sabato 31 dicembre 2011

Due testi per augurarci buon anno: Don Tonino Bello e l'anno vecchio

Ringraziamento fine anno
(Tonino Bello)

Eccoci, Signore, davanti a te.
Col fiato grosso, dopo aver tanto camminato.

Ma se ci sentiamo sfiniti,
non è perché abbiamo percorso un lungo tragitto,
o abbiamo coperto chi sa quali interminabili rettilinei.

È perché, purtroppo, molti passi,
li abbiamo consumati sulle viottole nostre, e non sulle tue:
seguendo i tracciati involuti della nostra caparbietà faccendiera,
e non le indicazioni della tua Parola;
confidando sulla riuscita delle nostre estenuanti manovre,
e non sui moduli semplici dell'abbandono fiducioso in te.

Forse mai, come in questo crepuscolo dell'anno,
sentiamo nostre le parole di Pietro:
"Abbiamo faticato tutta la notte,
e non abbiamo preso nulla".

Ad ogni modo, vogliamo ringraziarti ugualmente.
Perché, facendoci contemplare la povertà del raccolto,
ci aiuti a capire che senza di te,
non possiamo far nulla. Ci agitiamo soltanto.

Ma ci sono altri motivi, Signore, che, al termine dell'anno,
esigono il nostro rendimento di grazie.

Ti ringraziamo, Signore,
perché ci conservi nel tuo amore.
Perché continui ad avere fiducia in noi.

Grazie, perché non solo ci sopporti,
ma ci dai ad intendere che non sai fare a meno di noi.

Grazie, Signore, perché non finisci di scommettere su di noi.
Perché non ci avvilisci per le nostre inettitudini.

Anzi, ci metti nell'anima un cosi vivo desiderio di ricupero,
che già vediamo il nuovo anno
come spazio della speranza e tempo propizio
per sanare i nostri dissesti.

Spogliaci, Signore, di ogni ombra di arroganza.
Rivestici dei panni della misericordia e della dolcezza.
Donaci un futuro gravido di grazia e di luce
e di incontenibile amore per la vita.

Aiutaci a spendere per te
tutto quello che abbiamo e che siamo.
E la Vergine tua Madre ci intenerisca il cuore.
Fino alle lacrime.

Don Tonino Bello

Tratto da
http://www.qumran2.net/

Due testi per augurarci buon anno: Severgnini e il nuovo anno

TRE PAROLE CHIAVE
Incertezza, Semplicità e Coraggio
Gli italiani e le difficoltà: ci insegneranno a costruirci un futuro


Alla fine del 2011 una certezza, il mondo, sembra averla: siamo tutti incerti. È un coro, più che un'opinione. Attraversa i social network e i media tradizionali, le conversazioni e le pubblicazioni. Si va dal catastrofismo Maya, che ha spiazzato gli astrologi, al disfattismo economico, che ha terrorizzato i risparmiatori.
Se contassimo le copertine e i titoli che la stampa di lingua inglese ha dedicato, quest'anno, all'inevitabile collasso dell'euro, potremmo concludere che in Europa siamo tornati al baratto, o a scambiarci conchiglie.
Non è andata così. L'Italia, l'Europa e il mondo sono arrivati alla fine di un altro anno impegnativo, ma non inutile. La sensazione è che - lentamente - stiamo capendo cosa è importante. È in atto un processo di semplificazione che non riguarda solo una moneta o l'economia; tocca la vita privata, la vita pubblica, il diritto e quasi tutte le industrie che conosciamo.
Bisogna lavorare meglio, lavorare più a lungo, sprecare meno e non rubare: più che un programma, è diventato un obbligo, per l'Italia e non solo. Ci stiamo rendendo conto quali sono le cose che contano; e abbiamo meno pazienza per le cose e le persone che non contano. È il compiacimento che porta agli eccessi, alla superficialità e alla tolleranza dell'incompetenza: lo ha dimostrato, nel 2011, la politica italiana, ma il fenomeno è più diffuso. Tocca le aziende, le famiglie e le persone. «Back to basics»: tornare ai fondamentali è un esercizio che ogni società, periodicamente, deve compiere.

