lunedì 21 dicembre 2009

"Questo è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. Egli è fatto di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Egli mi assomiglia. E' Dio e mi assomiglia! Nessuna donna ha avuto in questo modo il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolissimo che si può prendere tra le braccia e coprire di baci, un Dio tutto caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e vive"
Parole per Maria destinate ad un copione per un presepe vivente
(J.P. Sartre)


Un augurio sincero, profondo e caloroso di Buon Natale, con la speranza che sia davvero un'occasione propizia e felice per rallentare e rasserenare le nostre vite.

martedì 8 dicembre 2009

Vertigine artistica-Vertigine fisica


Piccolo diario di sensazioni frammentate dagli Stati Uniti
(per lo più “solo” in viaggio di nozze) / 3


Ultima tappa new-yorkese, in attesa di una nuova occasione che attutisca l’attuale rognoso rimpianto di averla vissuta male e offra l’opportunità di una confidenza maggiore dopo i primi timidi e spauriti contatti; ultimo sguardo sulla metropoli-simbolo dei nostri tempi post-moderni, che spaventa mentre la si visita e affascina dopo averla visitata. Ultimo ricordo, o meglio, forse, ultimo raccordo.
Ma ovvio: la vertigine architettonica del grattacielo e la vertigine artistica del museo. New York ti regala entrambe queste possibilità e, anzi, ne imbastisce un’offerta quasi paralizzante. Da un lato la possibilità di scegliere da quale altezza disumana guardare il mondo umano, dall’altro la possibilità di scegliere da quale periodo storico-artistico contemplare la storia dell’arte. In sostanza l’esperienza estatica della vetta di ciò che il Novecento ingegneristico-architettonico ha regalato al mondo come propria massima espressione e l’esperienza estetica dei musei della grande mela, che racchiudono magistralmente e miracolosamente ciò che l’intera storia del genere umano ha regalato al mondo come espressione del proprio sé artistico: l’arte di tutto il mondo in musei molto americani; il grattacielo molto americano come arte per tutto il mondo.
Tre mattinate intere che non sono state sufficienti e un paio d’ore che sono state eterne: entro questo arco temporale abbiamo provato a racchiudere ciò che non era racchiudibile; all’interno di questi confini troppo umani abbiamo provato a far entrare tutto quanto potesse poi costituire un bagaglio enorme di ricordi e sensazioni.
Tre mattinate ognuna delle quali dedicata ad una sfacchinata epica. La prima consacrata al tempio del MET: un’icona dal primo gradino del suo sontuoso ingresso (sentire qualche giovane rampante della più alta aristocrazia new-yorkese – o dedicare qualche attimo a Gossip Girl – per capire cosa significano quei gradoni) alle miriadi di corridoi e di sale (tutto il mondo, tutta la sua storia, tutta la nostra percezione artistica all’interno di quattro mura grandi come un pianeta e alte come miliardi di anni). La seconda dedicata al Museo di Scienze Naturali: una sorpresa insospettata (al di là del terrore che si animassero anche di giorno tutte quelle creature, davvero l’impatto è vertiginoso e costituisce il complemento migliore del MET: dopo aver visto la storia artistica del mondo, vuoi vedere in un solo luogo la storia di tutto il resto – stellare, spaziale, animale, biologica, etc etc –? eccoti servito) e un esempio di ciò che un museo dovrebbe essere (dialogo tra generazioni, generi, offerte: divertimento che diviene cultura, cultura che diviene divertente: e poi quale luogo può permetterti di scoprire realmente che i dinosauri sono esistiti e hanno lasciato dei resti?). La terza è spettata, di diritto, al MOMA: dall’impressionismo al cubismo fino all’altro ieri, dalla pop art al design fino a dopo-domani (una goduria rara, ma soprattutto un punto prospettico speciale per capire la velocità dei nostri tempi e l’evoluzione artistica negli ultimi due secoli); prendete il Museo D’Orsay, regalategli qualche follia tutta contemporanea, aggiungetegli qualche capolavoro e mettetelo in un edificio non ugualmente affascinante: eccolo il MOMA, in tutto il suo splendore.
(nel mezzo, dobbiamo essere sicneri, c’è stato modo di una capatina anche alla Frick Collection: forse la migliore delle ciliegine possibili su questa torta immensa: la residenza dell'industriale Henry Clay Frick merita davvero ed è sorprendentemente affascinante e ricca).
E’ rimasta la serata, ma per descriverne le sensazioni ci vorrebbe non so cosa, e allora mi limito intanto alla cronaca: la hall del Rockfeller Center, un’ascensore dal tetto trasparente, una trentina di secondi per fare oltre 70 piani, una terrazza all’aperto, il silenzio più abissale che si può raggiungere a New York, una densità di luci che si spalma su un orizzonte infinito, il brivido unico di una vertigine artificiale. La piattaforma panoramica a centinaia di metri di altezza, la totalità altrimenti quasi impossibile della città, il fascino della notte che rende buia l’isola verde di Central Park, l’Empire State Building di fronte, i palazzi tutt’intorno: poche volte nella vita – e meno che mai pensavo nel mio scetticismo in quest’occasione – sono rimasto così senza fiato, stretto tra il senso di paurosa vertigine e la tentazione prometeica di onnipotenza. Sotto il mondo che prosegue alle sue velocità e sopra tu che lo domini a tal punto da non sentirne le voci ed i rumori; sotto zig zag di vite e sopra un’unica grande cupola di cielo.
E se alla fine New York non sintetizzasse proprio l’umanissima orizzontalità della velocità, degli affari, delle culture, dei popoli e la verticalità della storia, delle conquiste, delle aspirazioni, dello spirito in un crogiulo che prova a mascherare ma non riesce ad annientare la ricca complessità e la radice ultima dell’uomo?

lunedì 7 dicembre 2009

Diamanti luccicoso

La religione senza Dio
di ILVO DIAMANTI

Tratto da Repubblica
07.12.2009


È impossibile separare la religione dalla politica, in Italia. Tanto più dopo la fine della Dc, quando la Chiesa è tornata a rappresentare i valori, i principi, ma anche gli interessi dei cattolici in Italia, in modo autonomo e diretto. Il fatto è che oggi altri soggetti, oltre alla Chiesa, svolgono lo stesso ruolo. Talora in competizione, perfino in disaccordo con essa. Come dimostra la pesante polemica lanciata, ieri, dalla Lega contro il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano.

Ma gli esempi sono molti. Basta pensare alla proposta di inserire la croce nel tricolore. La bandiera nazionale. Avanzata (ancora) dalla Lega e apprezzata dal ministro Frattini, dopo il referendum che, in Svizzera, ha bloccato la costruzione dei minareti. D'altronde, la Lega si oppone alla costruzione delle moschee in molte realtà locali, insieme ad altri gruppi e partiti politici della destra (non solo) estrema. Xenofobia e islamofobia si mischiano e si richiamano reciprocamente, in nome delle radici cristiane dell'Europa e, soprattutto, dell'Italia. Come dimostrano le polemiche suscitate dalla decisione della Corte europea contro l'esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici. Criticata, in Italia, da gran parte delle forze politiche, di destra e di sinistra. Tutte impegnate a difendere l'identità cattolica. Anche a costo di entrare in contrasto con la Chiesa. Di assumere posizioni più clericali della Chiesa. Non nel caso del crocifisso, ovviamente, ma nelle altre vicende citate. Le moschee, i minareti. In generale: le politiche sull'immigrazione e i rapporti con gli stranieri. Su cui la Chiesa, attraverso le sue organizzazioni e i suoi media, ma anche attraverso la gerarchia (non solo il cardinale Tettamanzi, ma tutta), ha assunto posizioni molto lontane dalla Lega e dal centrodestra. Schierandosi a favore del diritto di culto e di fede religiosa, anche per gli islamici. E, dunque, in disaccordo con le guerre di religione lanciate contro i minareti e le moschee. E contro gli immigrati.

Da ciò il singolare (ricorrente) contrasto, fra la Chiesa e la Lega - spesso affiancata dagli alleati di centrodestra - nella rappresentanza dei valori religiosi e della "comunità cattolica". Il fatto è che il valore della religione va ben oltre i confini della fede e della comunità dei credenti. D'altronde (Demos, 2007), l'insegnamento della religione nella scuola pubblica, in Italia, è approvato da 9 persone su 10. E dalla maggioranza degli stessi elettori di sinistra. Lo stesso per l'esposizione del crocifisso. Perché, come ha rammentato il sociologo Jean-Paul Willaime su Le Monde: "Tutte le società europee, per quanto secolarizzate, non sono mai uscite del tutto da una concezione territoriale di appartenenza religiosa; gli stessi immaginari nazionali non sono completamente neutri dal punto di vista religioso".

Così, anche in presenza di un declino sensibile della pratica rituale, ai partiti populisti diviene possibile riattivare - e sfruttare - le componenti religiose dell'identità nazionale e territoriale. Non solo: la religione viene usata come strumento di consenso partigiano ed elettorale. Lo ha fatto la Lega fin dagli anni Novanta, in polemica aperta e dura contro la Chiesa nazionale, nemica della secessione. Lo scontro è proseguito in seguito, sui temi della solidarietà sociale, soprattutto verso gli immigrati. Sulla questione dell'integrazione. La Lega, in altri termini, si è proposta essa stessa alla guida di una religione senza Chiesa - e senza Dio. I cui valori, simboli, luoghi vengono fatti rientrare dentro i confini dell'identità territoriale. Ne diventano riferimenti fondamentali. D'altronde, il ruolo della religione nella costruzione dell'immaginario locale e nello stesso mondo intorno a noi - per riprendere la suggestione di Willaime - è innegabile e molto visibile. Un santo al giorno, scandisce il calendario. Le festività. Gli atti che accompagnano la biografia di molte persone: dal battesimo al matrimonio fino al funerale. E ancora, ogni giorno: le ore battute dai campanili. I quali, insieme alle chiese e alle cattedrali, fanno parte del nostro paesaggio quotidiano. Il che spiega, in parte, la reazione sollevata dalla possibile costruzione di luoghi di culto di altre religioni. Le moschee. Figuriamoci i minareti. Capaci di produrre una rottura rispetto al passato, resa visibile - anzi: appariscente - da uno skyline urbano inedito. Il che genera incertezza e inquietudine, soprattutto quando, come in questa fase, le appartenenze territoriali - nazionali e locali - sono scosse violentemente dalla globalizzazione, ma anche dai mille muri sorti dopo la caduta del Muro.

In Italia questo problema appare particolarmente rilevante, perché si tratta di un paese diviso, con un'identità nazionale debole e incompiuta. La Lega offre, al proposito, risposte semplici e rassicuranti a problemi complessi. Reinventa la tradizione per rispondere al mutamento. Recupera le radici cristiane di una società secolarizzata, le impianta sul territorio. Ricorre a simboli antichi per affrontare problemi nuovi. Lo spaesamento, l'inquietudine suscitata dai flussi migratori. Gli stranieri diventano, anzi, una risorsa importante per rafforzare l'appartenenza locale. Per chiarire chi siamo Noi attraverso il distacco dagli Altri.
Lo stesso crocifisso si trasforma in simbolo unificante, avulso dal suo significato. È la croce da associare al tricolore. Dove la croce è più importante del tricolore. Una bandiera che, secondo la Lega, evoca una nazione inesistente. Mentre la croce evoca lo "scontro fra civiltà". La crociata contro l'Islam, che ha l'epicentro nel Nord, dove l'immigrazione è più ampia. D'altra parte, su questi temi gli italiani e gli stessi cattolici si trovano spesso d'accordo con la Lega e con gli alleati di governo (a cui essa detta la linea). Molto meno con le posizioni solidali e tolleranti espresse dalla Chiesa (Demos per liMes, 2008).

La sfida della Lega è, dunque, insidiosa. Perché etnicizza la religione. Costruisce, al tempo stesso, una patria e un'identità. Ma anche una religione alternativa. In tempi segnati da una domanda di appartenenza e di senso acuta e diffusa.
Di fronte a questa sfida, le scomuniche e l'indignazione rischiano di risultare risposte insufficienti. Inadeguate. Per gli attori politici. (Tutti, non solo quelli di sinistra. Anche per gli alleati di centrodestra). Ma soprattutto per la Chiesa.

venerdì 27 novembre 2009

Straordinaria-mente Bergonzoni

Tratto da "Il Riformista"
Venerdì 27 novembre 2009



«In coma sono vivo, pur se non produco»
di Stefano Ciavatta


Alessandro Bergonzoni. Il caso Ron Houben, che riesce a comunicare dopo 23 anni? «Un uomo vale anche da fermo». All'estetica moderna non piacciono i risvegli, «ma solo il caso Pistorius».


