispettare dei modelli, ed ambizioni prepotenti ed egoistiche, dedite alla tutela di verità relative, figlie di una libertà assoluta; evitare di creare una società ingovernabile, perché folle incrocio di strade senza segnaletica, e caotica, perché miseramente condannata all’istante e all’oggi; recuperare la sacralità di un bene comune che non si riduca alla somma dei singoli interessi, ma apra un piano più elevato, ma non per questo meno raggiungibile; costruire alcune decisioni su di una progettualità a lungo termine, che sappia reggere gli urti dei cambiamenti e possa avere il coraggio di alcune sanzioni.
Da vittime dell’orgoglio, della presunzione, della noia e della disperazione a protagonisti di una riscossa; dall’eroicità di alcuni gesti singoli alla condivisione di una risposta matura e comunitaria; dalla tutela del proprio all’affermazione pacifica e autorevole di alcuni valori irrinunciabili: una sfida difficile, ambiziosa e coraggiosa, chiamata a conciliare eccezionalità e fragilità, adesione e protesta, scelta e sacrificio, in nome di qualcosa a cui restare fedeli, che valga più delle nostre individualità e ci renda responsabili di fronte agli altri.

sabato 11 ottobre 2008

Finalmente non liquido

Pubblico un'illuminante analisi di Bauman del difficile momento economico globale e del suo oramai inacrdinato sistema di vita a credito

IL MONDO DROGATO DELLA VITA A CREDITO
Zygmunt Bauman

Tratto da "Repubblica" dell'otto ottobre duemilaotto

Un quotidiano britannico ha pubblicato la storia di un cinquantunenne che ha accumulato un debito di 58mila sterline su 14 carte di credito e finanziamenti vari. Con l'impennata dei costi del carburante, dell'elettricità e del gas non riusciva più a pagare gli interessi.

Deplorando, col senno di poi, la sconsideratezza che lo ha gettato in questa situazione spiacevole se la prendeva con chi gli aveva prestato il denaro: parte della colpa è anche loro, diceva, perché rendono terribilmente facile indebitarsi. In un altro articolo pubblicato lo stesso giorno, una coppia spiegava di aver dovuto drasticamente ridurre il bilancio familiare, ma esprimeva anche preoccupazione per la figlia, una ragazza giovane già pesantemente indebitata. Ogni volta che esaurisce il plafond della carta di credito subito le viene offerto in prestito altro denaro. A giudizio dei genitori le banche che incoraggiano i giovani a prendere prestiti per acquistare, e poi altri prestiti per pagare gli interessi, sono corresponsabili delle sventure della figlia.

C'era un vecchio aneddoto su due agenti di commercio che giravano l'Africa per conto dei rispettivi calzaturifici. Il primo inviò in ditta questo messaggio: inutile spedire scarpe , qui tutti vanno scalzi. Il secondo scrisse: richiedo spedizione immediata di due milioni di paia di scarpe, tutti qui vanno scalzi. La storiella mirava ad esaltare l'intuito imprenditoriale aggressivo, criticando la filosofia prevalente all'epoca secondo cui il commercio rispondeva ai bisogni esistenti e l'offerta seguiva l'andamento della domanda. Nel giro di qualche decennio la filosofia imprenditoriale si è completamente capovolta. Gli agenti di commercio che la pensano come il primo rappresentante sono rarissimi, se ancora esistono. La filosofia imprenditoriale vigente ribadisce che il commercio ha l'obiettivo di impedire che si soddisfino i bisogni, deve creare altri bisogni che esigano di essere soddisfatti e identifica il compito dell'offerta col creare domanda. Questa tesi si applica a qualsiasi prodotto, venga esso dalle fabbriche o dalle società finanziarie. La suddetta filosofia imprenditoriale si applica anche ai prestiti: l'offerta di un prestito deve creare e ingigantire il bisogno di indebitarsi.

L'introduzione delle carte di credito è stata un segno premonitore. Le carte di credito erano state lanciate sul mercato con uno slogan rivelatore e straordinariamente seducente: "Perché aspettare per avere quello che vuoi?". Desideri una cosa ma non hai guadagnato abbastanza per pagarla? Beh, ai vecchi tempi, ora fortunatamente andati, si doveva procrastinare l'appagamento dei propri desideri: stringere la cinghia, negarsi altri diletti, essere prudenti e parchi nelle spese e depositare il denaro così racimolato su un libretto di risparmio nella speranza di riuscire, con la cura e la pazienza necessarie, ad accumularne abbastanza per poter realizzare i propri sogni. Grazie a Dio e al buon cuore delle banche non è più così! Con la carta di credito si può invertire l'ordine: prendi subito, paghi dopo. La carta di credito rende liberi di appagare i desideri a propria discrezione: avere le cose nel momento in cui le vuoi, non quando te le sei guadagnate e te le puoi permettere.