Noi italiani possediamo un ottimismo infettivo: è la nostra fortuna e la nostra disgrazia. Ci mettiamo più di altri - certamente più degli scettici nordeuropei, dei pratici americani, dei realistici cinesi, dei fatalistici russi - a capire che le cose non vanno. Ma quando lo abbiamo capito, siamo capaci di ingegnarci perché cambino. Stavolta sarà necessario più ingegno e più impegno del solito. Perché al netto delle metafore western e sportive di Mario Monti (precipizi, avvoltoi, corse a ostacoli) è chiaro qual è la lezione del 2011: dobbiamo cambiare comportamenti. Lo dobbiamo a chi viene dopo di noi.
Non essendo sciocchi, e se saremo seri, potrebbe accadere. Chissà che il 2012 non sia l'anno del sollievo dopo lo spavento. In un «mondo di modernità multiple, interdipendente e globalizzato, senza un centro politico o un modello dominante» (Charles Kupchan), c'è spazio per tutti: basta fare bene qualcosa, ed evitare errori. L'indignazione - secondo alcuni la parola dell'anno - non è altro che la richiesta di capire. Come funziona la finanza, per esempio, la cui protervia sta diventando insopportabile.

I problemi sono ormai chiari, manca il coraggio delle soluzioni. È chiaro - per tornare all'Italia, citata spesso in questi giorni come caso esemplare della conversione necessaria - che abbiamo bisogno di procedure semplici e trasparenti, di un sistema fiscale equo, di trasporti efficienti, di mezzi per la sanità e l'istruzione cui siamo abituati. La battaglia ingaggiata nel 2011 è contro la Red Tape Industry, l'industria della complicazione burocratica, che nel nostro Paese ha il quartier generale, produce fatturati enormi e tenterà di difenderli.

Anche la tecnologia e i social network segnalano questa tendenza alla semplificazione. Se Amazon macina record - ora anche in Italia - è perché fa una cosa molto bene: ti porta a casa quello che desideri, quando lo desideri. Se la Apple di Steve Jobs ha stravinto, è perché offriva - e offre - prodotti più belli ed essenziali della concorrenza: è stata la prima a sbarazzarsi dei libretti d'istruzioni. Facebook resta dominante, ma comincia a mostrare qualche crepa. C'è chi ha detto: serve a mentire agli amici, mentre Twitter aiuta a esser sinceri con gli sconosciuti. Non solo: molti si stanno chiedendo chi siano, questi «amici», e se valga la pena sopportare a lungo l'ipocrisia di quelle virgolette.

Un altro anno è andato, la sua musica è finita, cantava Francesco Guccini, gran contabile delle nostre malinconie collettive. Non è stato, ripeto, un anno inutile. È servito a distinguere il necessario dal superfluo. La società occidentale - che conta meno, ma conta ancora - è uscita dal «paradosso del progresso» descritto da Gregg Easterbrook nel 2003. Nel decennio scorso, la vita migliorava e la gente si sentiva peggio. Non è escluso che le difficoltà, da qui al 2020, ci insegnino ad organizzare, risparmiare e apprezzare ciò che abbiamo. E a costruirci un futuro.

Oggi è sabato, c'è tempo. Guardate il video «Zeitgeist 2011» messo in rete da Google. La canzone di sottofondo - deliziosa - è di Mat Kearney, il primo verso recita: «We're all standing with our backs against the wall, sooner or later», ci ritroviamo tutti con le spalle al muro, prima o poi. Be', ci siamo già. E non è necessariamente un male. Perché in quella posizione - quando non si può più arretrare - si trova la forza di reagire. O ci si arrende: ma noi non vogliamo farlo.
Zeitgeist 2011 si chiude con una scritta digitata nel campo di ricerca: «We made it», ce l'abbiamo fatta. Certo, è una semplificazione. Ma ne avremo bisogno, a partire da domani.