«Il morbo di Cronach ha ucciso le menti di tutti. Siamo sull’attualità di basso rango, analisi di omicidi di cui nulla ci interessa dal punto di vista esistenziale. Dobbiamo rifarci il senno, io sono per la chirurgia etica. Rouben? Il suo urlo racconta la complessità del problema, siamo diventati dei plastici della vita, non parliamo mai di cosa succede dentro un corpo e un’anima» dice al telefono Alessandro Bergonzoni a proposito del quarantaseienne belga considerato in «stato vegetativo permanente» da 23 anni dopo la paralisi per un incidente stradale.

Ron Houben, grazie a un computer, ha riassunto in una frase l'altro dramma, quello del risveglio invisibile: «Urlavo ma non riuscivo a far sentire la mia voce». Mentre la realtà era diversa: «Vivo e vegeto. Ma soprattutto vivo!», come lo slogan coniato dall’attore e scrittore bolognese per l’associazione Amici di Luca di cui da anni è testimonial. Costituita nel 1997 per provvedere alle cure necessarie per risvegliare Luca, ragazzo bolognese di 15 anni in coma per 240 giorni e purtroppo scomparso nel 1998, l'associazione è riuscita a dar vita alla “Casa dei Risvegli”, un centro innovativo di riabilitazione e di ricerca inaugurato nel 2004 a Bologna nell’Ospedale Bellaria. Il primo slogan di Bergonzoni fu: «Un cavallo che vale lo danno vincente, un uomo in coma lo danno per perso, io punto tutto sui risvegli».

Oggi quanto vale un uomo in coma? «Il problema è culturale, scientifico, spirituale. Si è stabilito che conta solo il corpo che funziona per intero, che tutto deve essere indirizzato all'utilità, al desiderio, alla produzione e quindi culturalmente il terreno per poter parlare di queste cose è friabile e poco fertile. Scientificamente, siamo di fronte a ex ministri della sanità che dicono “curiamo i vivi e lasciamo perdere i morti”. Ma le certezze che la scienza sbandierava (non all'unanimità però), non ci sono più. Non voglio citare Eluana: non sono né contro né per, non sono in contrasto come invece la scienza che dogmaticamente dice “questo è, e non altro”. Noi dobbiamo andare oltre».

È sufficiente il clamore perché se ne parli in maniera approfondita? «No. L’interruzione dà fastidio a meno che non diventi Pistorius, o un testimone dello spettacolo. Perché allora diventa produttiva. Chi non vuole vedere solo l’estetica, rimane da solo. Non sono innocue queste trasmissioni, hanno costruito il mito della bellezza unica. Su internet qualcosa di diverso si trova, ma è evidente che domina la tv. È andata persa la dignità, facciamo un festival!». Quale è l'atteggiamento dei media? «Fanno attività di distrazione di massa. Ti aiutano a pensare ad altro, tutto è divertimento. Cosa resta? Lasciamo il dolore in mano ai Signorini? Ma stiamo scherzando? Non bisogna più produrre certa cultura. La pornografia è il non parlare di altro. Non abbiamo concepito davvero la diversità. Su nero e bianco e rumeno, parliamo tranquillamente. Ma sull’inguardabile, siamo a zero. In tempo di crisi, è difficile raccontare che un corpo non produce e non può dare ma che pure racconta e dà per sé».

Ci sono altri casi di invisibili risvegli? «Uno è Giampiero Steccato, ex impiegato delle ferrovie di Piacenza, è paralizzato da oltre 10 anni perché affetto dalla sindrome locked-in. Ma grazie agli assistenti, come nel racconto dello scafandro e la farfalla di Bauby, riesce a comunicare anche se muove solo un mignolo, le sopracciglia, però ci sente. Anni fa ha chiesto di vivere, ma nessuno l'ha mai intervistato o portato in tv. Interessa a qualcuno? Questo è il tema. Si continua a parlare di norme, ma non di enorme. Noi facciamo una campagna da cinque anni, ma mica il tifo. Non dobbiamo vincere, né perdere, ma concepire l'inconcepibile come concepibile. Ron ha dimostrato che come con Munch, esiste l'urlo della vita».

Perchè ne fa anche una questione spirituale? «Spirituale, ma non non religiosa. L'anima di Kandinsky e Terzani la festeggiano ovunque nei festival, ma poi tutti tornano a casa e si parla di norme. Non esiste una cultura su cosa sia un essere. Se è fermo e non parla è morto, se non produce e non fa sorriso, è morto. Quando smetteremo di parlare di morte, di uccisioni, di giallisti, e cominceremo ad affrontare ben altri misteri?
Lasciare questo discorso solo alla Chiesa o alla scienza? Io non ci sto. Su Ron la scienza si rode le mani, “sta a vedere c’è dell’altro”. Nessuno parla delle altre medicine se non della medicina unica, e il resto del pianeta? Ora tratteranno Ron come un caso eccezionale o un miracolo, tra Chiesa e laici va sempre a finire in questo modo. Nessuno vede la malattia o il danno come metamorfosi o rinascita. La realtà è che sono i sani che si devono risvegliare. Che hanno mancanza di amore per lo sconosciuto. Perché fa paura. “Dobbiamo ritrattare anni e anni di scienza?” Mi sa di sì».

Fa comodo la definizione di «stato vegetativo permanente»? «Certo, così siamo tutti sicuri e non abbiamo più paura. Raccontiamo invece altre scelte. Non è che bisogna vivere a tutti i costi, Welby non è stato disumano. Ma l’automatismo o così o altrimenti no, è pornografia. Faccio continuamente incontri negli ospedali, all'università. La gente mi dice “ma questa è poesia...”. Il mio vuole essere un r'acconto, erre apostrofo acconto, un acconto di tante verità perchè non c’è più una banca dati ufficiale».

E la politica? «I nostri politici sono quelle persone che hanno avuto all’asilo l’educazione della paura. I sani fanno case, affittano, producono. Tutta la malattia è letta attraverso il codice della finanza e dell'economia. Siamo ammalati di prodotto. “Una vita così non la vorrei fare” dice sempre qualcuno: ma è un problema tuo! Loro la vorrebbero fare! Questo è il delitto, altro che chiedere ai giovani di aggiustare la lingua italiana. Come per gli handicap dei giovani. Bisogna insegnare ai loro coetanei a rapportarsi con l'handicap. Qui si discute sul crocefisso, ma hai dentro qualcosa per andare a leggere i martoriati? La scienza se non fa filosofia non parte, e la medicina sbaglia se si crede di essere da sola, è il silenzio dei sani».

Adesso cosa succederà? «In realtà sono disperato, perchè chissà quante altre persone stanno provando a chiedere ascolto come Ron. Non mancano le strutture, manca l’ascolto, prima ancora di broncoaspirazione, o della diatriba sull'alimentazione. Insomma, chi è che da oggi andrà dagli sfasciacarrozze a cercare dei motori da salvare?». Fiction estreme come Dr. House possono aiutare a raccontare questa complessità? «House un minimo lo fa, ma è sempre spettacolo, crea assuefazione. Quei casi li conosci cronologicamente, ma non fai un lavoro su te stesso. La fiction resta fiction. Queste cose sono complesse, e soprattutto non sicure. Picasso, Bacon, Artaud parlavano di paure e insicurezza, e non delle città sane».

martedì 27 ottobre 2009

Il verde e le luci


Piccolo diario di sensazioni frammentate dagli Stati Uniti
(per lo più “solo” in viaggio di nozze) / 2


Fatta la tara al fatto che New York sa davvero poco di Stati Uniti (sia perché come ci ha detto bene la nostra simpatica guida italiana per un giorno è più un palcoscenico – finanziario, modaiolo, vipparolo – che altro, sia perché il territorio a stelle e strisce è talmente vasto e diversificato che mi sa tanto che sarà difficile averne un’idea e un’immagine unitaria e coerente – altra contraddittorietà che emerge) e preso un po’ come punto di osservazione e di partenza il nostro albergo molto centrale, sulla settima strada, la prospettiva sull’ambizione statunitense di conciliare l’inconciliabile, di far convivere gli opposti, di costruire contraddizioni è davvero illuminante: usciamo dalla nostra stanza, scendiamo dal quindicesimo piano e che succede? Succede che se guardo di fronte a me trovo la Carnegie Hall, ovvero il tempio della musica classica e speranzoso punto di arrivo per molti curricula prestigiosi di orchestrali, concertisti, direttori di orchestra, mentre se mi giro a 180° trovo dietro di me la Broadway, ovvero la via del musical e il centro dei balletti e delle scenografie tutte post-moderne; ma non basta: perché se guardo alla mia destra (e quindi a sud) trovo le luci stroboscopiche e accecanti di Time Square, il cuore artificiale dell’artificiosa Manhanttan, mentre se guardo alla mia sinistra (e quindi a nord) trovo i chilometri rasserenanti della distesa verde di Central Park (il cuore naturale dentro l’artificiale). Che dire? Tutto in un amen.
Da un lato uno dei luoghi in cui e tramite cui New York ha deciso che si potesse accreditare nei confronti di tutta una tradizione musicale europea, divenendo la vetrina prestigiosa ed ambita della concertistica mondiale; dall’altro uno dei luoghi in cui e tramite cui New York ha deciso che potesse spargere nel mondo uno dei segni più tipici della propria produzione e creazione musicale, il musical; da un lato l’austerità e la compostezza di uno dei luoghi sacri della musica classica mondiale; dall’altro una delle più antiche vie della città adibita a lustri e cartellonistica pubblicitaria di dimensioni quasi pacchiane. “Sopra” il polmone verde di Manhattan, che ti accoglie e in un attimo ti isola da suoni e contemporaneità e ti abbraccia in un’atmosfera che non pensi di poter trovare tutta e proprio lì; “sotto” un mastodontico incrocio di strade che aspira a diventare piazza, ma che ti soffoca per luci, rumori, persone e un pesantissimo affascinantissimo sostanziale vuoto;
“sopra” un’oasi dove ricordarsi che il mondo nasce verde e pacifico; “sotto” un’icona dove ammonirsi che il mondo può diventare digitale e asettico.
A congiungere tutto ciò distese di strade mastodontiche, puntellate di giallo taxi, larghe e dense, ordinate e confuse, in cui si unisce un’orizzontalità polimorfa e distratta – quella di visi provenienti da tutto il mondo, che non parlano, corrono e sembrano pensare solo a se stessi, ignari dell’occasione unica che vivono, e cioè quella di costituire carnalmente e concretamente il melting-pot – e la verticalità di grattacieli enormi, che impediscono al sole di parlare in maniera normale, ma che a te dicono molte cose, talmente tante che si fa fatica a riordinarle – ma tutte racchiudibili entro la coordinata del senso di potenza dell’uomo contemporaneo, che li ha saputi concepire e costruire, e la coordinata del senso di isolamento dell’uomo contemporaneo, che vi dimora senza più sapere troppo bene che cosa significhi oggi abitare realmente un luogo.

