La domanda mi sembra davvero scoppiettante nella sua semplicità (e forse per questo non è stata ancora posta a voce alta quasi da nessuno): cosa succederà da domani se un singolo finisse per presentare in ritardo una domanda per un concorso pubblico, arrivando venti minuti (o mezz’ora che sia) in ritardo, magari con qualche leggero vizio di forma sulla richiesta? O cosa dovrebbe avvenire (approssimandoci ad un caso analogo) nel più piccolo dei comuni del nostro paese se, alle elezioni comunali, una lista arrivasse fuori tempo o motivo massimo alla scadenza naturale e legale?
Al di là di Dl attuativi, interpretativi o altro (incluse le regolamentazioni costituzionali che regolano le firme del Capo dello Stato), mi sembra che il vero vulnus di tutta questa storia, trascurato in nome di una realpolitik che guarda alle reazioni dei cittadini solo quando divengono pericoloso strumento di intimidazione, è la riproposizione della distinzione pericolosa tra democrazia formale e democrazia sostanziale risolta dall’agghiacciante “argomento dei numeri”. Perché è questo a cui stiamo assistendo: la cancellazione delle regole in nome del peso numerico-politico. Si sarebbe avuta la stessa movimentazione pubblica e politica a parti invertite, ovvero se fossero stati, ad esempio, i radicali a combinare il pasticcio che in ben due regioni il PDl ha commesso?
Ritengo che quanto avvenuto in questi giorni sia metafora di molte degenerazioni della politica, ma in assoluto che introduca un precedente che “farà” inevitabilmente e pericolosamente costume.
Un precedente cioè che lascia passare, tra l’altro, due principi sinceramente un po’ strani: innanzitutto quello secondo cui le regole formali sarebbero fittizie, retoriche e barocche, nonché valide solo nel caso in cui non siano rispettate da altri; in secondo luogo quello secondo cui non è più l’elezione che si deve svolgere a decidere la forza di un partito, ma l’elezione precedente o il fatto che sia al governo (fino a prova contraria fino all'election day non si sa ancora quanti voteranno il partito X). Dato che in questa caso sarebbe rimasta fuori una parte notevole di elettori (sulla base dell’esito elettorale precedente, per l’appunto), la regola deve passare in secondo piano? La sostanza (ma, poi, al di là dei termini, di quale sostanza parliamo?) deve vincere sulla forma (pensi bene il nostro Presidente del Senato, seconda carica dello Stato, quando pronuncia queste parole, che la sua stessa carica è investita di formalità, che le sue parole devono essere esempio di rigore istituzionale e che la forma, quando si tratta di regole, e ancora più di leggi, non è retorica, ma spesso già sostanza)?
Altra trascurata declinazione poco confortante. Siamo di fronte nuovamente al crollo politico di ogni vincolo di responsabilità della classe dirigente nei confronti del suo elettorato (nient'altro che una delle manifestazioni concrete della crisi dei partiti): se i dirigenti di un partito hanno infatti delle cariche, queste comportano non solo onori, ma oneri, tra i quali quello di dovere testimoniare e spiegare alla propria base il perché, a causa di un proprio errore, quella stessa base sarà privata della possibilità di votare un proprio rappresentante. Testimonianza ulteriore, tra l’altro, di quanto il cordone ombelicale tra rappresentanti e rappresentati oggi non esista più e sia fittizio (solo evocato durante le elezioni, perfino dimenticato durante le legislature, strumentalmente richiamato nei casi tristi di questi giorni).
E se addirittura volessimo scendere da queste pure, asettiche, utopiche e improponibili considerazioni teoriche al piano della realpolitik , tanto invocata in queste ore (punto di partenza della stessa predisposizione al dialogo del Presidente Napolitano, al quale per autorevolezza mi rimetto), ci troveremmo di fronte ad un partito che, approfittando di un cavillo interpretativo e sventolando - stavolta guarda caso sì - la firma del Capo dello Stato, non compie nemmeno il minimo sindacale dei passi, ovvero, visto che si parla delle regole di tutti, provare a trovare una convergenza con le altre forze politiche (le quali, nel nome della medesima realpolitik o in assenza di una loro proposta concreta o in prospettiva di qualche loro errore futuro, senz'altro ne avrebbero discusso).
E se non c’è l’accortezza, nemmeno simbolica, di lanciare al paese il messaggio che sulle regole si decide tutti insieme; se non c'è la levatura politica di capire che qualora un governo decida unilateralmente su queste vicende finisce per rivelare in maniera esplicita la totale coincidenza e indistinzione tra maggioranza e organi istituzionali, come possiamo aspettarci che vengano ammessi pubblicamente gli errori e i responsabili ne chiedano pubblicamente scusa, per lo meno ai propri elettori (non a tutti, ci mancherebbe)?
Analisi del 2015
8 anni fa
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