Beppe Severgnini
31 dicembre 2011

Tratto da
www.corriere.it

mercoledì 21 dicembre 2011

Auguri per un Natale in cui respirare ossigeno nuovo e progettare un domani migliore

"Quando il Dio-Bambino, che nelle sue manine teneva il mondo intero, le protese compassionevole alla Madre, terra e cielo si fermarono in somma venerazione.
Quando colui che era venuto a scaldare con il suo amore tutte le creature assiderate dal freddo della morte si scaldava al fiato del bue e dell'asino legati nella stalla, anche gli alberi vegliavano"
(Pavel Aleksandrovič Florenskij)

Vi auguriamo con tutto il nostro cuore di sperimentare in questo Natale, assediato da paure e difficoltà, la stessa potenza e lo stesso calore che questa nascita comunica a tutti i cristiani: la potenza di una novità che sia in grado di ridare il giusto senso e il giusto verso alle nostre vite, aiutandoci a distinguere ciò che è indispensabile da ciò che è inutile; il calore di un amore a cui affidare le nostre vite e in cui sciogliere ogni tristezza, aiutandoci a camminare in buona compagnia verso la felicità.

Luca e Vale

mercoledì 23 novembre 2011

“Per fare un tavolo ci vuole un fiore”. I giovani e una nuova primavera della politica

Nell’epoca che continua a generare vite in stato di emergenza, si possono riscontrare, tra le altre, due tendenze opposte: una privatizzazione delle esistenze, che riduce la politica a tecnica di difesa dalla paura (“Mi interessa solo ciò che avviene dentro le pareti domestiche, da proteggere con siepi e muri di cinta”); un surplus di impegno civile, che convive con la zavorra di una sfiducia sempre più radicale nei confronti della politica (“Mi interesso degli altri, ma in forme immuni da una politica malata terminale”). Quest’ultima è forse ancora la regione più densamente frequentata dai giovani, per lo meno da quanti hanno deciso di ingaggiare una lotta serrata tra la propria natura, fisiologicamente audace e inquieta, e la cultura che li circonda, patologicamente prona al consumo dell’istante; ma persino coloro che tentano di ribellarsi all’idea di una distanza incolmabile dagli altri e dal futuro sono oramai affetti da una cronica disaffezione verso la politica e da un calo del desiderio riguardo l’impegno politico.
Senza tornare sulle molte motivazioni di quest’anomalia, è forse l’ora di spalancare qualche finestra dopo l’inverno e sentire l’odore di una nuova primavera, in cui protagonisti sappiano essere proprio quei giovani che fino ad ora hanno preferito restare in secondo piano, magari piegandosi silenziosamente sugli ultimi, piuttosto che quanti - pochi ma microfonati - hanno deciso di adeguarsi ad una sceneggiatura scadente, pur di proferire parola in storie già scritte, credendo di accreditarsi con professioni pubbliche di fede e rivendicazioni identitarie. C’è bisogno di questi giovani, non di giovanilismi: forti di una fede che può essere solo sovversiva (tanto meno incastonabile in un partito); pazienti nei tempi della semina e del raccolto, che non è detto spetti loro; capaci di diventare esempio e testimonianza in un quadro di cui la stretta attualità evidenzia la miseria.
Torna allora preziosa una delle storielle solo apparentemente banali di Gianni Rodari.
Per fare un tavolo ci vuole il legno. La politica è convivialità delle differenze, per usare un’espressione cara a Don Tonino Bello, in cui ci si siede tutti allo stesso tavolo: non per assistere allo spettacolo delle differenze, ma per farle dialogare; non per spartire la mensa, ma per condividerla; non per decidere i ruoli, ma per dirsi che tutti sono responsabili di tutti. E chi meglio dei giovani credenti deve ricordare come stare alla mensa non voglia dire cedere a compromessi, ma mirare al bene qui e ora, ricordarsi di gettare lo sguardo non solo su chi occupa il capo della tavola, che spesso ubriaca di promesse, ma