domenica 11 ottobre 2009

L’APPELLO AL POPOLO: IL TERMOMETRO DI UNA DEMOCRAZIA MALATA

Sono giorni molto delicati per il nostro Paese, perché ad una lunga congiuntura di profonda recessione e crisi economica (oramai dilagante e percepibile ad occhio nudo da tutti - checché ne dicano tv e politici) e ad un’improvvisa situazione di catastrofi e rigurgiti idro-sismo-geologici (quanta responsabilità alla natura e quanta colpevolezza all’uomo?) si somma un quadro politico triste e sconvolgente, fumoso e affumicato, esasperato ed esagerato, ma soprattutto pericoloso ed emblematico: pericoloso perché molto più esplosivo e rischioso di quanto l’opinione pubblica sia consapevole, così “costretta a limitarsi” a scandali e processi, congressi e primarie, invece che “allenata ad analizzare” proposte ed idee, provvedimenti e risanamenti; emblematico perché riconsegna una certa strutturale difficoltà delle democrazie odierne, sempre meno facilmente strumento di buon governo e sempre più terribilmente lontane dalle esigenze della gente, o meglio del popolo.
Il popolo, forse uno dei nodi della questione, quello sul quale vorrei un secondo richiamare l’attenzione, perché emblematicamente uno dei sintomi più eclatanti di questa crisi: sarà un caso infatti che da sinistra a destra, con motivazione molto diverse e per questioni e finalità quasi opposte, ci si appelli in continuazione proprio al popolo?
Dal lato del centro-sinistra, il popolo convocato ma frustrato dalla democrazia: un centro-sinistra, quello rappresentato dal Partito Democratico, al quale resta solo un certo esercizio democratico interno al partito, accanto all’incapacità di parlare realmente al popolo al di fuori di esso e attraverso di esso.
Dal lato del centro-destra, il popolo appellato quale protagonista unico (assoluto) della democrazia: un centro-destra, quello rappresentato dal Popolo della Libertà, che sa toccare le corde del popolo, ma che rischia al momento, con il suo leader, di innalzare la democrazia dei numeri sopra quella delle istituzioni.
Che situazione anomala!
Il partito che ha la maggioranza nel paese, che ancora fatica ad essere realmente partito, ad esercitare l’esercizio della democrazia interna, ha un leader acclamato e conclamato, certo e stabile da anni, da più di un anno di nuovo Presidente del Consiglio: a tal punto però che proprio il potere dei numeri, l’esasperazione e l’esaltazione del consenso popolare stanno divenendo l’unico criterio in una deriva che sta opponendo terribilmente governo e stato, popolo ed istituzioni, istituzioni di esercizio del potere ed istituzioni di garanzia del potere. La delegittimazione della terzietà, l’attacco all’imparzialità condotti in nome del riscontro elettorale, delle percentuali di sondaggio e del successo popolare: quale democrazia può oggi permettersi, senza farsi educare dalla storia, che il suo unico criterio di legittimazione sia il risultato dell’urna, fino al punto da essere superiore ad ogni figura ed ordine di garanzia?
Il partito che ha la maggioranza tra le opposizioni, che ancora fatica ad essere realmente un partito, soffocato da discordie che rendono esasperante l’esercizio della democrazia interna, senza un leader legittimato e con il vizio di “uccidere” ognuno che sembra poter avere effettivamente quel ruolo: a tal punto però che proprio la convocazione popolare gli rimane come l’unica testimonianza della propria esistenza; il continuo ricorso a meccanismi di elezione interna e il nuovo ma già troppo spesso utilizzato appello alle primarie come testimonianza della propria democraticità, che finisce però per essere una trappola della propria vitalità. Il ricorso al voto interno e all’appoggio esterno condotti in nome di una trasparenza che rischia di finire per essere l’unico pregio, quasi secondario rispetto all’incapacità cronica di dare un esito adeguato al riscontro: quale seguito può avere un partito che si candida a governare il paese senza essere in grado di governare se stesso? Quale valore ha il continuo appello all’esercizio della democrazia per darsi un organigramma, se poi si è la causa di una stanchezza nei confronti dei medesimi esercizi democratici per una sempre più cronica incapacità di parlare con voce forte e credibile sui problemi della nostra Italia?
Un paradosso davvero simpatico: l’appello al popolo che accomuna due storie e due percorsi così differenti e che per entrambi ci rivela quanto esso solo non debba e non possa bastare per arrogarsi il diritto della democrazia, laddove non sia temperato, in un caso, dal rispetto degli organi garanti dello Stato, dall’intoccabilità di una carta meravigliosa e forse mai realmente realizzata e dall’abbandono di ogni deriva personalistica e, nell’altro, dal riconoscimento dell’esito di un percorso, dall’abbandono di ogni rivalità interna e da un’effettiva chiara e coerente identità politica.
Una paradosso ancora più simpatico se ci accorgiamo che, in un verso o nell’altro, in realtà, oggi, la democrazia si appella al popolo per legittimare o chiedere sempre o comunque soltanto un leader.

IL PREMIO DELLA/ALLA SPERANZA. IL NOBEL AD OBAMA

Due premesse prima di iniziare il tutto.
Premessa1: in effetti un po’ di perplessità questa scelta l’ha lasciata anche a me, nonostante del premiato sia un fan accanito; dato infatti che viviamo in un mondo in cui la poesia risulta perennemente scalzata dalla prosa, forse vale più il giudizio del Times – “intento palesemente politico e di parte” – che mille suggestioni.
Premessa2: non faccio neppure troppa fatica a pensare che questa decisione sia quantomeno prematura; non male il commento a tal proposito del vicedirettore del Wall Street Journal Europe Iain Martin: “è assolutamente bizzarro. Obama non ha fatto la pace con nessuno se non forse con Hillary Clinton”.

Comunque, provando a “fantasticare” un po’ e ad abbandonare chissà quali dietrologie possibili, mi immergo nel mio sogno e nel paio di considerazioni in merito all’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Barack Obamache che in un certo qual modo nobilitano e rendono affascinante la scommessa dell’accademia svedese.
Provo ad illustrarle anche citando qualche passo.

a) “sforzi straordinari nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”.
Il primo motivo suggestivo è proprio il destinatario, ma non nella sua persona, quanto nella sua carica. Non è senz’altro la prima volta che questo riconoscimento viene affidato ad un uomo politico, ma il fatto che avvenga per l’ennesima volta ha il pregio di riconsegnare la politica alla sua vocazione autentica e alla sua dimensione progettuale, scalzandola da biechi provinciali battibecchi personali, innalzandola da quelle logiche di mercato alle quali troppo spesso si piega, mettendo in secondo piano la sua ineliminabile componente demoniaca, elevandola alla sua identità più propria e appropriata. La politica è idea e disegno di un mondo e di una società nuovi, è l’espressione pratica della relazionalità intrinseca che caratterizza la natura umana, è sguardo sul futuro, è responsabilità nei confronti delle generazioni successive, è opera di coordinamento e dialogo tra classi, culture, convinzioni, è tentativo instancabile di far prevalere la socialità sull’aggressività. Il Premio Nobel per la Pace assegnato ad un uomo politico – e all’uomo politico più potente del mondo – riconsegna centralità ad una certa visione della politica e veste di nuova dignità la missione di ogni uomo di potere: da questo punto di vista dunque – e forse di più ancora per noi italiani, in questo triste momento di eruzioni diffuse, in cui ci assale un magma incandescente che fagocita pubblico e privato, prepotenza e attacco alle istituzioni, invocazione ai numeri e scontri verbali – esso costituisce forse un’occasione propizia per tessere insieme, in maniera nuova e più convinta, due dimensioni troppo spesso divergenti: quella della teoria politica e quella della prassi politica. Il Premio Nobel per la Pace al più potente uomo politico ci ricorda che il progetto di concordia tra i popoli è alla base di ogni politica internazionale e che il potere trova la propria sana legittimazione solo laddove è ricontestualizzato all’interno di una finalità più ampia, volta a fortificare legami autentici e permettere equilibri buoni, sani e giusti.

b) “Solo raramente una persona come Obama ha catturato l'attenzione del mondo e dato al suo popolo la speranza di un futuro migliore […]. È giunto il momento per tutti noi di assumerci la nostra parte di responsabilità per una risposta globale alle sfide globali”.
Il secondo è legato alla motivazione. Sarà idealistico, o addirittura utopico, sarà superficiale, o addirittura epidermico pensarlo, ma sentire – almeno nella memoria del sottoscritto per la prima volta – assegnare un riconoscimento così prestigioso alla speranza, non nascondo che mi ha fatto qualcosa di più di un certo effetto. Non sono i risultati a contare, non è quanto si è fatto già, ma i disegni di speranza che Obama ha tratteggiato e presentato al mondo, illustrandoli sempre al plurale e presentandoli come la scommessa laica alla quale il mondo intero è chiamato a guardare. Eccolo probabilmente il vero cuore dell’assegnazione: qualcuno ha riattivato e rianimato il fiume in secca della speranza terrena e globale, ha saputo trovare nuove sorgenti per rimpolparlo e ha saputo tracciargli un letto tale da riportarlo alla luce di fronte al mondo. Un nuovo sguardo sul futuro, un nuovo capitolo per la storia, un nuovo “noi” pronto a guardare oltre i propri tanti piccoli ed egoistici “sé”.
Un investimento che è un’investitura, certo – e che sotto questo punto di vista può suscitare qualche critica –, ma come ogni investitura porta con sé delle responsabilità, che costituiscono forse l’ancora di salvezza che evita in ultima istanza a questo premio di essere solo retorica e lo trasformano immediatamente in un onere etico e politico: da oggi Obama dovrà agire non soltanto da Presidente degli Stati Uniti, non soltanto da icona di un cambiamento, ma da detentore di un Premio che lo “condanna” a meritarlo quotidianamente e lo “costringe” non più soltanto ad unire i cuori ed i sogni di molti, ma a lavorare realmente per la pace di tutti…

…ed ora che mi sono svegliato dal sogno di queste belle idee, potranno dirmi che oscuri poteri forti hanno nella realtà manovrato affinché ciò avvenisse per motivazioni che solo loro sanno, ma forte del bel sogno di questa notte provo ugualmente ad ampliare il mio bacino di speranza e ad assumermi la mia dose di responsabilità.

domenica 13 settembre 2009

Forse è giusto iniziare da qui


Piccolo diario di sensazioni frammentate dagli Stati Uniti
(per lo più “solo” in viaggio di nozze) / 1


“Questo giorno deve diventare un momento di virtù attraverso l'eredità luminosa che le vittime ci hanno lasciato nell'oscurità di questi giorni. Esse ci chiedono di restare uniti e questo vale oggi e varrà per tutti gli altri 11 settembre perché gli anni che passano non diminuiscono la pena […]. Ogni anno in questo giorno siamo tutti newyorkesi”. Se in gran parte dei suoi interventi, da quando, per fortuna, è presidente degli Stati Uniti, Barack Obama ha avuto lo straordinario merito di trovare parole all’altezza della situazione (basti citare, ultimo in ordine di tempo, il discorso al congresso per presentare la sua idea di riforma sanitaria), stavolta è riuscito persino a trovarle all’altezza del mio stato d’animo, nel giorno in cui, per la prima volta, vivo un 11 settembre “anomalo”, dopo che i miei occhi hanno visto, il mio naso respirato, le mie mani toccato il luogo dove tutto è avvenuto. E mi sembra giusto iniziare da questa data e mi sembra ancora più giusto iniziare da queste parole il tentativo di dare voce a qualche ricordo, sensazione e, soprattutto, contraddizione che gli Stati Uniti mi ha impresso dopo il mio primo viaggio al di là dell’oceano: iniziare con una data che da oggi vivrò in maniera diversa; iniziare da parole che indicano forse l’unico modo in cui si riesce a viverla se si è stati, anche solo per una briciola della propria vita, come nel mio caso, non solo “spiritualmente” newyorkesi.
Qualche pomeriggio fa, quello del giorno fatidico (11/09), in una zappinghevole pausa pomeridiana mi sono fermato sulla sempre interessante La7 e vi sono rimasto quasi forzatamente avvinghiato a causa di un documentario (in questi anni sfuggitomi) in cui venivano ricostruite, grazie al racconto di alcuni superstiti, gli ultimi minuti di vita delle due torri più famose del mondo e dei loro inquilini innocenti e maledetti. Non che fosse realizzato in maniera troppo pregevole, ma stavolta erano i miei occhi ad essere diversi, perché guardavano quelle immagini con una profondità e tridimensionalità che prima non avrebbero potuto avere: ovviamente non mi azzardo a dire che si può comprendere la tragicità di quanto è successo in quel 2001 solo se si è stati a New York, ma mi sento di dire che lo si vive in maniera molto diversa se si è guardata di persona la ferita di una città che ancora faccio fatica a dire cosa rappresenti, tanta è la sua maestosità post-moderna, la sua ricchezza multiculturale, la sua centralità globale, ma che ti offre un importante saggio di se stessa, paradossalmente, proprio da questo baratro. Certo, nove anni or sono, di fronte alla tv del mio appartamento a Perugia, si era fatta fatica, ma si era percepito come in un attimo potesse essere possibile uccidere migliaia di persone, sfregiare la capitale del mondo, costringere milioni di persone a non avere mai più la stessa città, terrorizzare un paese intero e renderlo fragile e impotente, creare una ferita ed una cicatrice sul viso del pianeta: il tutto in un colpo solo; ma ora, di colpo mi sono sentito addosso quella polvere interminabile, lo sgomento dell’insensatezza e la paura terrificante di sirene ossessive, la specificità di quelle strade e di quegli edifici violati, sporcati, distrutti e la globalità che la detonazione ha sprigionato: il tutto in un colpo solo.
E se questo piccolo album di sensazioni si raccoglie attorno al sapore della contraddittorietà, come gourmet, nel bene e nel male, di questo paese così vasto e così indefinibile, forse questa è proprio la prima delle contraddizioni sulla quale gettar luce, anche se l’ultima, in ordine di tempo, tra quelle che mi sono sollevato tra me e me: dimensioni fuori dal comune, grandezze sproporzionate, coordinate spazio-temporale tremendamente vaste e veloci, New York (per lo meno in quel suo campione al tempo stesso attendibile e anomalo che è Manhattan) si impegna, e con successo, a comunicare l’immediatezza di una forza, la sicurezza di un equilibrio, la scorrevolezza di una convivenza fino a quando si arriva di fronte a quel baratro: i lavori in corso tendono a ricostruire non solo il cemento, ma anche la sicurezza e la normalità, e quasi ci riescono, di fronte a te che hai visto in tv la tragedia e ora, dal vivo, non vedi più demolizione, quanto piuttosto ricostruzione; è bastato però rivedere quelle immagini per guardare in maniera nuova anche a quella ferita: di colpo la sofferenza, le grida, le morti, i suicidi, gli eroi, gli scampati, i superstiti divengono le voci assordanti sopra le quali quel modello prova per lo meno a galleggiare. La frenesia sconfitta dall’assenza, la velocità annientata dal vuoto, la perfezione sporcata dall’irragionevole, l’onnipotenza sciolta dalle fiamme: eccola la prima contraddizione che mi regala New York a cavallo di questo nono 11/09, la contraddizione della metropoli che riesce a girare forte e ad aggirarsi perfetta in tondo a qualcosa che perennemente le ricorderà l’ineliminabile fragilità umana e l’insostenibile perfezione dell’autosufficienza.

