Vivere e morire secondo il Vangelo
Di Enzo Bianchi, Priore di Bose
La Stampa, 15 febbraio 2009 “C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare” ammoniva Qohelet, così come “c’è un
tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per uccidere e un tempo per
guarire...”. Veniamo da settimane in cui questa antica sapienza umana – prima ancora che
biblica – è parsa dimenticata: anche tra i pochi che parlavano per invocare il silenzio v’era
chi sembrava mosso più che altro dal desiderio di far tacere quanti la pensavano
diversamente da lui. Soprattutto si è avuto l’impressione che l’insieme della nostra società
non avesse certezze condivise sulla scansione dei diversi “tempi” e sul significato dei
diversi verbi usati da Qohelet a indicare lo scorrere dell’esistenza umana: quando è
“tempo” per questo o per quell’altro? E cosa significa parlare, morire, uccidere, guarire?
Uno smarrimento di senso condiviso che ha coinvolto anche parole forti attinenti ai
principi fondamentali dell’etica: dignità, libertà, volontà, rispetto, carità, vita...
Le settimane appena trascorse saranno sicuramente ricordate come “giorni cattivi” da
molti cristiani, ma anche da molti uomini e donne non cristiani che tentano ogni giorno di
rinnovare la loro ricerca di senso, soprattutto attraverso la faticosa lotta dell’amare in
verità e dal lasciarsi amare da quanti sono loro accanto. “Giorni cattivi” è un’espressione
biblica che indica tempi privi di una parola da parte di Dio, da parte dei suoi profeti e
quindi anche privi di parole umane sincere, vere, autentiche: tempi in cui si fa silenzio per
non aumentare il rumore, la rissa, l’aggressione nella comunità umana e per evitare che
parole sensate vengano triturate insieme alle insensate e non si riesca poi più a recuperarle
per giorni migliori. Per questo molti hanno preferito il silenzio. Da parte mia confesso che,
anche se il direttore di questo giornale mi ha invitato più volte a scrivere, ho preferito fare
silenzio anzi, soffrire in silenzio aspettando l’ora in cui fosse forse possibile – ma non è
certo – dire una parola udibile.
Attorno all’agonia lunga diciassette anni di una donna, attorno al dramma di una famiglia
nella sofferenza, si è consumato uno scontro incivile, una gazzarra indegna dello stile
cristiano: giorno dopo giorno, nel silenzio abitato dalla mia fede in Dio e dalla mia fedeltà
alla terra e all’umanità di cui sono parte, constatavo una violenza verbale, e a volte
addirittura fisica, che strideva con la mia fede cristiana. Non potevo ascoltare quelle grida
– “assassini”, “boia”, “lasciatela a noi”... – senza pensare a Gesù di Nazaret che quando gli
hanno portato una donna gridando “adultera” ha fatto silenzio a lungo, per poterle dire a
un certo punto: “Donna (non “adultera”), neppure io ti condanno: va’ e non peccare più”;
non riuscivo ad ascoltare quelle urla minacciose senza pensare a Gesù che in croce non
urla “ladro, assassino!” al brigante non pentito, ma in silenzio gli sta accanto,
condividendone la condizione di colpevole e il supplizio. Che senso ha per un cristiano
recitare rosari e insultare? O pregare ostentatamente in piazza con uno stile da
manifestazione politica o sindacale?
Ma accanto a queste contraddizioni laceranti, come non soffrire per la strumentalizzazione
politica dell’agonia di questa donna? Una politica che arriva in ritardo nello svolgere il
ruolo che le è proprio – offrire un quadro legislativo adeguato e condiviso per tematiche
così sensibili – e che brutalmente invade lo spazio più intimo e personale al solo fine del
potere; una politica che si finge al servizio di un’etica superiore, l’etica cristiana, e che
cerca, con il compiacimento anche di cattolici, di trasformare il cristianesimo in religione
civile. L’abbiamo detto e scritto più volte: se mai la fede cristiana venisse declinata come religione civile, non solo perderebbe la sua capacità profetica, ma sarebbe ridotta a
cappellania del potente di turno, diverrebbe sale senza più sapore secondo le parole di
Gesù, incapace di stare nel mondo facendo memoria del suo Signore.
E’ avvenuto quanto più volte avevo intravisto e temuto: lo scontro di civiltà preconizzato
da Huntington non si è consumato come scontro di religioni ma come scontro di etiche,
con gli effetti devastanti di una maggiore divisione e contrapposizione nella polis e, va
detto, anche nella chiesa. Da questi “giorni cattivi” usciamo più divisi e non certo per
quella separazione in nome di Cristo che, con il comandamento nuovo dell’amore da
estendersi fino ai nemici, può provocare divisione anche tra genitori e figli, all’interno
della famiglia o della “casa” di appartenenza. Abbiamo invece conosciuto divisione in
nome di quel male che affligge l’umanità e che trasforma la diversità in demonizzazione
dell’altro, muta l’avversario in nemico, interrompe o nega il confronto e il dialogo, dando
origine a posizioni ideologiche capaci di violenza prima verbale poi fisica e sociale. Da un
lato il fondamentalismo religioso che cresce, dall’altro un nichilismo che rigetta ogni etica
condivisa fanno sì che cessi l’ascolto reciproco e la società sia sempre più segnata dalla
barbarie.