su quanti, ai piedi, chiedono le briciole? Il tavolo ha bisogno del legno, come la politica deve nutrirsi della vita quotidiana di ognuno, della sua esperienza, del suo equilibrio e dei rapporti, anche lavorativi, che le danno senso. A motivo di ciò un quotidiano della precarietà non permette una riappropriazione matura della coscienza politica; avere un lavoro (e tornare al proprio lavoro) può consentire di guardare alla politica realmente come servizio; un lavoro che non c’è non può far diventare lavoro ciò che lavoro non è. Il rischio è di finire schiavi di logiche interne ad un mondo che ha la sola necessità della propria riproduzione: i giovani che iniziano a vedere nella politica la soluzione dei propri problemi lavorativi non si rendono conto che stanno già svendendo i loro seppur nobili ideali sullo stesso mercato che rinnegano.
Per fare il legno ci vuole l'albero, per l'albero ci vuole il seme, per il seme ci vuole il frutto, per il frutto ci vuole un fiore. Per ottenere un buon legno l’albero deve essere ben radicato nel terreno: ai giovani è proibito non interessarsi di ciò che succede attorno a loro, perché il prezzo del disinteresse è un appalto di potere ad altri da cui si finisce per dipendere, perché se non si avverte questa reciprocità con il mondo che abitiamo e il tempo che viviamo si diventa aridi e privi di linfa. Senza dimenticare che un cristiano, in virtù del Dio fatto uomo in cui crede, ha l’obbligo, come ben dice Don Arturo Aiello, di essere nella storia, appassionarsi della storia e dell’uomo, perché la storia e l’uomo sono luoghi di grazia. Ma l’albero cresce dal seme e il seme proviene a sua volta dal frutto: questo è forse l’impegno più arduo che spetta ai giovani, ovvero quello di essere insieme, in questo momento storico e in questa nostra Italia, seme e frutto, senza bruciare i tempi, ma rispettando le stagioni. Essere il seme di nuove forme di partecipazione e cittadinanza, all’altezza di sfide alle quali si può rispondere solo con la progettualità, solo con il coraggio, solo con l’entusiasmo di guardare lontano; essere il seme di un abitare che metta al centro davvero l’uomo e non il cemento, che ricostruisca l’uomo, per citare ancora Don Tonino Bello, più che costruirgli (o magari condonargli) la casa. Ma anche essere frutto, che ha resistito alla siccità e all’aridità perché ha attinto acqua altrove, sapendo scegliere le sorgenti sotterranee di un impegno lontano dall’immediato e dall’effimero, e rifiutare le fonti avvelenate della ricerca ossessiva di leader: l’Azione Cattolica è in questo miniera inestimabile di esempi di santità quotidiana e fioritura di un carisma partecipato, mai affidato ad alcun capo carismatico.
Per fare un tavolo ci vuole un fiore. Ai giovani spetta il compito di ricordare che persino per quel tavolo che è la politica serve coltivare la bellezza e la gratuità, ma soprattutto un’altezza di ideali che non significa distacco dalla realtà. In un tempo in cui tutto sembra appaltato al tecnicismo e l’utilità si misura solo con la produttività, i giovani non possono dimenticare che la politica non si risolve nei numeri o nell’efficienza, ma ha realmente bisogno di sogni; di sogni che rilancino il “non per profitto” e promuovano il valore di ciò che appare inutile secondo il vocabolario dei nostri tempi: la cultura, la civiltà, i legami. Ai giovani è dunque chiesto di avere a cuore la poesia di questo fiore e parafrasarla con una prosa all’altezza; di impegnarsi per una politica che sia profezia, non favori di cui vergognarsi; mappa dei bisogni reali, non strategie della scorciatoia; occhio e orecchio sull’umano, non autismo procedurale. Allora agli adulti sarà magari più facile, come ben scrive Ernesto Olivero, farsi dominare dai giovani che crescono nella fedeltà a Dio e dare loro responsabilità anche superiori alle proprie.