giovedì 11 giugno 2009

Semplice e chiaro: un sontuoso Beppe Severgnini

Tratto da "Il corriere della sera" di giovedì 11 giugno 2009


La fulminea ascesa di miss Frangetta


Prima il ruvido Soru, il lepido Letta, l'americano Martina, l'ammaliante Madìa, la morbida Mosca, lo scattante Scalfarotto, il rapido Renzi. La speranza del secolo per la settimana in corso, nel Partito Democratico, si chiama Debora Serracchiani. Trentotto anni, vive in Friuli. Gioca a tennis, tifa Roma, ama "Law and order", ha due cani e tre gatti, indossa collane colorate. Bene: e poi?
Nulla contro Miss Frangetta, che ha fatto il botto alle Europee e, contrapposta a Lady Brambilla, ha brillato a "Ballarò" (meno difficile, diciamolo). Ma l'ansia con cui il Pd lancia i suoi campioni è pari alla fretta con cui li abbandona. Un buon risultato elettorale, una candidatura, qualche uscita TV: di solito basta, per sparare in alto un nome nuovo. Intanto, giù a terra, i marpioni aspettano: cadrà, e noi ci sposteremo per non farci male.
La scelta della dirigenza sembra casuale. Le selezioni di X Factor sono più serie. Qualcuno dirà: è una strategia per evitare la cooptazione, dal caos uscirà il nome del futuro. Se così fosse, perché tutto quel lavorìo, quelle discussioni, quelle assemblee costituenti, quei ci-vedremo-a-Vedrò. Ora c'è "il gruppo del Lingotto". Buona fortuna, ma occhio: Torino, a Veltroni, non ha portato bene.
Mario Ajello sul "Messaggero" parla di "neopolitica". Termine impeccabile: i nei, sulla politica italiana, non mancano. L'uso emotivo delle nuove leve è tra questi. Perché gli americani insistono con le primarie (vere)? Perché sono un modo di provare un candidato. Idee, carattere, tenuta psicofisica. Obama non è uscito per caso. Viene da anni di tentativi, ragionamenti, esperimenti (www.rockthevote.com), lavoro porta a porta. L'unico "Porta a porta" che appassiona i dirigenti del Pd va in onda su Rai Uno in seconda serata.
In attesa di un congresso - alleluia! - qualche dubbio è lecito. I leader democratici sembrano i cavallini meccanici che gareggiano nelle fiere di paese: vanno in testa a turno, e non si capisce perché. Veltroni ha condotto una coraggiosa campagna elettorale, Franceschini s'è rivelato un vice sorprendente. Ma nessuno è riuscito a emozionare gli elettori.
Dario Di Vico, sul "Corriere", mostra d'aver capito perché la Lega funziona ("Fabbriche e gazebo: la Lega modello Pci"). Perché c'è, discute, semplifica, festeggia, ha una struttura chiara (un generale, quattro colonnelli, seguono ufficiali, sottufficiali e truppa). Dà spesso risposte rozze a problemi delicati: ma almeno le dà. Facebook è importante: ma anche guardarsi in faccia serve. Ecco perché la Lega sopravviverà a Bossi, mentre c'è da domandarsi se il Pdl abbia un futuro dopo Berlusconi. E il Pd? Per sopravvivere dovrebbe prima vivere: siamo in attesa.

martedì 2 giugno 2009

Chiarire me stesso per distinguere il concettuale dal personale

Dopo aver risposto nell’intimità del contatto diretto della posta elettronica a Mirko (cosa alla quale tenevo particolarmente visti i rapporti che mi legano al fratello e alla sua famiglia da molto tempo; cosa che mi sembrava opportuna non spiattellare pubblicamente nella vetrina seppur modesta del mio blog), mi concedo qualche riga per una replica, questa sì pubblica, al “post” di Mirko.

Premettendo che sono rimasto un po’ disorientato dal fatto che la replica si sia concentrata sull’unico aspetto non toccato dalla mia riflessione, ovvero il piano personale in generale e, nello specifico, quello legato a Benedetto Capponi (la cui conoscenza e il rapporto con il quale vanta più di qualche anno, che sicuramente non può venire cancellato da una candidatura, che, in fondo, non è altro che una forma di impegno e disponibilità per gli altri), resto però principalmente deluso dal fatto che oramai, in molte circostanze, mi sia capitato di vedere come anche i tentativi di ragionare su alcune categorie vengano alla fine interpretati e calati sul piano personale e singolare. Provo allora a chiarire me stesso con qualche annotazione sparsa.

1) La prima, egoistica e forse pure un pizzico presuntuosa, è l’unica sulla quale mi sento di essere categorico: l'espressione "certe barriere politiche e “culturali” fanno dimenticare anche la bontà dei rapporti onesti e genuini" si può applicare a molti ma non al sottoscritto.
Ho sempre attaccato, criticato e combattutto, sul piano nazionale e non solo della questione, quell’atteggiamento insano in conseguenza del quale si ipoteca un giudizio sulla persona, su una qualsiasi persona, in base al “colore” politico e ho sempre giudicato infantile l’atteggiamento – magari questo più paesano – di chi, durante la campagna elettorale, cambia i propri costumi di pubblica relazione con le persone, solo perché si trova di fronte un candidato o addirittura un “vicino” all’avversario politico: saluti che prima non avvenivano che ora compaiono o saluti che prima c’erano che poi scompaiono. Potrei io piuttosto invocare che a qualcuno torni la memoria, dato che in questa fase sempre qualcuno, diversamente da me, il saluto lo toglie e dimentica, mettendo avanti ai rapporti personali le idee politiche, o meno, e gli eventuali disaccordi su di esse (fisiologici, naturali e costruttivi): contro questo mi sono sempre battuto, figuriamoci a Grottazzolina; questo non è mai stato mio costume, figuriamoci se inizia ad esserlo ora!!!
2) Sono molto d'accordo che le differenze politiche non trovano spesso riscontro nelle elezioni comunali – e per fortuna, aggiungerei (a tal punto che, tra le due liste, penso si possa dire fuori di dubbio che quella trasversale sia quella della colomba, alla quale mi sento più vicino, diversamente da una chiara connotazione politica di "Grottazzolina nel cuore", ma lasciamo stare: non è questo che mi preme): per cui nelle mie parole non c'erano pre-concetti politici-identitari, ma la sottolineatura di una questione di concezione della politica, che ho visto venir fuori in questa campagna elettorale anche a Grottazzolina (diversamente dalle tornate precedenti), ovvero un certo modo d’intendere l'affermazione per cui la politica deve "risolvere i problemi quotidiani della cittadinanza": la politica è anche questo, ma solo dopo essere un'idea e un progetto, e qualcosa a cui si chiede di aderire e non il tentativo di rispondere ad esigenze individuali ed individualistiche, perché altrimenti finisce per essere esclusivamente una fredda procedura chiamata a raccordare individualità slegate e tutte concentrate solo sul proprio orticello: questo progetto chiede di esporsi, di prendere le parti di un'idea di paese e di vita, di esporla e proporla. Il mio appunto critico era rivolto non certo alla condivisibile e apprezzabile volontà di incontrare le persone, più volte e in appuntamenti zonali (impegno mai sbagliato), ma ad un certo modo di presentarsi e di comunicare così, direttamente o indirettamente, un certo modo di concepire e pensare la politica. Questo era il piano che mi stava più a cuore di tutti: perché penso che in questo paese (e qui mi riferisco all’Italia) troppo spesso si è finiti per chiedere alla politica qualcosa e la politica è stata ridotta a servizi e non servizio; mentre ritengo necessario che la politica recuperi una certa idealità, anche nei piccoli centri, che le consenta di essere un’architettura del convivere e non un self-service di soddisfacimenti.
3) Non mi sono permesso e non mi permetterei mai, (MAI!!), di attaccare i curricula e le personalità dei singoli candidati (alcuni dei quali conosco da tempo e sui quali non cambio idea certo per il loro impegno in quest’occasione) e del loro capolista (la cui storia personale e professionale conosco e non ho mai messo in discussione) solamente perché la pensano diversamente da me o appartengono ad una famiglia politica diversa dalla mia (mi dispiace ma proprio non appartiene al mio stile: ho decine di amici che fanno capo ad un’area di centro-destra – quasi in numero maggiore piuttosto che quelli di centro-sinistra – che possono confermarlo); non c'era nella mie righe il ben che minimo attacco personale o il pregiudizio politico a delegittimare il piano personale, quanto piuttosto la critica all'impostazione di una campagna elettorale e ad un'idea di politica che c'è dietro. Non mi sono permesso né di paragonare nessuno a veline o tronisti né di negare l'intelligenza di qualcun altro; e tanto meno laddove vi era l'unico riferimento esplicito al candidato sindaco; vi era piuttosto nel senso di sottolineare come a mio avviso la sua persona (su cui, ripeto, non discuto) sia finita per essere immagine di concordia usata da molti, molti che invece avevano un certo contrasto interno come propria immagine fino all’altro ieri, a tal punto da non essere in grado di esprimere una candidatura “interna” (non si tratta di campanile, ma solo di ricordare ceri tipi di attacchi di qualche anno fa e il valore di formare e produrre una classe dirigente locale, così come il suo rappresentante): questo però non voleva dire che il candidato sindaco si limitasse a questo (forse lo posso dire con maggiore cognizione di causa io di molti della sua stessa lista) o che io intendessi svuotare la sua vita, i suoi valori e la sua personalità: siamo proprio su un altro piano!!!!