Questa era la promessa, ma sotto c'era anche una nota in caratteri minuscoli, difficile da decifrare anche se facile da intuire in un momento di riflessione: quel perenne "dopo" ad un certo punto si trasformerà in "subito" e bisognerà ripagare il prestito. Il pagamento dei prestiti contratti per non aspettare e soddisfare subito i vecchi desideri, renderà difficilissimo soddisfarne di nuovi... Non pensare al "dopo", significò , come sempre, guai in vista. Si può smettere di pensare al futuro solo a proprio rischio e pericolo. Sicuramente il conto sarà salato. Più presto che tardi arriva la consapevolezza che allo sgradevole differimento dell'appagamento si è sostituito un breve differimento della vera terribile punizione per l'essere stati precipitosi. Ci si può togliere uno sfizio quando si vuole, ma anticipare il diletto non lo renderà più abbordabile... In ultima analisi, sarà differita solo la presa di coscienza della triste realtà.

Per quanto nociva e dolorosa, questa non è l'unica nota in caratteri minuscoli sotto la promessa del "prendi subito, paga dopo". Per evitare di limitare ad un solo prestatore il profitto derivante dalle carte di credito e dai prestiti facili, il debito contratto doveva essere (e così è stato) trasformato in un bene che procuri profitto permanente. Non riesci a ripagare il tuo debito? Non preoccuparti: a differenza degli avidi prestatori di denaro vecchio stile, ansiosi di veder ripagate le somme prestate entro termini ben precisi e non differibili, noi prestatori di denaro moderni e disponibili non ti chiediamo indietro i nostri soldi, bensì ci offriamo di prestartene altri per pagare il vecchio debito e avere un po' di disponibilità (cioè di debito) in più per toglierti nuovi sfizi. Siamo le banche che dicono "sì", le banche disponibili, le banche col sorriso, come diceva una delle pubblicità più geniali.

Quello che nessuno spot diceva apertamente, lasciando la verità ai cupi presagi del debitore, era che le banche prestatrici in realtà non volevano che i debitori pagassero i debiti. Se lo avessero fatto entro i termini non sarebbero stati più in debito, ma sono proprio i loro debiti (il relativo interesse mensile) che i moderni, disponibili (e geniali) prestatori di denaro hanno deciso, con successo, di riciclare come fonte prima del loro profitto costante, assicurato (e si spera garantito). I clienti che restituiscono puntualmente il denaro preso in prestito sono l'incubo dei prestatori. Le persone che si rifiutano di spendere denaro che non abbiano già guadagnato e si astengono dal prenderlo in prestito, non sono di alcuna utilità ai prestatori - perché sono quelli che (spinti dalla prudenza o da un senso antiquato dell'onore) si affrettano a ripagare i propri debiti alle scadenze. Una delle maggiori società di carte di credito presenti in Gran Bretagna ha suscitato pubbliche proteste (che certo avranno vita breve) nel momento in cui ha scoperto il suo gioco rifiutando il rinnovo delle carte ai clienti che pagavano ogni mese il loro intero debito, senza quindi incorrere in sanzioni finanziarie.

L'odierna stretta creditizia non è risultato del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del tutto prevedibile, anche se nel complesso inatteso, del loro straordinario successo: successo nel trasformare una enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una genìa di debitori. Perenni debitori, perché si è fatto sì che lo status di debitore si auto-perpetui e si continuino a offrire nuovi debiti come unico modo realistico per salvarsi da quelli già contratti. Entrare in questa condizione, ultimamente, è diventato facile quanto mai prima nella storia dell'uomo: uscirne non è mai stato così difficile. Tutti coloro che erano nelle condizioni di ricevere un prestito, e milioni di altri che non potevano e non dovevano essere allettati a chiederlo, sono già stati ammaliati e sedotti a indebitarsi. E proprio come la scomparsa di chi va a piedi nudi è un guaio per l'industria calzaturiera, così la scomparsa delle persone senza debiti è un disastro per l'industria dei prestiti. Quanto predetto da Rosa Luxemburg si è nuovamente avverato: comportandosi come un serpente che si mangia la coda il capitalismo è nuovamente arrivato pericolosamente vicino al suicidio involontario, riuscendo ad esaurire la scorta di nuove terre vergini da sfruttare...

Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni - anni di apparente prosperità senza precedenti- del 22 per cento. L'ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15%. E , cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione, è raddoppiato. L'insegnamento dell'arte di "vivere indebitati", per sempre, è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali... Si è arrivati a una situazione molto simile in Gran Bretagna. Il resto dei Paesi europei segue a non grande distacco. Il pianeta bancario è a corto di terre vergini avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile.