Luca Alici



Testo pubblicato sulla rivista mensile dell'Azione Cattolica "Segno", del novembre 2011, intitolata "Educarsi alla politica, educare la politica". Per info: http://www2.azionecattolica.it/

sabato 5 novembre 2011

Adesso BASTA!!

«Mi sembra che in Italia non si avverta una forte crisi. La vita in Italia è la vita di un Paese benestante. I consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto». Questa è l’ultima uscita in ordine di tempo del "Mio" Presidente del Consiglio; questa è l’uscita che mi ha spinto a scrivere queste righe, come classica ma indecente goccia che fa traboccare un vaso pieno zeppo di delusione, ma fin qui costretto a pensare ad altro piuttosto che a scrivere del proprio sdegno.
Lo faccio ora mosso dall’inaccettabilità di un flatus voci distante dalla realtà di tutti e vicino solo a se stesso, incompatibile con una idea di bene comune nella stessa misura in cui com-patisce solo un bene personale che coincide sempre più con una personale sopravvivenza politica; lo faccio ora mosso dall’esempio di un cittadino toscano, di cui non ho strumenti tecnici per valutare la qualità della proposta economica, ma di cui non posso non apprezzare lo sforzo economico per acquistare una pagina del Corriere, pur non essendo Della Valle, e dal cui amore per il proprio Paese mi sento trascinato. In virtù di questi due stimoli, mi sento di dire anche io “BASTA, ADESSO BASTA DAVVERO”, ma anche “FORZA, ORA SERVE IL MEGLIO DI OGNUNO DEI MIGLIORI”.
Dico “BASTA”, perché faccio fatica a sentire come mio un Presidente del Consiglio che finge di ignorare la verità, che fa finta di non sapere quanto persino io sia più rappresentativo della nostra Italia piuttosto che lui, la sua vita, le sue idee e le sue parole (e persino più di quanti continuano a spendere indebitandosi, rispetto ai quali lui non ritiene di fare da padre saggio, ma solo da avvilente testimonial): vivo da cinque mesi senza uno stipendio, da quattro anni il mio contratto di lavoro in università è annuale; mia moglie è laureata in beni culturali, per due anni è stata schiavizzata da quel precariato barbaro che ha assalito e conquistato anche le cooperative e ora lavora tre ore al giorno insieme ad un commercialista e ad una ragioniera grazie alla sua tenacia (che l’ha portata a mettersi in gioco a fare ciò per cui non ha studiato per ben otto anni) e alla disponibilità di sua zia; sono circondato da amici che non trovano sbocchi in università, che si vedono accorciare il proprio monte ore di commessi nei negozi dei centri commerciali, di disoccupati con una laurea che è più deflazionata della moneta corrente. Ecco, mi sento un campione statistico dell’Italia, di questa Italia di questo esatto momento storico, ma mi sento uno dei campioni statistici ancora messi meglio: perché ho due famiglie, quella di mio padre e mia madre e quella della mamma di mia moglie che riescono a darci dei soldi, a farci spesa e mettere qualcosa per pagare la rata del mio mutuo che altrimenti non saprei come pagare; perché ho una rete di rapporti, amicizie, esperienze e servizi che danno il senso alla mia vita, pur nella loro totale gratuità; perché credo in un Dio che è personale e provvidenziale, al quale comunque mi sento di affidare la mia vita e, sbagliando, non ancora un figlio (vittima incolpevole della contabilità domestica). E allora dico BASTA alla porcheria di parole indecenti non tanto per rispetto mio, ma per rispetto dei molti che stanno peggio di me e che magari non si possono permettere nemmeno di trovare cinque minuti per scrivere questo sfogo. BASTA Presidente del Consiglio: non si permetta più di dire qualcosa di simile, perché così si spoglia non di ciò di cui è abituato a spogliarsi, i suoi vestiti, ma di ciò che crede di avere addosso per diritto e prepotenza, la sua credibilità politica e la sua dignità di uomo rispettoso degli altri. BASTA persone che state vicino a questo "Mio" Presidente del Consiglio: abbiate un po’ di coraggio per sdegnarvi e abbiate la dignità per non fare calcoli personali in questa fase, perché se un pezzo della vostra dignità magari l’avete già venduta, fermatevi e fermatelo, prima di vederla tutta messa nelle mani di chi non merita neppure voi.
Ma dico anche “FORZA”, e lo dico a tutti coloro che fin qui hanno pensato di non essere all’altezza e di non essere significativi, lo dico a tutti i giovani che sono chiamati a prendere in mano il proprio Paese, lo dico a tutti i più grandicelli perché non credano che le loro fatiche siano finite, lo dico a quanti hanno esperienza nei mille rivoli dell’Italia migliore (associazionismo, volontariato, terzo settore): a voi tutti dico che serve il vostro essere il meglio del nostro paese e il meglio di voi. Serve che dal basso venga piantato e germogli il seme di un nuovo modo di vivere la propria vita e di sentirsi partecipi e protagonisti della vita dei propri paesi e del proprio Paese. Questa crisi così generale e generalizzata deve diventare occasione per farsi promotori di una nuova mentalità, per farsi portavoce di nuovi messaggi, per farsi tessitori di nuove relazioni, per farsi costruttori non più di case da condonare ma di una umanità che sappia davvero abitare questo tempo. E allora FORZA davvero, FORZA a uomini e donne che sappiano servire e non assecondare, FORZA a ragazzi e ragazze che sappiano inventare ed ideare piuttosto che spaccare e abdicare, FORZA a lavoratrici e lavoratori che sappiano rivendicare senza compromessi diritti e qualità invece di cedere alla quantità e al sopruso, FORZA a dirigenti, imprenditori e politici che sappiano dare un volto maturo alla responsabilità piuttosto che dare i contorni del privilegio al proprio vivere, FORZA a insegnanti, guide spirituali, sacerdoti ed educatori perché siano i primi testimoni che questo è il momento per rivoluzionare i cardini delle nostre vite e non per scovare nuove scorciatoie, FORZA, infine, a quanti sapranno avere e comunicare la pazienza e la tenacia del vero futuro, affinché ogni generazione impari a pensare a chi ci sarà dopo di sé e predisponga tutto il possibile perché stia realmente meglio.