Ho voluto, come sempre faccio, in tutti gli ambiti della mia vita (dal lavoro alle passioni), ragionare e non attaccare, usare le idee e non le persone: ma evidentemente non è più possibile in questo paese in cui ognuno finisce per prenderla sul personale. Spero che questo sia un modo per tornare a parlare di contenuti e non si riveli l’ennesima occasione in cui la politica finisce per consegnarci dibattiti sulle persone più che sulle idee. Spero che queste righe siano riuscite a far capire che questo non è il mio modo di vivere e ragionare!! Spero che queste righe servano a quanti non lo sanno ancora per capire che il sottoscritto ritiene il confronto sulle idee un modo per crescere, soprattutto quando sono diverse e quando le risposte avvengono su quel piano!!

venerdì 29 maggio 2009

Buon governo o bella immagine? La campagna elettorale a Grottazzolina metafora di una crisi

Di sera la luce sempre accesa in una stanza addobbata, ma vuota; una brochure elettorale molto curata graficamente, ma fuori dai crismi della legalità; serate di discussione pubblica arricchite da buffet, ma prive di contenuti programmatici. Tre cartoline che diventano subito tre metafore: cartoline che arrivano dalla campagna elettorale comunale del mio paese, Grottazzolina, e che fotografano la lista civica “Grottazzolina nel cuore”, la quale si candida a scalzare la vecchia amministrazione; metafore di quello che è oggi tratto distintivo di una specifica parte politica del mio Paese, l’Italia, a cui si deve, tra le altre cose, l'invenzione del circolo del "buongoverno"; cartoline e metafore che svelano uno dei virus più nocivi inoculati nella politica italiana, ovvero l’idea che anche la politica sia principalmente una questione d’immagine e non un laboratorio di proposte, di idee, di cultura; cartoline e metafore che raccontano come la pandemia, oggi, abbia raggiunto anche la provincia, infettando persino una così piccola comunità, come quella di Grottazzolina.
Tralascio altri ordini di problemi perché ritengo questo al momento vitale e più urgente: innanzitutto perché ha ormai cambiato il modo di pensare della gente (che difficilmente chiede e verifica differenze culturali, programmatiche e valoriali, ma si interessa sempre più di condire e proteggere esclusivamente la propria privatezza con la semplice cura dell’immagine pubblica); secondariamente perché ha oramai cambiato il modo di pensare la politica (che non è più – perché non sa più esserlo – una proposta di progetti e idealità rispetto ai quali concordare o criticare, ma semplice richiesta di esigenze e bisogni); infine perché ha finito per attecchire anche qui, in uno sperduto paesino delle Marche (dove la concorrenza politica al centro-sinistra che governa da quattordici anni si effettua a colpi di buona immagine).
Fino a qualche tempo fa, le campagne elettorali, soprattutto nei piccoli centri, dove restano dimensioni e opportunità “calde” di incontro, confronto e scontro, erano occasioni per vedersi fronteggiare idee, concezioni del mondo, visioni politiche e persone, in un clima di focosa e sana passione; fino a qualche tempo fa per un asfalto e o un piano regolatore ci si affrontava a visi apertissimi, perché ne andava di mezzo una concezione della propria comunità e della propria vita al suo interno. Oggi, anche a Grottazzolina, tutto questo non conta più: la strategia per battere l’amministrazione uscente vive di alcuni canoni oramai standardizzati e centrati sull'immagine che li raffigura, più importante di ciò che c'è dietro (il carabiniere candidato sindaco quale effige, “di suo”, di sicurezza, ma in realtà cerotto di profonde ferite interne; ascolto della popolazione come immagine di disponibilità, ma in realtà veicolo di soddisfacimento dei bisogni privati più che delle esigenze della comunità; la convivialità ostentata, ma in realtà manifesto di un baratto mimetizzato).
Ed eccoci allora alle tre metafore di cui sopra, che ci consegnano un interrogativo di fondo: cosa s’intende realmente per “buongoverno” da parte di chi ne ostenta il logo?
E’ forse “buon governo” tenere una stanza illuminata serate intere, con manifesti che impediscono di vedere all’interno e scoprire che in realtà lì non vi è nessuno, perché lì non si è deciso nulla (tutto altrove, lontano dal paese e in case private), o è forse la metafora di una facciata da curare, di una luce da alimentare senza però che effettivamente serva in concreto a nessuno? Perché allora illuminare il vuoto?
E’ forse “buon governo” candidarsi ad amministrare e finire nell’illegalità già alla prima “carta” ufficiale della propria presenza pubblica (ben curata, con colori suadenti, ma priva di committenzte ufficiale, come la legge vuole), o è forse la metafora del fatto che conta primariamente apparire bene, magari anche senza preoccuparsi di farlo rispettando le norme basilari? Perché allora abbellire l’illegale?
E’ forse “buon governo” girare il paese nelle sue zone rappresentative per offrire un buffet e non offrire un programma, o è forse la metafora di un'ostentazione? Perché allora apparecchiare e non esporre? E' forse "buon governo" girare il paese nelle sue zone rappresentative senza chiedere di aderire ad un progetto ma solo domandando di cosa i singoli hanno bisogno, senza sapere se tali molteplici ed individuali(stici) bisogni sono coerenti con la propria idea di paese? Perché allora domandare e non proporre?
Sono piccoli episodi (alcuni forse nemmeno tanto piccoli), che però ritengo emblematici di una più ampia e sempre più diffusa cultura dell’immagine, che sta scalzando, in nome dell’apparente cultura del fare, la sana cultura politica: si può essere d’accordo o meno con idee, progetti e valori politici, di sinistra e di destra, ma non si può accettare che la politica non sia più in grado di essere proposta seria ed elaborata e si riduca a vetrina sartoriale, capace di promettere abiti su misura a tutti, senza correre il rischio di idee ampie e coerenti, ma in realtà, in fin dei conti, ridotta a mero expo e buffet di tessuti ben venduti e confezionati. Almeno nei piccoli centri recuperiamo la priorità dei contenuti e abbandoniamo il narcisismo vuoto e nocivo dell’immagine, abbandoniamo una vuotezza plastica, che si vuole adagiare ai singoli (e che riduce la politica ad un self-service di servizi) e recuperiamo una progettualità ampia, che guarda al bene di una collettività (alla quale offre un servizio e chiede il consenso su delle idee). Spero almeno qui si possa ripartire da un piano politico di critica o proposta e non si sia costretti, dai fatti, a dover fare un passo indietro per ritessere un discorso che si deve fare a quel punto più impegnativamente culturale e formativo.

mercoledì 18 febbraio 2009

Il cancro interno che divora i leader

E alla fine è successo quello che doveva succedere: il morbo invisibile ma oramai noto a tutti, la malattia congenita pur se principalmente sottocutanea, il virus per il quale hanno tutti l’antidoto e nessuno è riuscito in raltà a debellare ha colpito ancora la sinistra italiana e ha finito per uccidere l’ennesimo suo leader. E così l’idea originale che doveva essere il traino della politica italiana e che tutti dovevano inseguire è diventata di colpo il carretto nuovamente carico di reduci sorpresi, costretti a correre ai ripari e ad assistere al partito unico dei propri avversari; il progetto di un’Italia nuova e di una politica ringiovanita è diventato improvvisamente il bozzetto acciaccato di idee soffocate da conflitti interni e stracciato dall’inattualità dei soliti vecchi; l’innovazione carica di ossigeno pulito e capace di coinvolgere un movimento di base molteplice e numerosissimo è diventata in un istante la soffocante nostalgia di logiche logore e passate, logiche che un accanimento terapeutico narcisista e autoreferenziale continua a tenere in vita.
Ed eccoci ora alle solite analisi del giorno dopo, alle consuete lodi della vittima e alle già viste ipotesi di resurrezione: la verità è che Veltroni è stato colpito a morte da un’incapacità di fondo, da una schiavitù subita ma soprattutto dalle scorie tossiche della Chernobyl del comunismo che ancora infettano luoghi e soggetti della sinistra italiana.
La capacità veltroniana di catalizzare persone e valori, aree e correnti (dote e valore innegabile all’interno di un partito che non avrebbe potuto senz’altro trovare una figura alternativa così trasversale e catalizzatrice) si è trasformata però nell’incapacità di mettere in gioco e a frutto la leadership giustamente conseguita, troppo appiattita sulla facciata della comunicazione (in sé senz’altro non un difetto) e del messaggio mediatico più che sui contenuti (il governo ombra che non ha prodotto leggi ombra, le scuole di formazione che sono state spesso una passerella di nomi), troppo spesso rivendicata in momenti di difficoltà senza forgiarla effettivamente nel fuoco di un congresso o di effettivi dibattiti interni, troppo poco in grado di tenere a bada in modo fecondo tradimenti e subdolerie carsiche.
L’accettazione veltroniana di traghettare l’ennesimo passaggio difficile del centro-sinistra italiano, regalandogli la barca prestigiosa di questa sua nuova casa si è trasformata nella schiavitù di un marchio, di una novità, di una comunità chiamata a raccolta troppo velocemente, senza ottenere una chiara ed esplicita disponibilità a lasciare a terra il vecchio e portare in mare solo uno sguardo nuovo sul futuro. La nave, costruita in fretta e furia, realizzata con qualche compromesso rispetto all’altezza del progetto, ha cominciato a scricchiolare; ed ecco allora che non è scattata quella solidarietà tanto invocata e sbandierata verso gli altri e lo straniero, ma stranamente così impossibile per le difficoltà della propria nave e dei propri compagni di viaggio: i primi brontolii, i primi ammutinamenti e il capitano reso schiavo di rotte indecise e insoddisfacenti.
Ma resto dell’idea che la ragione più seria e grave di tutte non pesa certo sulle spalle veltroniane, ma costituisce il vero cancro della sinistra italiana e ha purtroppo un esito nocivo per l’intero paese: un cancro che si chiama incapacità di governare, o meglio non volontà di governare. Lo scoppio del comunismo ha prodotto in Italia una serie di monadi-partito, incapaci di compromessi e dialoghi, autoreferenziali e moniste, in grado solo di scindersi e continuare a scindersi per il gusto di distinguersi e trovare così il modo di dare voce alla propria opposizione. Eccolo il grande male: volere ostinatamente levare parole di opposizione e di critica, solo di opposizione e di critica, per il gusto stantio di mostrarsi come gli autentici e puri portatori del massaggio originario della sinistra; ciò, a costo di rinunciare a qualsiasi progetto per il Paese; l’importante è poter rivendicare un’opposizione ferma e ferrea, a prescindere. E se le scorie dello scoppio sono queste modani, le conseguenze sono duplici: primo che si assiste ad un processo curioso, che sta portando ad una sorta di triste coincidenza tra individuo e partito, e quindi alla creazione di soggetti politici nel senso letterale – ed individuale – del termine; secondo, ed è il vero dramma, che questa malattia mortale sta mietendo vittime illustri e moderate, sta facendo scomparire le uniche figure di mediazione, sacrificate sull’altare del dialogo e della novità. Se la risposta migliore al cesarismo berlusconiano che il centro-sinistra sa dare è l’omicidio politico di tutte le figure di dialogo, la conseguenza che ci aspetta è la miseria di tanti piccoli prepotenti semplici finti leader che litigano tra loro e lasciano, per anni, il paese in mano a chi bellamente li guarda e sorride.

martedì 17 febbraio 2009

Massimo D'Alema: il "Gollum" della sinistra italiana

Chi di voi ha avuto l’opportunità di leggere o vedere al cinema “Il Signore degli Anelli” penso sia rimasto impressionato, come il sottoscritto, da una delle sue figure più particolari, inquietanti e suggestive, ovvero Gollum, o Sméagol che dir si voglia, a seconda che ci riferiamo alla sua origine Hobbit o alla sua deriva folle. E’ sicuramente una delle figure più controverse di tutta la saga, ma ha tre caratteristiche importanti, che mi interessa specialmente mettere in luce qui: è presente in tutta la trilogia, ma addirittura fin da “Lo Hobbit”, dove ci viene raccontato il suo incontro con Bilbo; rappresenta senza dubbio la metamorfosi causata dalla bramosia di quel segno di potere e di poteri che era l’Anello d’oro; raffigura l’opportunismo di chi sa fingere di pensare al bene dei propri compagni di viaggio e ha invece in mente solo il proprio personale ed egoistico obiettivo.
Ecco, fatta la tara all’imbrutimento estetico che Sméagol subisce dopo aver conquistato - temporaneamente - l’Anello, divenendo, per l’appunto, Gollum – che risalta ancora di più in confronto al baffo e al brizzolato del soggetto in questione – penso proprio che Massimo D’Alema sia il Gollum della politica e della sinistra italiana. Mi perdonerete l’esagerazione e l’esasperazione del confronto, ma la stanchezza che nutro nei confronti della sua onnipervasiva capacità di influenzare, complicare – a tratti rovinare – il corso della storia politica e della maturazione (?) della sinistra italiana, nonché la sua esasperata ricerca di un primato politico-culturale in quella parte del panorama politico italiano è diventata ora definitivamente insopportabile.
Perché Gollum? Perché siamo di fronte ad una figura che ha costantemente messo al centro della propria esperienza politica – per lo meno quella degli ultimi anni, che per la mia età tendo a ricordare meglio, salvando così il suo passato da un giudizio che non mi posso permetter di dare – la ricerca dell’Anello e per fare questo ha fatto spesso finta di "costruire" dei legami (il Gollum buono, che accompagna Frodo-Prodi e Sam-Veltroni alla ricerca dell’Anello per salvare la terra degli Hobbit) per poi distruggerli alle spalle (il Gollum cattivo, che tenta di uccidere Frodo-Prodi e Sam-Veltroni incurante del bene della terra degli Hobbit e della difesa della loro casa), nel tentativo di far suo l’Anello, fosse solo per i pochi attimi del Presidenza del Consiglio, della Presidenza della Bicamerale, del gusto di sentirsi il referente unico nei momenti di difficoltà che lui stesso crea. Ecco, Gollum-D'Alema accompagna in modo così esageratamente nocivo tutta la metamorfosi della sinistra italiana e forse qualcosina in più che davvero riesce difficile sopportarne la tracotanza e la distruttività.
Ora però basta!! Ci siamo lasciati alle spalle il fallimento della Bicamerale, ci siamo lasciati alle spalle il tradimento di Prodi, abbiamo creduto alla sua fiducia nel Pd, ma costantemente assistiamo ad una realtà che ci dice altro, fino alla rivendicazione, oggi, a nemmeno due ore dalla sconfitta in Sardegna, di un nuovo patto a sinistra, con quella sinistra che prima ha fatto finta di accettare che venisse disancorata dal PD e ora rivendica in una chiara, ennesima, poco velata delegittimazione veltroniana; tutto ciò solo per apparire la voce che deve orientare: disfare il terreno con le proprie mani, per essere l'unico a saper indicare la strada da percorrere, eccolo il "segreto motto" d'alemiano.
Ecco allora nient'altro che la “Massima” incarnazione odeirna dei limiti della sinistra italiana, a partire dal crollo del muro di Berlino: quel partito comunista verso il quale la Democrazia Cristiana nutriva il massimo sentimento di invidia, motivato da un’apparente – a questo punto forse artefatta – unità, rispetto alle divisioni interne del massimo partito cattolico, che, una volta crollato, non ha fatto altro che lasciare sul panorama della politica italiana tutte monadi-partito, dedite alla divisione, alla sotto-sezione, al protagonismo individualistico: dal collettivismo all’individualismo assoluto (quale paradosso per la sinistra?). E se qualcuno ha reso esplicito questo trend, D’Alema, quale astuto animale politico, molto più abile e machiavellico di molti suoi colleghi a sinistra, che hanno messo faccia e debolezza nelle scissioni, si è sempre saputo mantenere dentro una corrente più ampia, per lavorare, dall’interno, come un fiume carsico, che, però, non ha fatto altro che portare tronchi rovinati dallo stesso morbo, qiello della totale e chiusa autoreferenzialità.
Il Gollum-D’Alema che ricerca per sé l’Anello, incurante di tutti e capace solo di nascondersi dietro agli altri per poi pugnlare alle spalle per ottenere ciò che gli interessa. Ma cosa gli interessa? Questo è il vero grande dilemma. Possiamo davvero pensare – e a questo punto io personalmente ne sono convinto, ma lascio a voi almeno il punto interrogativo – che l’uomo di punta della sinistra italiana non sia altro che l'espressione migliore dei limiti del post-comunismo italiano (una sorta di presunta supremazia autoreferenziale) e l'incarnazione, in fondo, della più radicale alternativa al comunismo (quell'individualismo acquisitivo cardine del liberalismo feroce)?

