giovedì 15 aprile 2010

IL BRUTTO DELLA POLITICA.

Note sparse, a margine de “Il bello della politica” di padre Giacomo Costa
(«Aggiornamenti sociali», aprile 2010)


Scrive Ilvo Diamanti, a conclusione di una delle sue “Mappe”, su “Repubblica”, qualche giorno fa: “Il tempo dell'elettore fedele è finito. Siamo nell'era dell'elettore scettico. Non è privo di valori, non è senza preferenze politiche. Ma ha bisogno di buone ragioni per votare un partito o un candidato. E prima ancora: per votare”. Nel suo editoriale di aprile, padre Giacomo Costa scrive: “Nel nostro Paese non mancano le persone seriamente impegnate nella costruzione di modelli di vita alternativi, che si interrogano autenticamente su come vivere insieme, che provano a declinare in una congiuntura tutt'altro che semplice i valori della solidarietà, della giustizia, della sostenibilità, e che accettano la sfida di cercare di costruire una società dal volto più umano per tutti coloro che la abitano […]. Anche fra queste persone sono evidenti i segnali di perplessità, scetticismo, sdegno e fastidio nei confronti della politica e ancor più dei politici. Tra i cattolici, non pochi, pur senza negare in teoria la possibilità di agire come credenti in politica, ritengono che nelle attuali condizioni ciò non possa di fatto accadere senza compromessi inaccettabili per chi vuol vivere in pieno il Vangelo. La tentazione di tirarsi indietro, non solo dall'impegno diretto ma anche dal voto, diventa sempre più forte a ogni elezione”.
Due penne, due stili, due prospettive differenti, ma un medesimo comune problema, una medesima condivisa consapevolezza: l’arretramento progressivo, accelerato e logorante della soglia della fiducia nella politica, giunto ad uno dei suoi atti più forti, l’astensionismo. Lo scollamento tra coloro che vivono la realtà e coloro che la rappresentano nei luoghi della politica ha raggiunto una radicalità tale che coinvolge l’unico reale strumento di partecipazione diretta che ogni cittadino possiede; strumento che però – ed è forse questa una delle più sottili differenze rispetto al recente passato – sembra quasi non essere delegittimato in sé, ma usato in maniera diversa: l’astensione in questo critico frangente storico del nostro paese non è semplicemente manifestazione di disattenzione, ma, piuttosto, di disaffezione. Quando la politica non si dimostra più attenta ai problemi reali, i cittadini non si dimostrano più affezionati al primo strumento di partecipazione politica. Anche se questo probabilmente non vuol dire che non siano attenti a quanto succede attorno a loro.
La riflessione del direttore di Aggiornamenti Sociali si può dire parta in un certo senso là dove Diamanti chiude la propria analisi “sociologica”, proprio per provare ad argomentare la strana convivenza tra impegno (civile e civico) e sfiducia (politica), che è forse uno dei fenomeni più interessanti a cui stiamo assistendo. In ritratti troppo spesso banalizzati, semplificati e artefatti del nostro paese (basti citare, giusto per fare un esempio, quale affresco spesso emerga del nostro Meridione, senza che nessuno tratteggi mai, invece, i contorni e le fisionomie di comunità e persone, spesso impegnate in parrocchia, che tengono vive intere fette di Sud e di Paese) si tende infatti a mettere sul piatto due tipi di considerazioni: a sinistra, giusto per intenderci, l’analisi che emerge è quella che mette capo sostanzialmente, ed ancora, alle stra-note parole di Bobbio, per cui non vince Berlusconi in quanto tale, ma “la società che i suoi mass media, la sua pubblicità, hanno creato. È la società che gode nel vedere insulse famigliole riunite intorno ad un tavolo che glorificano questo o quel prodotto”; a destra, giusto per intenderci, si crede che basti sventolare lo spettro del comunismo, scialacquare la parola amore e etichettare tutto con la “politica del fare”, per catalizzare l’elettorato. Ma, mettendo per una volta da parte quella fetta del nostro paese che può corrispondere a tali semplificazioni e che costituisce l’elettorato fidelizzato, la nota più curiosa che l’ultima tornata elettorale ci ha consegnato è proprio il disimpegno politico di chi s’impegna civicamente (possiamo infatti pensare che nella sempre più alta percentuale di astensionisti non comincino ad essere implicati proprio questi ultimi?), ovvero, tradotto, la sempre più ampia sfiducia nei confronti della politica e dei politici anche da parte di chi “non è privo di valori”, per dirla alla Diamanti, o “delle persone seriamente impegnate”, per citare Costa.
Sotto questo punto di vista, il direttore di “Aggiornamenti Sociali” offre alla nostra riflessione tre nodi importanti: un circolo vizioso, un paradosso e un’ipotesi di lavoro.