Luca Alici

venerdì 4 novembre 2011

Ospito una bella riflessione del Prof. Norberto Patrignani, docente di Computer Ethics alla Scuola di Dottorato del Politecnico di Torino

"Stay hungry, stay foolish"
The Whole Earth Catalog
Steward Brand, 1975 circa.

In memoriam - Steve Jobs

Caro coscritto,
da quando sei mancato qui tutto il pianeta ti sta ricordando con una frase, "stay hungry, stay foolish", che ti attribuiscono.
Ho ascoltato con attenzione il tuo discorso di fronte ai neo-laureati di Stanford del 2005 dove citi la vera fonte di quelle parole: Steward Brand.
Ho apprezzato molto il racconto della tua vita tenuto in quella occasione perché riconosci con onestà il grande contributo dato alla tua formazione dalla cultura californiana di quegli anni, i mitici anni '60.
Mi ha colpito nel tuo discorso la citazione della rivista The Whole Earth Catalog, fondata nel 1968 proprio da Steward Brand. Per molti di noi resta il crogiuolo più rappresentativo di quegli anni pieni di speranze per il futuro. Ci scrivevano autori come Amory Lovins, Ivan Illich, Ursula K. Le Guin, Gregory Bateson, etc.
Molti di noi erano convinti che la conoscenza e l'innovazione avrebbero contribuito a creare un mondo più sostenibile dal punto di vista sociale ed ambientale. Nascevano i movimenti che avrebbero cambiato per sempre le sensibilità di tutti noi.
Fanno sorridere oggi i racconti delle riunioni al "Homebrew Computer Club" (il club del computer auto-costruito) di Palo Alto dove discutevate liberamente di tecnologia con Lee Felsenstein e tanti altri. Bello il tuo colpo di genio del 1975, quando a vent'anni vendi il tuo Volkswagen e Wozniak la sua vecchia calcolatrice HP per poter costruire nel garage dei tuoi il secondo personal computer (infatti sappiamo tutti che il primo personal computer della storia è la Olivetti P101 presentata alla Fiera di New York del 1965, dieci anni prima di voi).
Quando uscivamo a mangiare un panino dal cinese che arrivava con un carrello di hotdog davanti alla sede della Olivetti di Cupertino, di fronte a noi vedevamo crescere la tua impresa che, per molti, sarebbe diventa il simbolo stesso del cambiamento continuo (a proposito, è vero che la mela morsicata è un tributo a Alan Turing?).
Dobbiamo riconoscere che la tua azienda, anche riusando idee di altri, cambia radicalmente l'interfaccia con la macchina quando immette sul mercato il computer con il mouse (inventato da Douglas Engelbart e Bill English nel 1963) e con l'interfaccia a finestre (inventata dal Palo Alto Research Center della Xerox nel 1973).
L'innovazione, il vecchio che lascia il posto al giovane, come spieghi molto bene, è il ciclo stesso della vita. "Think different" recita, appunto, l'azzeccato slogan coniato dall'agenzia di pubblicità TBWA nel 1997 per il lancio sul mercato dell'iMAC. Tutto il resto è noto.
Il problema, caro coscritto, è che qui tutto il pianeta ti sta celebrando come un profeta, la gente fa processioni con le candele in mano. Qualcosa non torna. Non si capisce perché l'innovazione che crea valore per gli azionisti (oggi l'azienda fattura circa 60 miliardi di dollari) viene vista di per sé come qualcosa addirittura di spirituale. Sarà pure una questione di "brand community" o di "life-style" ma forse neanche tu ti trovi a tuo agio in questo trionfo di melassa nostalgica un po' di cattivo gusto.