lunedì 16 febbraio 2009

La solita altezza spirituale!!!

Vivere e morire secondo il Vangelo
Di Enzo Bianchi, Priore di Bose
La Stampa, 15 febbraio 2009


“C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare” ammoniva Qohelet, così come “c’è un
tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per uccidere e un tempo per
guarire...”. Veniamo da settimane in cui questa antica sapienza umana – prima ancora che
biblica – è parsa dimenticata: anche tra i pochi che parlavano per invocare il silenzio v’era
chi sembrava mosso più che altro dal desiderio di far tacere quanti la pensavano
diversamente da lui. Soprattutto si è avuto l’impressione che l’insieme della nostra società
non avesse certezze condivise sulla scansione dei diversi “tempi” e sul significato dei
diversi verbi usati da Qohelet a indicare lo scorrere dell’esistenza umana: quando è
“tempo” per questo o per quell’altro? E cosa significa parlare, morire, uccidere, guarire?
Uno smarrimento di senso condiviso che ha coinvolto anche parole forti attinenti ai
principi fondamentali dell’etica: dignità, libertà, volontà, rispetto, carità, vita...

Le settimane appena trascorse saranno sicuramente ricordate come “giorni cattivi” da
molti cristiani, ma anche da molti uomini e donne non cristiani che tentano ogni giorno di
rinnovare la loro ricerca di senso, soprattutto attraverso la faticosa lotta dell’amare in
verità e dal lasciarsi amare da quanti sono loro accanto. “Giorni cattivi” è un’espressione
biblica che indica tempi privi di una parola da parte di Dio, da parte dei suoi profeti e
quindi anche privi di parole umane sincere, vere, autentiche: tempi in cui si fa silenzio per
non aumentare il rumore, la rissa, l’aggressione nella comunità umana e per evitare che
parole sensate vengano triturate insieme alle insensate e non si riesca poi più a recuperarle
per giorni migliori. Per questo molti hanno preferito il silenzio. Da parte mia confesso che,
anche se il direttore di questo giornale mi ha invitato più volte a scrivere, ho preferito fare
silenzio anzi, soffrire in silenzio aspettando l’ora in cui fosse forse possibile – ma non è
certo – dire una parola udibile.
Attorno all’agonia lunga diciassette anni di una donna, attorno al dramma di una famiglia
nella sofferenza, si è consumato uno scontro incivile, una gazzarra indegna dello stile
cristiano: giorno dopo giorno, nel silenzio abitato dalla mia fede in Dio e dalla mia fedeltà
alla terra e all’umanità di cui sono parte, constatavo una violenza verbale, e a volte
addirittura fisica, che strideva con la mia fede cristiana. Non potevo ascoltare quelle grida
– “assassini”, “boia”, “lasciatela a noi”... – senza pensare a Gesù di Nazaret che quando gli
hanno portato una donna gridando “adultera” ha fatto silenzio a lungo, per poterle dire a
un certo punto: “Donna (non “adultera”), neppure io ti condanno: va’ e non peccare più”;
non riuscivo ad ascoltare quelle urla minacciose senza pensare a Gesù che in croce non
urla “ladro, assassino!” al brigante non pentito, ma in silenzio gli sta accanto,
condividendone la condizione di colpevole e il supplizio. Che senso ha per un cristiano
recitare rosari e insultare? O pregare ostentatamente in piazza con uno stile da
manifestazione politica o sindacale?

Ma accanto a queste contraddizioni laceranti, come non soffrire per la strumentalizzazione
politica dell’agonia di questa donna? Una politica che arriva in ritardo nello svolgere il
ruolo che le è proprio – offrire un quadro legislativo adeguato e condiviso per tematiche
così sensibili – e che brutalmente invade lo spazio più intimo e personale al solo fine del
potere; una politica che si finge al servizio di un’etica superiore, l’etica cristiana, e che
cerca, con il compiacimento anche di cattolici, di trasformare il cristianesimo in religione
civile. L’abbiamo detto e scritto più volte: se mai la fede cristiana venisse declinata come religione civile, non solo perderebbe la sua capacità profetica, ma sarebbe ridotta a
cappellania del potente di turno, diverrebbe sale senza più sapore secondo le parole di
Gesù, incapace di stare nel mondo facendo memoria del suo Signore.

E’ avvenuto quanto più volte avevo intravisto e temuto: lo scontro di civiltà preconizzato
da Huntington non si è consumato come scontro di religioni ma come scontro di etiche,
con gli effetti devastanti di una maggiore divisione e contrapposizione nella polis e, va
detto, anche nella chiesa. Da questi “giorni cattivi” usciamo più divisi e non certo per
quella separazione in nome di Cristo che, con il comandamento nuovo dell’amore da
estendersi fino ai nemici, può provocare divisione anche tra genitori e figli, all’interno
della famiglia o della “casa” di appartenenza. Abbiamo invece conosciuto divisione in
nome di quel male che affligge l’umanità e che trasforma la diversità in demonizzazione
dell’altro, muta l’avversario in nemico, interrompe o nega il confronto e il dialogo, dando
origine a posizioni ideologiche capaci di violenza prima verbale poi fisica e sociale. Da un
lato il fondamentalismo religioso che cresce, dall’altro un nichilismo che rigetta ogni etica
condivisa fanno sì che cessi l’ascolto reciproco e la società sia sempre più segnata dalla
barbarie.
Per chi come me ha pensato di dedicare tutte le fatiche alla ricerca del dialogo, del
confronto, del faticoso cammino verso la comunione, innanzitutto nello spazio cristiano e
poi tra gli uomini, e in questo sforzo sentiva di poter rendere conto della speranza
cristiana che lo abita e di annunciare il vangelo che lo anima, questi giorni sono davvero
cattivi. Come ignorare anche gli altri segni di barbarie cui stiamo assistendo in questa
amara stagione? Leggi che chiedono ai medici di segnalare alle forze dell’ordine la
presenza di clandestini che necessitano di cure mediche, vanificando così il diritto alla
salute riconosciuto a qualunque essere umano; episodi ormai ricorrenti di giovani e
ragazzi che danno fuoco a immigrati o a mendicanti; senzatetto di cui si prevede la
schedatura mentre li si lascia morire di freddo; esercizio della violenza in branco verso
donne o disabili...
Sì, ci sono state anche voci di compassione, ma nel clamore generale sono passate quasi
inascoltate. L’Osservatore romano ha coraggiosamente chiesto – tramite le parole del suo
direttore, il tono e la frequenza degli interventi – di evitare strumentalizzazioni da ogni
parte, di scongiurare lo scontro ideologico, di richiamare al rispetto della morte stessa. Ma
molti mass media in realtà sono apparsi ostaggio di una battaglia frontale in cui nessuno
dei contendenti si è risparmiato mezzi ingiustificabili dal fine. Eppure, di vita e di morte si
trattava, realtà intimamente unite e pertanto non attribuibili in esclusiva a un campo o
all’altro, a una cultura o a un’altra. La morte resta un enigma per tutti, diviene mistero per
i credenti: un evento che non deve essere rimosso, ma che dà alla nostra vita il suo limite e
fornisce le ragioni della responsabilità personale e sociale; un evento che tutti ci minaccia e
tutti ci attende come esito finale della vita e, quindi, parte della vita stessa, un evento da
viversi perciò soprattutto nell’amore: amore per chi resta e accettazione dell’amore che si
riceve. Sì, questa è la sola verità che dovremmo cercare di vivere nella morte e accanto a
chi muore, anche quando questo risulta difficile e faticoso. Infatti la morte non è sempre
quella di un uomo o una donna che, sazi di giorni, si spengono quasi naturalmente come
candela, circondati dagli affetti più cari. No, a volte è “agonia”, lotta dolorosa, perfino
abbrutente a causa della sofferenza fisica; oggi è sempre più spesso consegnata alla scienza
medica, alla tecnica, alle strutture e ai macchinari...
Che dire a questo proposito? La vita è un dono e non una preda: nessuno si dà la vita da se
stesso né può conquistarla con la forza. Nello spazio della fede i credenti, accanto alla
speranza nella vita in Dio oltre la morte, hanno la consapevolezza che questo dono viene
da Dio: ricevuta da lui, a lui va ridata con un atto puntuale di obbedienza, cercando, a
volte anche a fatica, di ringraziare Dio: “Ti ringrazio, mio Dio, di avermi creato...”. Ma il
credente sa che molti cristiani di fronte a quell’incontro finale con Dio hanno deciso di
pronunciare un “sì” che comportava la rinuncia ad accanirsi per ritardare il momento di
quel faccia a faccia temuto e sperato. Quanti monaci, quante donne e uomini santi, di
fronte alla morte hanno chiesto di restare soli e di cibarsi solo dell’eucarestia, quanti hanno
recitato il Nunc dimittis, il “lascia andare, o Signore, il tuo servo” come ultima preghiera
nell’attesa dell’incontro con colui che hanno tanto cercato... Negli anni più vicini a noi,
pensiamo al patriarca Athenagoras I e a papa Giovanni Paolo II: due cristiani, due vescovi,
due capi di chiese che hanno voluto e saputo spegnersi acconsentendo alla chiamata di
Dio, facendo della morte l’estremo atto di obbedienza nell’amore al loro Signore.

Testimonianze come queste sono il patrimonio prezioso che la chiesa può offrire anche a
chi non crede, come segno grande di un anticipo della vittoria sull’ultimo nemico del
genere umano, la morte. Voci come queste avremmo voluto che accompagnassero il
silenzio di rispetto e compassione in questi giorni cattivi assordati da un vociare indegno.
La chiesa cattolica e tutte le chiese cristiane sono convinte di dover affermare
pubblicamente e soprattutto di testimoniare con il vissuto che la vita non può essere tolta o
spenta da nessuno e che, dal concepimento alla morte naturale essa ha un valore che
nessun uomo può contraddire o negare; ma i cristiani in questo impegno non devono mai
contraddire quello stile che Gesù ha richiesto ai suoi discepoli: uno stile che pur nella
fermezza deve mostrare misericordia e compassione senza mai diventare disprezzo e
condanna di chi pensa diversamente.
Allora, da una millenaria tradizione di amore per la vita, di accettazione della morte e di
fede nella risurrezione possono nascere parole in grado di rispondere agli inediti
interrogativi che il progresso delle scienze e delle tecniche mediche pongono al limitare in
cui vita e morte si incontrano. Così le riassumeva la lettera pontificale di Paolo VI
indirizzata ai medici cattolici nel 1970: “Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al
medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della
sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte
le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti
casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase
terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di
impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile,
con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e
che va naturalmente verso il suo epilogo: l’ora ineluttabile e sacra dell’incontro dell’anima
con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della passione
di Cristo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita”.
Ecco, questo è il contributo che con rispetto e semplicità i cristiani possono offrire a quanti
non condividono la loro fede affinché la società ritrovi un’etica condivisa e ciascuno possa
vivere e morire nell’amore e nella libertà.