Per chi come me ha pensato di dedicare tutte le fatiche alla ricerca del dialogo, del
confronto, del faticoso cammino verso la comunione, innanzitutto nello spazio cristiano e
poi tra gli uomini, e in questo sforzo sentiva di poter rendere conto della speranza
cristiana che lo abita e di annunciare il vangelo che lo anima, questi giorni sono davvero
cattivi. Come ignorare anche gli altri segni di barbarie cui stiamo assistendo in questa
amara stagione? Leggi che chiedono ai medici di segnalare alle forze dell’ordine la
presenza di clandestini che necessitano di cure mediche, vanificando così il diritto alla
salute riconosciuto a qualunque essere umano; episodi ormai ricorrenti di giovani e
ragazzi che danno fuoco a immigrati o a mendicanti; senzatetto di cui si prevede la
schedatura mentre li si lascia morire di freddo; esercizio della violenza in branco verso
donne o disabili...
Sì, ci sono state anche voci di compassione, ma nel clamore generale sono passate quasi
inascoltate. L’Osservatore romano ha coraggiosamente chiesto – tramite le parole del suo
direttore, il tono e la frequenza degli interventi – di evitare strumentalizzazioni da ogni
parte, di scongiurare lo scontro ideologico, di richiamare al rispetto della morte stessa. Ma
molti mass media in realtà sono apparsi ostaggio di una battaglia frontale in cui nessuno
dei contendenti si è risparmiato mezzi ingiustificabili dal fine. Eppure, di vita e di morte si
trattava, realtà intimamente unite e pertanto non attribuibili in esclusiva a un campo o
all’altro, a una cultura o a un’altra. La morte resta un enigma per tutti, diviene mistero per
i credenti: un evento che non deve essere rimosso, ma che dà alla nostra vita il suo limite e
fornisce le ragioni della responsabilità personale e sociale; un evento che tutti ci minaccia e
tutti ci attende come esito finale della vita e, quindi, parte della vita stessa, un evento da
viversi perciò soprattutto nell’amore: amore per chi resta e accettazione dell’amore che si
riceve. Sì, questa è la sola verità che dovremmo cercare di vivere nella morte e accanto a
chi muore, anche quando questo risulta difficile e faticoso. Infatti la morte non è sempre
quella di un uomo o una donna che, sazi di giorni, si spengono quasi naturalmente come
candela, circondati dagli affetti più cari. No, a volte è “agonia”, lotta dolorosa, perfino
abbrutente a causa della sofferenza fisica; oggi è sempre più spesso consegnata alla scienza
medica, alla tecnica, alle strutture e ai macchinari...
Che dire a questo proposito? La vita è un dono e non una preda: nessuno si dà la vita da se
stesso né può conquistarla con la forza. Nello spazio della fede i credenti, accanto alla
speranza nella vita in Dio oltre la morte, hanno la consapevolezza che questo dono viene
da Dio: ricevuta da lui, a lui va ridata con un atto puntuale di obbedienza, cercando, a
volte anche a fatica, di ringraziare Dio: “Ti ringrazio, mio Dio, di avermi creato...”. Ma il
credente sa che molti cristiani di fronte a quell’incontro finale con Dio hanno deciso di
pronunciare un “sì” che comportava la rinuncia ad accanirsi per ritardare il momento di
quel faccia a faccia temuto e sperato. Quanti monaci, quante donne e uomini santi, di
fronte alla morte hanno chiesto di restare soli e di cibarsi solo dell’eucarestia, quanti hanno
recitato il Nunc dimittis, il “lascia andare, o Signore, il tuo servo” come ultima preghiera
nell’attesa dell’incontro con colui che hanno tanto cercato... Negli anni più vicini a noi,
pensiamo al patriarca Athenagoras I e a papa Giovanni Paolo II: due cristiani, due vescovi,
due capi di chiese che hanno voluto e saputo spegnersi acconsentendo alla chiamata di
Dio, facendo della morte l’estremo atto di obbedienza nell’amore al loro Signore.
Testimonianze come queste sono il patrimonio prezioso che la chiesa può offrire anche a
chi non crede, come segno grande di un anticipo della vittoria sull’ultimo nemico del
genere umano, la morte. Voci come queste avremmo voluto che accompagnassero il
silenzio di rispetto e compassione in questi giorni cattivi assordati da un vociare indegno.
La chiesa cattolica e tutte le chiese cristiane sono convinte di dover affermare
pubblicamente e soprattutto di testimoniare con il vissuto che la vita non può essere tolta o
spenta da nessuno e che, dal concepimento alla morte naturale essa ha un valore che
nessun uomo può contraddire o negare; ma i cristiani in questo impegno non devono mai
contraddire quello stile che Gesù ha richiesto ai suoi discepoli: uno stile che pur nella
fermezza deve mostrare misericordia e compassione senza mai diventare disprezzo e
condanna di chi pensa diversamente.
Allora, da una millenaria tradizione di amore per la vita, di accettazione della morte e di
fede nella risurrezione possono nascere parole in grado di rispondere agli inediti
interrogativi che il progresso delle scienze e delle tecniche mediche pongono al limitare in
cui vita e morte si incontrano. Così le riassumeva la lettera pontificale di Paolo VI
indirizzata ai medici cattolici nel 1970: “Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al
medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della
sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte
le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti
casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase
terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di
impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile,
con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e
che va naturalmente verso il suo epilogo: l’ora ineluttabile e sacra dell’incontro dell’anima
con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della passione
di Cristo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita”.
Ecco, questo è il contributo che con rispetto e semplicità i cristiani possono offrire a quanti
non condividono la loro fede affinché la società ritrovi un’etica condivisa e ciascuno possa
vivere e morire nell’amore e nella libertà.