martedì 8 dicembre 2009

Vertigine artistica-Vertigine fisica


Piccolo diario di sensazioni frammentate dagli Stati Uniti
(per lo più “solo” in viaggio di nozze) / 3


Ultima tappa new-yorkese, in attesa di una nuova occasione che attutisca l’attuale rognoso rimpianto di averla vissuta male e offra l’opportunità di una confidenza maggiore dopo i primi timidi e spauriti contatti; ultimo sguardo sulla metropoli-simbolo dei nostri tempi post-moderni, che spaventa mentre la si visita e affascina dopo averla visitata. Ultimo ricordo, o meglio, forse, ultimo raccordo.
Ma ovvio: la vertigine architettonica del grattacielo e la vertigine artistica del museo. New York ti regala entrambe queste possibilità e, anzi, ne imbastisce un’offerta quasi paralizzante. Da un lato la possibilità di scegliere da quale altezza disumana guardare il mondo umano, dall’altro la possibilità di scegliere da quale periodo storico-artistico contemplare la storia dell’arte. In sostanza l’esperienza estatica della vetta di ciò che il Novecento ingegneristico-architettonico ha regalato al mondo come propria massima espressione e l’esperienza estetica dei musei della grande mela, che racchiudono magistralmente e miracolosamente ciò che l’intera storia del genere umano ha regalato al mondo come espressione del proprio sé artistico: l’arte di tutto il mondo in musei molto americani; il grattacielo molto americano come arte per tutto il mondo.
Tre mattinate intere che non sono state sufficienti e un paio d’ore che sono state eterne: entro questo arco temporale abbiamo provato a racchiudere ciò che non era racchiudibile; all’interno di questi confini troppo umani abbiamo provato a far entrare tutto quanto potesse poi costituire un bagaglio enorme di ricordi e sensazioni.
Tre mattinate ognuna delle quali dedicata ad una sfacchinata epica. La prima consacrata al tempio del MET: un’icona dal primo gradino del suo sontuoso ingresso (sentire qualche giovane rampante della più alta aristocrazia new-yorkese – o dedicare qualche attimo a Gossip Girl – per capire cosa significano quei gradoni) alle miriadi di corridoi e di sale (tutto il mondo, tutta la sua storia, tutta la nostra percezione artistica all’interno di quattro mura grandi come un pianeta e alte come miliardi di anni). La seconda dedicata al Museo di Scienze Naturali: una sorpresa insospettata (al di là del terrore che si animassero anche di giorno tutte quelle creature, davvero l’impatto è vertiginoso e costituisce il complemento migliore del MET: dopo aver visto la storia artistica del mondo, vuoi vedere in un solo luogo la storia di tutto il resto – stellare, spaziale, animale, biologica, etc etc –? eccoti servito) e un esempio di ciò che un museo dovrebbe essere (dialogo tra generazioni, generi, offerte: divertimento che diviene cultura, cultura che diviene divertente: e poi quale luogo può permetterti di scoprire realmente che i dinosauri sono esistiti e hanno lasciato dei resti?). La terza è spettata, di diritto, al MOMA: dall’impressionismo al cubismo fino all’altro ieri, dalla pop art al design fino a dopo-domani (una goduria rara, ma soprattutto un punto prospettico speciale per capire la velocità dei nostri tempi e l’evoluzione artistica negli ultimi due secoli); prendete il Museo D’Orsay, regalategli qualche follia tutta contemporanea, aggiungetegli qualche capolavoro e mettetelo in un edificio non ugualmente affascinante: eccolo il MOMA, in tutto il suo splendore.
(nel mezzo, dobbiamo essere sicneri, c’è stato modo di una capatina anche alla Frick Collection: forse la migliore delle ciliegine possibili su questa torta immensa: la residenza dell'industriale Henry Clay Frick merita davvero ed è sorprendentemente affascinante e ricca).
E’ rimasta la serata, ma per descriverne le sensazioni ci vorrebbe non so cosa, e allora mi limito intanto alla cronaca: la hall del Rockfeller Center, un’ascensore dal tetto trasparente, una trentina di secondi per fare oltre 70 piani, una terrazza all’aperto, il silenzio più abissale che si può raggiungere a New York, una densità di luci che si spalma su un orizzonte infinito, il brivido unico di una vertigine artificiale. La piattaforma panoramica a centinaia di metri di altezza, la totalità altrimenti quasi impossibile della città, il fascino della notte che rende buia l’isola verde di Central Park, l’Empire State Building di fronte, i palazzi tutt’intorno: poche volte nella vita – e meno che mai pensavo nel mio scetticismo in quest’occasione – sono rimasto così senza fiato, stretto tra il senso di paurosa vertigine e la tentazione prometeica di onnipotenza. Sotto il mondo che prosegue alle sue velocità e sopra tu che lo domini a tal punto da non sentirne le voci ed i rumori; sotto zig zag di vite e sopra un’unica grande cupola di cielo.
E se alla fine New York non sintetizzasse proprio l’umanissima orizzontalità della velocità, degli affari, delle culture, dei popoli e la verticalità della storia, delle conquiste, delle aspirazioni, dello spirito in un crogiulo che prova a mascherare ma non riesce ad annientare la ricca complessità e la radice ultima dell’uomo?

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