Minima moralia, ovvero un titolo presuntuoso per umili considerazioni

Ho aspettato, ho rimuginato, ho riflettuto e ho pregato, ma tutto ciò non ha tolto la nebbia che il caso di Eluana Englaro ha lasciato sulla superficie dei miei pensieri e la tristezza nel fondo del mio cuore; nebbia che però non riesce nemmeno ad eliminare la volontà di mettere per iscritto le mie idee, sparse e vaghe, incerte e volgari: ma se il blog ha un senso, lo ha proprio quale diario virtuale – e non solo – dove raccogliere pensieri e sensazioni. Ed eccole allora, in ordine confuso e in veste modestissima.

- Sulla mia posizione
Non sono in grado di prendere una posizione netta e sicura, ma da questi giorni sono uscito sinceramente infastidito dalla ricerca esasperata di un punto neutro, agognato da ognuno, dall’alto del quale criticare ogni altro; e sinceramente ero infastidito anche dal fatto che il sottoscritto stesse finendo per fare lo stesso, poco d’accordo con tutti e molto critico nei confronti di molti. Ma per fortuna è arrivata in mio soccorso la gente di Paluzza (paesino dove ora è sepolta Eluana) e, specialmente, il parroco. Ecco finalmente posso dire con chi sto: sto con loro, con la loro semplicità e commozione, con la loro discrezione, assenza di violenza e trasparenza; sto con don Tarcisio Puntel e la Chiesa che rappresentano queste sue parole, dette al padre di Eluana, subito dopo il funerale: “Caro Beppino, le porte della Chiesa sono sempre aperte. Anche per te. […] sui principi non si transige, quello della vita in particolare, ma [...] la Chiesa e' fatta di uomini e che anche loro possono sbagliare, ad esempio nell'uso del linguaggio. E gli ho ricordato che la Chiesa, praticando la misericordia, ha sempre le porte aperte''.

- Su Eluana
Mi dispiace che sia stata l’oggetto di una battaglia, perché su di lei si sono accaniti giudici, politici, medici, ecclesiastici, giornalisti; mi dispiace che sia stata il silenzio che ognuno ha interpretato, dicendo che era testimonianza di dolore, prova di morte, tradimento di una volontà; mi dispiace che sia stata la linea di confine che ognuno ha strattonato e ridotto alle proprie motivazioni. Non so se avesse detto che in queste condizioni avrebbe voluto morire, ma un foglio o un pensiero, in un certo giorno e in una certa età, possono ipotecare il resto dell’esistenza? Non so se soffrisse, sentisse la propria anima imprigionata, fosse schiava della tecnica, ma si può dire che fosse morta diciassette anni fa? Non so, sinceramente non so, se questa dipendenza assoluta dall’alimentazione forzata possa considerarsi un autentico e dignitoso modo di protrarre la propria esistenza, ma somministrare qualcosa per evitare la sofferenza in conseguenza dell’interruzione dell’alimentazione non è una buona-morte/eu-tanasia?

- Su Beppino Englaro
Non posso permettermi di penetrare il mistero di una scelta e la radicalità di una sofferenza; non posso ipotizzare quali forme il bene di un padre possa avere e quali manifestazioni possa raggiungere; non riesco nemmeno a immaginare cosa significhi vedere la propria figlia inerme e afflitta. Su questo posso solo tacere. Ma una domanda non posso non porla: se alle suore che hanno accudito Eluana è stato impedito di continuare il loro gesto di cura (perché, in coerenza con le idee della figlia, il papà si è sentito di proteggerla da altri, dalle loro idee, dalla loro fede, dall’accanimento del loro amore) perché, una volta morta, ha concesso sua figlia alle idee, all’amore e alla fede di altri (gli zii) che volevano celebrarne il funerale in chiesa (diversamente da quello che avrebbero fatto lui e sua figlia)? La misericordia di Dio e il suo amore non hanno bisogno delle pareti di un edificio per accogliere Eluana (che avranno già accolto in cielo) e se si è convinti di interpretare una volontà, che nessuno esternamente può modificare, perché questo vale fino alla morte e dopo non più?

- Sulla Chiesa
Può la casa della misericordia diventare il fortino della violenza? La presunzione della verità può diventare incapacità di dialogo? Per fortuna che la voce ufficiale della CEI ricorre oggi ad un vocabolario nuovo, fino a qualche mese fa inimmaginabile; altrimenti l’onda montante di scomuniche, illazioni, sospetti, intromissioni indebite, parole dure e prive di amore o minima problematizzazione sarebbero state ancora più pesanti da digerire di quanto lo siano ancora oggi. Perché la Chiesa non riesce a condividere la tragicità delle cose e seminare speranza, invece di trarre da quella che dovrebbe essere la propria povera bisaccia lo scettro degli editti? Può permettersi il Presidente del Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari, Javier Lozano Barragan, di parlare di reato (ma non spetta a lui parlare di reato: siamo ancora alla confusione tra peccato e reato?)? Può il principale quotidiano cattolico, all’indomani della morte di Eluana, nel suo editoriale, invocare tutta la verità? Ma quale verità? Smettiamola con la dietrologia: abbiamo bisogno di voci di spessore diverso, di carismi che si stanno perdendo, di una misericordia che accompagni ogni gesto e parola, anche laddove ci si spinge, giustamente, a dire la propria opinione e a ribadire i propri sani principi e valori. Quale è il confine giusto tra il non tradire il proprio nucleo originale e santo e il provocare continuo disamoramento tra i propri fedeli?

- Sulla politica
Stona un po’ scadere sul versante dell’agenda pubblica della questione, ma forse, il peggio è venuto proprio da qui, e quindi, alcuni appunti al volo:
a) La politica può permettersi di cambiare una sentenza, per quanto giusta o ingiusta, proceduralmente e contenutisticamnete, passata in giudicato? Ma quale precedente pericoloso ciò apre? Si può accettare un simile tradimento del primato del diritto e l’idea che la politica possa cambiare con un decreto legge una decisione che non le piace?
b) Laddove si è abbandonata la strada del decreto legge e si è subito adottata quella del disegno di legge (con in mezzo vergognose illazioni nei confronti del Presidente della Repubblica), che messaggio si lancia al paese, al quale si dice, sostanzialmente che alcune leggi si possono fare in tre giorni e altre no? Quale è il criterio della rapidità? Perché le morti di fame e di sete dei disperati che arrivano a Lampedusa non merito altrettanta rapidità? Perché non si è combinato nulla, prima, in commissione e poi si vuole stabilire la strada giusta in maniera vergognosamente frettolosa?
c) Centro-Destra e Centro-Sinistra possono dare questo triste spettacolo in parlamento per votare una legge di cui nessuno si è interessato fino a ieri e che all’improvviso provoca risse volgari e di bassissimo profilo? Sulla questione eticamente più delicata dell’ultimo periodo, i nostri parlamentari hanno fatto purtroppo tristemente sfoggio della pochezza culturale e politica che li caratterizza.

A questo punto mi taccio e spero che la grandiosa misericordia di Chi è in grado di vedere ciò che sfugge agli occhi umani sappia, in questa vicenda, perdonare chi ha sbagliato, accompagnare chi soffre e illuminare chi ricerca risposte.

domenica 15 febbraio 2009

Una grande voce di amore in un orizzonte di presunzione

Da Avvenire
12/7/08

«Una speranza per Eluana, come per la figlia di Giairo»
«Mai chiudere la porta della vita, il mistero ci sfugge».
Card. Dionigi Tettamanzi


La vicenda di Eluana Englaro, la giovane in "stato vegetativo" da quattordici anni, mi colpisce come credente e cittadino, ma soprattutto mi interpella come Vescovo della terra in cui Eluana abita. In questi giorni sono stati davvero numerosi i sentimenti, le riflessioni e gli interrogativi che sono cresciuti nel mio cuore. Desidero ora confidarne alcuni a quanti il Signore ha affidato alle mie cure pastorali. Vorrei essere discreto, entrando in punta di piedi in una storia umana quanto mai delicata, nella quale "il mistero della vita si fa più denso, quasi inaccessibile alla luce della sola ragione", e lancia una "sfida formidabile per la libertà" di ciascuno di noi.

Rileggendo una pagina del Vangelo

Sfogliando i quotidiani e leggendo i titoli che commentano la sentenza su Eluana, il mio pensiero tende sempre più a staccarsi dalle parole a stampa. Sono parole umane, anche vere, talora indovinate: ma non mi bastano. Cerco allora una "parola nuova", originale, unica: la trovo nel "Vangelo di Marco", quando racconta della figlia di Giairo, un capo della sinagoga, la quale giace gravemente ammalata (cfr. "Marco 5,21- 24. 3543").
Mentre egli sta supplicando Gesù di venire a trovarla e guarirla, dalla sua casa alcuni vengono a dirgli: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Per i parenti e gli amici, dunque, la giovane appare morta, immobile sul letto, incapace di parlare e di sorridere come era solita fare un tempo. Nella sua abituale sobrietà narrativa, l’evangelista non aggiunge altri particolari. Lascia però intuire l’opinione molto decisa, quasi inappellabile, dei portavoce della famiglia: la condizione in cui versa la figliola è ormai senza speranza. Perché darsi ancora da fare per lei, accudirla, disturbare persino il Maestro?
Ma Gesù non è dello stesso parere: «La bambina non è morta, ma dorme». Un’affermazione contraria all’opinione di molti, un’espressione paradossale, quasi ingenua: "aprire una speranza quando la porta della vita sembra essere ormai chiusa per sempre". Il Maestro questa volta si è sbagliato: «Ed essi lo deridevano», ricorda il Vangelo.
In realtà gli occhi di Gesù vedono quello che è invisibile agli occhi umani: i segni della vita personale non sono scomparsi, ma solo resi quasi impercettibili ai sensi, così deboli da non apparire più credibili. Infatti la persona umana, nel suo mistero, sfugge al nostro sguardo. Non è forse così anche per chi non può manifestare la propria coscienza ed entrare in relazione con noi attraverso le parole, i sensi, i gesti?
Chissà se la figlia del capo della sinagoga era clinicamente morta oppure giaceva in uno stato comatoso o vegetativo. Il racconto di Marco non ce lo fa sapere e qui il mio pensiero si ferma. Ma un’intuizione mi prende: "l’intelligenza della vita e la speranza nella vita non sono separabili".
Per comprendere e abbracciare con lo sguardo della ragione la vita dell’uomo in tutte le sue possibili circostanze occorre aprirsi al pensiero del futuro. La ragione deve osare un’apertura sul domani, non può appiattirsi sul presente, rimanere prigioniera di un’opinione o di un’ostinazione, ma spalancarsi a tutta la realtà della vita, quella visibile e quella che i nostri sensi non riescono a percepire.
Allo stesso tempo la speranza della vita scaturisce dal presentimento della realtà nella sua pienezza, della verità tutta intera, quella che sfugge alla scienza dell’uomo ma è rivelata dallo "Spirito di verità" (cfr. "Giovanni 16,13") nella vita stessa di Gesù di Nazareth. Entro così in un ordine più alto, nella sfera della fede, che mi fa contemplare la vicenda di Gesù nella sua singolarità. Lui solo ha potuto dire alla figlia di Giairo: "Thalita kum!", "Fanciulla, io ti dico, alzati!". E ridestandola con potenza alla "vita terrena" ha dato inizio in lei a quella "vita divina" che si compirà in pienezza nell’ultimo giorno con la risurrezione della carne. Nella luce di questa prospettiva trascendente prende forma un giudizio etico, che nasce dalla fede cristiana ma non è estraneo alla ragione: non possiamo spegnere la vita di nessuna creatura umana senza uccidere, insieme a lei, la speranza che vive in essa, quella di essere fatta per la vita e non per la morte.