La reazione finora, per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita : il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, dell'indebitarsi e mantenersi indebitato, potrebbe tornare alla "normalità". Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega per evitare invidiosi paragoni. Lo Stato ha nuovamente flesso in pubblico muscoli a lungo rimasti inattivi, stavolta al fine di proseguire il gioco che rende questo esercizio ingrato ma, abominevole a dirsi, inevitabile; un gioco che stranamente non sopporta che lo Stato fletta i muscoli, ma non può sopravvivere senza.

Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest'occasione è che l'uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d'uscita apparentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con auspicabile regolarità) la fornitura di droga.

Andare alle radici del problema non significa risolverlo all'istante. È però l'unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all'enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi , sofferenze delle crisi di astinenza.

(Traduzione di Emilia Benghi)

I NUOVI BARBARI 5 – La famiglia e le leggi dell’amore

Vogliamo capire davvero l’intensità e la radicalità di quell’invasione barbarica così generalizzata e diffusa di cui abbiamo provato a tratteggiare alcuni lineamenti? Desideriamo conoscere fino in fondo la pervasività di una crisi che attanaglia il rispetto dell’autorità e cancella ogni autorevolezza che non sia semplicemente quella dettata da una coscienza ripiegata su se stessa e sui propri bisogni?
Facciamo allora come farebbe ogni bravo e serio studioso di laboratorio, prendiamo un campione in provetta della nostra società, guardiamolo attraverso il dettaglio di un buon microscopio, mettiamo a fuoco fino ad arrivare alla sua ultima cellula, quella che ne regola i ritmi, ne conserva il segreto della vitalità, ne permette il battito vitale regolare ed equilibrato: siamo al cospetto della cellula sociale della nostra esistenza, la famiglia. Ecco, se la osserviamo bene, ci accorgiamo che l’imbarbarimento è arrivato fin qui, fino all’interno delle nostre mura domestiche, fin dentro i nostri rapporti privati, personali e parentali, erodendone l’autenticità, mutandone le finalità, tradendone la vocazione.
Omicidi e violenze di figli nei confronti dei genitori, aggressioni e attacchi di genitori nei confronti dei professori dei propri figli: la frequenza e la crescita esponenziale di questi fenomeni quasi rischiano di “appiattire” la radicalità del problema sull’eccezionalità delle sue manifestazioni. In realtà, andando a fondo e oltre l’impatto eclatante delle cronache dei giornali, vi è un sottobosco meno visibile e spesso non raccontato: gran parte dell’iceberg è sott’acqua, pericolosamente indebolito e trascurato, attaccato da un ridiscusso equilibrio tra amore e dovere, tra educazione e libertà, tra privato e pubblico.
La famiglia è una scelta che domanda altre scelte, un dono che genera un dono, un amore che origina amore, una relazione che suscita relazioni, un vincolo che causa vincoli, un impegno che detta impegni: se si assolutizza una soltanto delle sue componenti, se si riduce l’amore a permissivismo, se si cancellano le regole di cui è laboratorio, se si elimina la condivisione che arricchisce le singole esistenze, se si bandisce la sua essenziale dimensione pubblica, la famiglia diviene un vuoto contenitore, formatore di individui ma non di persone, generatore di creature ma non di figli, produttore di licenze e non di educazione. E l’invasione barbarica? C’è, ma non si vede: anzi costituisce una delle chiavi di lettura forse privilegiate per penetrare il meccanismo degenerativo.
I genitori screditano la propria autorevolezza barattando il valore vincolante di alcuni imperativi formativi con una libertà che risulta priva di dighe solide, che pensa di realizzare in automatico un legame di fiducia reciproco, che spesso finisce per mascherare l’aspirazione ad una maggiore libertà per sé; i figli svendono il senso di appartenenza e il vincolo di riconoscenza non appena si imbattono, percorrendo il loro sentiero di crescita, nel “Gatto” dei propri desideri e nella “Volpe” dei propri bisogni; la famiglia non riesce più a “socializzare” l’uomo privato, ad offrire alla comunità servizi e disponibilità e ad equilibrare l’intimità del proprio vissuto con la pubblicità del comune convivere.
Una rete di rapporti che continuamente viene infranta, allontanando tra loro i soggetti, richiudendoli nell’ambizione dell’autorealizzazione e realizzando legami meccanici e funzionali: une rete di rapporti che chiede di essere difesa, rinsaldata e rintrecciata in nome di un amore che è vero e solido solo quando riesce a conciliare gratuità, libertà, impegno e responsabilità.