Il circolo vizioso è tutto interno al fenomeno di personalizzazione della politica: più le attese, le speranze e la fiducia riposano esclusivamente sulla figura di un leader carismatico, più si allentano i meccanismi delle mediazioni e della pazienza. La ricerca affannata di un leader a sinistra, il successo del leader di destra (terrei fuori da questa querelle il “messianismo” dell’Obama statunitense: lì il fattore di essere il primo Presidente di colore amplifica la portata simbolica e rende tutto più eccezionale) rivelano la difficoltà odierna ad attrarre attraverso un progetto e implicano l’abbandono preventivo di ogni “realismo del gestire una complessa macchina amministrativa” e “della fatica della pazienza che inevitabilmente accompagna la produzione del mutamento sociale”. I tempi del “life is now” con il tempo del leader stanno cancellando i tempi delle stagioni fisiologiche della politica.
Il paradosso è quello di una società della comunicazione in cui sono spezzate le vie di comunicazione tra amministratori e amministrati. Anche in questo caso padre Costa coglie nel segno: “Oggi i cittadini hanno con i politici un contatto essenzialmente mediatico: dunque inevitabilmente «mediato», e spesso anche in certo qual modo falsato e distorto, più virtuale che reale. Così aumentano la sensazione di distanza dalla politica e la percezione che i politici sono più preoccupati di mantenere i loro privilegi (di «casta») che interessati ad affrontare i problemi concreti della vita reale. Per chi si occupa della cosa pubblica si presenta quindi la sfida di rinsaldare, o creare, un legame forte con i cittadini comuni, condividendone il vissuto quotidiano per comprendere dall'interno e affrontare i loro problemi e le loro esigenze”. Nella società in cui tutti possono comunicare e la comunicazione è sempre più virtuale, la politica non veicola, attraverso i mezzi di comunicazione, progetti credibili, ma un continuo sterile discorso su stessa, fino a rintanarsi in una sorta di facebook dai contatti limitati, tutta tesa a coltivare i semi, ad innaffiarli e togliere l’erbaccia nella propria Farmville.
Ed infine l’ipotesi: riscoprire un nuova rapporto tra autorità e potere. “L'idea che l'autorità e il potere consistano essenzialmente nel controllo è molto potente e soprattutto funzionale agli interessi di chi vede la società come il luogo dell'affermazione di sé o della massimizzazione dei propri vantaggi, anziché della costruzione di opportunità di vita buona per tutti, sulla base dell'originalità di ciascuno”, mentre è sempre meno diffusa una visione del potere la cui autorevolezza si radica essenzialmente su due fattori. In primo luogo far fiorire nel senso di portare all’essere: “Il termine «autorità» reca in sé il significato etimologico di «generare», di «lasciare originare dal proprio seno», di «portare all'esistenza». Per questo chi esercita autorità, il leader, è colui che si riconosce «autore» (dal latino auctor, letteralmente «il promotore», «colui che fa avanzare»), cioè permette ad altri di crescere e di diventare a loro volta leader. Una affermazione di tale portata risulta in un certo senso paradossale, perché sovverte la visione ordinaria dei rapporti di autorità, che sono di norma considerati contrattuali e asimmetrici, trasformandoli in relazioni d'influenza non coercitiva e non contrattuale”. In seconda istanza, non considerarsi indispensabile: il potere persiste a chi lo esercita e l’autorevolezza di chi lo esercita per un lasso di tempo consiste anche nel saper costruire il futuro del ruolo che egli incarna e della realtà sulla quale lo esercita, pensando costantemente al “dopo di sé”.
In uno splendido romanzo, Saggio sulla lucidità, Saramago racconta, con i tratti di un giallo politico, la storia di un paese e di una città senza nome in cui, nella tornata delle elezioni amministrative, la gente non diserta i seggi, ma vota scheda bianca: cosa ne consegue? Ne segue che nessuno dei politici di turno inizia ad interrogarsi e ad interrogare i cittadini sul perché di una scelta tanto incomprensibilmente coesa, ma inaugura piuttosto una strategia del terrore, che finisce per ammantare la situazione di disaffezione con il fantasma della congiura anarchica di pochi che hanno sobillato molti. Lo scrittore portoghese ci permette allora di rilanciare ulteriormente la sfida, accompagnati dagli spunti di padre Costa, con un duplice compito: quello di aiutare i cittadini a capire che si può ancora votare scheda bianca per comunicare il proprio comprensibile senso di sfiducia, mentre disertare una tornata elettorale vuol dire in qualche modo delegittimarsi come tali; quello di aiutare i politici a capire che i segnali che arrivano dal mondo reale sono spesso più diretti e chiari e al tempo stesso più tragici e urgenti dell’immagine che loro tendono a cucirvi sopra per alleggerire propri doveri e proprie responsabilità.

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