Libertà, responsabilità e solidarietà

Sempre con cuore di "pastore" e nel desiderio di offrire un aiuto alla formazione della coscienza e alla chiarezza dell’azione, vorrei lasciarmi provocare da "alcuni interrogativi" suscitati dalle diverse prese di posizione emerse in questi giorni e soffermarmi così sulle "autentiche esigenze della libertà e responsabilità" di quanti, a vario titolo, hanno in custodia una persona gravemente malata, che dipende, per la sua esistenza, dalle loro cure.
Ricordo anzitutto che il luogo proprio delle decisioni che riguardano la cura di un malato è la "relazione personale e fiduciale" tra il paziente (se è in grado di comunicare con chi lo assiste), i suoi familiari ed il personale medico e infermieristico. È davvero importante custodire e proteggere questa relazione, favorendo lo sviluppo di un dialogo clinicamente obiettivo, moralmente onesto e socialmente responsabile. Al centro di questo dialogo deve stare sempre il bene fondamentale della vita di ogni malato, un bene che non dipende dalla qualità delle sue capacità fisiche, psichiche e comunicative, ma che trova la sua radice nel fatto stesso di esistere. In ogni caso, la rinuncia a terapie sproporzionate o a cure futili non può comportare la sospensione della nutrizione e della idratazione, nella misura e fino a quando esse risultino efficaci nel sostenere la fisiologia del corpo. Anche qualora effettuata mediante vie artificiali, la somministrazione di acqua e cibo costituisce un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita.
Dobbiamo poi domandarci: "il rispetto della scienza e della coscienza dei medici" e delle responsabilità proprie di coloro ai quali è affidata la cura delle persone non autosufficienti non esige una "giusta discrezione da parte delle autorità amministrative e giudiziarie"?
Esse non devono condizionare, con interventi normativi, la libertà ed il compito che ciascuno possiede, secondo le proprie idealità e capacità, di interrogarsi sulle ragioni della cura e della promozione del bene della persona umana sofferente. Una libertà e un compito, questi, che la società è chiamata a promuovere, offrendo opportunità di riflessione, di formazione e di confronto. La Chiesa a pieno titolo, nel rispetto dell’autonomia dello Stato e delle diverse tradizioni e concezioni culturali e religiose, ha qui il dovere di offrire il proprio prezioso e singolare contributo.
Infine, non dovremmo appellarci ad un "senso più forte di solidarietà" creativa e operosa nei confronti della solitudine e dell’abbandono in cui si trovano tanti nostri fratelli e sorelle, ammalati gravemente e da lungo tempo? Grazie all’intelligente e amorevole cura delle "Suore Misercordine" e dei loro collaboratori sanitari, Eluana non ha sperimentato fino ad oggi solitudine e abbandono. La loro testimonianza ci è di conforto e di incoraggiamento a fare altrettanto.

Preghiera e discernimento

Sento forte il bisogno della preghiera. Celebrando l’Eucaristia chiedo al Signore che la nostra comunità cristiana possa trovare "parole vere" e tenere "comportamenti giusti", ispirati a un "vero e grande amore" per la vita di ogni donna e di ogni uomo, in ogni stagione e circostanza.
Avverto la necessità che su questa vicenda umana sensibilissima il clima culturale e sociale sia animato da un "profondo rispetto": il rispetto dovuto a tutte le persone coinvolte – e, sia pure in forme e gradi diversi, lo siamo tutti noi – e nello stesso tempo ai valori fondamentali che danno senso e orientamento al nostro nascere, vivere, soffrire e morire. Ma di fronte all’inestimabile realtà della vita umana, che è sempre un bene in sé, il solo rispetto è ben poca cosa se non è segno ed esigenza di "amore": un amore che chiede di raggiungere la profondità propria della "venerazione" per ogni vita umana. E la venerazione non si ferma al riconoscimento del valore trascendente della nostra esistenza, ma esige anche l’umile consapevolezza e il coraggio di assumersi le responsabilità personali e sociali di difesa e promozione del bene della vita umana. Solo a partire da un atteggiamento di autentica venerazione del "mistero" che è in ogni uomo potrà sorgere una "riflessione necessaria e adeguata", che sia "critica e pacata", illuminata dalla ragione e corroborata dalla fede, una riflessione cioè che non si lasci offuscare dall’emotività né dominare da pregiudizi, e neppure diventi facile preda di strumentalizzazioni o di interessi estranei al vero bene della persona. Come Vescovo esprimo la mia vicinanza umana e cristiana a questa giovane, alla sua famiglia, alle "Suore Misericordine" che, insieme al personale sanitario della "Clinica Talamoni" di Lecco, l’hanno accolta e curata con professionalità e amore grande.

Quali i confini dell'eroismo?

Da Repubblica
12 febbraio 2009

Perché ho il diritto
di scegliere la mia morte
di UMBERTO ECO


BENCHE' il problema mi turbasse molto, e forse proprio per questo, ho cercato negli ultimi mesi di non pronunciare alcun giudizio o opinione sul caso Englaro, per molte e sensate ragioni, ma anzitutto perché non volevo partecipare alla canea di chi stava sfruttando per ragioni ideologiche, da una parte e dall'altra, la vicenda di una sventurata ragazza e della sua famiglia.

Quando il presidente del Consiglio ha preso pretesto dal caso per tentare uno dei suoi ormai reiterati attacchi alla Costituzione, sono intervenuto con Libertà e Giustizia, in piazza, e mi sono unito agli appelli alla vigilanza. Ma nelle poche interviste che non ho potuto evitare ho sempre detto che le poche centinaia di persone che erano con me davanti a palazzo di Giustizia a Milano non erano lì a manifestare sul caso Englaro, perché ero pronto a scommettere che se si fosse fatta la conta si sarebbe visto che metà la pensavano in un modo e metà nell'altro, ma per protestare contro l'attacco al presidente della Repubblica, attentato bonapartista (ringrazio Ezio Mauro per aver rievocato questo precedente) su cui tutti erano d'accordo.

Adesso, sfogliando le gazzette, mi rendo conto come sia difficile dividere questi due problemi e quanta sottigliezza politologica, giuridica e (permettetemi) morale ci voglia a capire quanto i due problemi siano diversi. Ma cosa si può pretendere da chi, come accadeva secoli fa con Terenzio e gli orsi, ha preferito il Grande Fratello alla discussione su questi casi?
Così mi sono trovato citato tra coloro che sul caso Englaro avevano idee chiare e decise. Intervengo per dire che non le avevo, altrimenti le avrei espresse. Solo che, ora che la ragazza è morta, forse si può parlare di questi problemi senza temere di far sciacallaggio su un corpo in sofferenza.

In effetti non intendo parlare della morte di Eluana Englaro. Voglio piuttosto parlare della mia morte, e ammetterete che in questo caso ho qualche diritto all'esternazione.

Dovendo parlare della morte mia, e non di quella altrui, non posso non citare alcuni aspetti della mia vita, tra cui il fatto che qualche anno fa ho scritto un romanzo intitolato La misteriosa fiamma della regina Loana, dove il protagonista, dopo un primo incidente cerebrale per cui perdeva la memoria, cadeva nuovamente in coma.

Non so se scrivendo volessi affermare qualcosa di scientificamente valido o cercassi solo un pretesto narrativo, ma fatto sta che ho impiegato più di cento pagine a far monologare il mio personaggio ormai in coma (non avevo allora calcolato se ridotto a vegetale, imputato di morte cerebrale o in coma eventualmente reversibile - segno che non avevo precise preoccupazioni scientifiche).

In ogni caso il personaggio, in quello stato che chiamerò di "vita sospesa", pensava, ricordava, desiderava, si commuoveva. Sapeva benissimo che probabilmente i suoi cari lo credevano ridotto allo stato di una rapa, o al massimo di un cagnolino dormiente, ma si accorgeva che i medici sanno pochissimo di quanto succede nel nostro funzionamento mentale, e che forse dove essi vedono un encefalogramma piatto noi continuiamo a pensare, che so, coi rognoni, col cuore, coi reni, col pancreas...

Questa era la mia finzione letteraria (per calmare coloro che dall'eccezionale si attendono tutto, dirò che alla fine il mio personaggio sprofondava nel buio) ma devo dire che se l'avevo pensata era perché un poco ci credevo. Non sono sicuro che là dove gli strumenti scientifici di oggi vedono solo una terra piatta, e una assenza di anima, ci sia del tutto assenza di pensiero - e lo dico con sereno materialismo, non perché ritenga che un'anima sopravviva alla morte delle nostre cellule ma perché non mi sento di escludere che - morte e definitivamente alcune cellule - altre non sopravvivano e prendano il controllo della situazione, testimoniando di una straordinaria plasticità non del nostro cervello (questo ormai lo sanno tutti) ma del nostro corpo.

Insomma, siccome sospetto che quando si è sani si pensi anche con l'alluce, allora perché no quando il cervello non dà segni di vita?

Non farei una comunicazione in merito a un congresso scientifico, ma in qualche modo ci credo. Visto che c'è gente che crede al cornetto rosso lasciatemi credere a questo.

Ora che cosa vorrei, se se mi trovassi in una situazione del genere?

A cercare proprio col lanternino tutte le possibilità credo proprio che esse si riducano a tre. Prima possibilità, sopravviverei come una rapa, senza coscienza, senza poter dire "io", reagendo al massimo a qualche modificazione dell'umidità atmosferica, come se fossi una colonnina di mercurio. In effetti a queste condizioni non sarei più "io", ma appunto una rapa e non vedo perché dovrei preoccuparmi di me.

La seconda possibilità è che in quello stato si riviva tutto il proprio passato, si torni all'infanzia, si abbiano visioni e si realizzino quelli che in vita erano stati i nostri desideri, insomma si viva una sorta di sogno paradisiaco. È un poco quel che accade al personaggio del mio romanzo, ma poi purtroppo anche lui cala nelle tenebre.

La terza ipotesi è la più angosciante, è che in quella vita sospesa ci si interroghi su cosa faranno e penseranno di noi i nostri cari, si riviva col cuore in gola gli ultimi momenti di coscienza, si tema per l'orrido futuro che ci attende, o addirittura ci si consumi come ha fatto mia madre negli ultimi dieci anni che è sopravvissuta a mio padre, raccontando a noi figli, ogni volta che poteva, come era stata orribile la notte in cui mio padre era stato colto da infarto, e se non fosse stata colpa sua che aveva preparato una cena forse troppo pesante. Questo sarebbe l'inferno - e ho accolto quasi con sollievo la morte di mia madre perché sapevo che stava uscendo da quell'inferno.

Adesso facciamo una botta di conti alla Pascal. Di tre possibilità solo una è gradevole, le altre due sono negative. In termini di roulette (e sui grandi numeri, tipo diciassette anni di vita sospesa) si è già perso in partenza. Ma il problema non è questo. Io sono pronto a dichiarare che, nel caso incorra nell'incidente della vita sospesa, desidero che non si protraggano le cure (anche se potrei perdere alcuni istanti o millenni di paradiso) per evitare tensioni, disperazione, false speranze, traumi e (permettetemi) spese insostenibili ai miei cari. Ma chi sono io per distruggere la vita a una, due, tre o più persone per la remota possibilità di avere qualche istante o qualche anno di paradiso virtuale?

Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri. Guarda caso, è quello che mi ha sempre insegnato la morale, e non solo quella laica, ma anche quella delle religioni, è quello che mi hanno insegnato da piccolo, che Pietro Micca ha fatto bene a dare fuoco alle polveri per salvare tutti i torinesi, che Salvo D'Acquisto ha fatto bene ad accusarsi di un crimine non commesso, andando incontro alla fucilazione, per salvare un intero paese, che è eroe chi si strappa la lingua e accetta la morte sicura per non tradire e mandare a morte i compagni, che è santo chi accetta l'inevitabile lebbra per baciare le piaghe al lebbroso.
E dopo che mi avete insegnato tutto questo non volete che io sottoscriva alla sospensione di una vita sospesa per amore delle persone che amo? Ma dove è finita la morale - e quella eroica, e quella che mi avete insegnato, che caratterizza la santità?

Ecco perché, turbato a manifestare la sia pur minima idea sulla morte di Eluana (non sono, maledizione, fatti miei, ma dei genitori che l'hanno amata più di quanto l'abbia amata Berlusconi, che ha sinistramente fantasmato sulle sue mestruazioni) non ho esitazioni a pronunciare la mia opinione circa la mia morte. E all'amore che una morte può incarnare. "Laudato s' mi Signore, per sora nostra Morte corporale, - da la quale nullu homo vivente po' skappare: - guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; - beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, - ka la morte secunda no 'l farrà male".