Ora, so bene che la responsabilità sociale dell'impresa non è mai stata tra i tuoi interessi ma la creazione del valore comporta un lavoro da parte di qualcuno. Come la mettiamo, ad esempio con gli iPad, prodotti dai lavoratori della Foxconn a Shenzhen, Cina, dove le condizioni di lavoro sono terribili, sia dal punto di vista contrattuale che dal punto di vista ambientale?
Nel 1955, quando tu nasci, Adriano Olivetti, un imprenditore visionario di Ivrea, Italia, prova a coniugare innovazione e responsabilità sociale, arte e tecnologia, cerca di costituire una comunità basata sulla condivisione e sulla bellezza, ma purtroppo muore prima di riuscire a costituire una struttura capace di continuare la sua opera, di sopravvivergli. Una storia completamente diversa dalla tua.
La tua azienda non è mai stata così bene economicamente in tutta la sua storia, ma il prezzo è anche quello di impedire agli utenti di andare oltre le interfacce fornite, la conoscenza incorporata nelle macchine non è libera ed accessibile. Ormai gli utenti non sono più liberi nemmeno di installarsi le applicazioni, devono passare dai server dell'azienda. Mi sembra una scelta un po' distante dal sogno del "personal" computer della Olivetti P101 del 1965 o del "club del computer auto-costruito" di Palo Alto del 1975. Ma anche questo non è mai stata una preoccupazione per te che non hai mai nascosto la tua predilezione per le tecnologie chiuse e proprietarie.
Infatti chi vuole più libertà sceglie il software libero, l'hardware libero, i dati liberi. Le immense risorse della tua azienda avrebbero potuto essere indirizzate verso una nuova rivoluzione industriale? Rendere le condizioni di lavoro più umane, le tecnologie più libere ed aperte, con minore impatto ambientale? Non lo sappiamo, ma sicuramente non è quello che ti ha ispirato.
Sicuramente ti ha ispirato lo "Stay hungry, stay foolish" di Steward Brand.
Soprattutto quando da ragazzo vendevi i vuoti delle lattine, raccolte per le strade di Portland, a cinque centesimi l'uno o quando per poter mangiare qualcosa andavi a fine settimana al tempio degli Hare Krishna. Il tuo sogno, la tua passione ti hanno salvato, reso ricco e famoso in tutto il mondo.
Oggi qualcuno addirittura ti paragona a Adriano Olivetti. Forse questo è troppo: tra innovazione e responsabilità sociale, tu hai sempre scelto solo l'innovazione, a qualsiasi costo. In questo momento dobbiamo rispettare anche la tua storia, oltre al silenzio per la tua morte, senza operazioni di nostalgia che non hanno niente a che fare con la verità. E che non avresti apprezzato nemmeno tu.

Ciao Steve, riposa in pace.

Norberto Patrignani
Ivrea, Ottobre 2011

Articolo tratto da www.centrosanrocco.it

mercoledì 31 agosto 2011

Campo di servizio a Falconara: a caldo

All’improvviso, appena mi sono voltato verso la porta, ho sentito qualcuno saltare e atterrare sulle mie spalle. Era l’ultimo giorno della nostra settimana a Massignano ed è stata subito un sensazione strana e forte: non ho avvertito il peso, ma la leggerezza, quasi anomala, di un corpo, giovane e magro, ed in quella leggerezza c’erano scritte, insieme, la tragedia e la felicità. Questa è la prima immagine che porto nel cuore di una settimana meravigliosa, in cui il servizio agli altri è diventato un dono per noi, la fatica delle giornate un nuovo modo di scoprire se stessi, le persone che abbiamo visitato tanti volti con cui provare a sorridere e i ragazzi che abbiamo accompagnato la fonte di una bellezza che il nostro tempo spesso dimentica o addirittura violenta. C’era un ragazzo sulle mie spalle, reso esile dal suo passato e leggero dal suo presente: un passato lungo e sofferto di sostanze e dipendenza che lo ha fatto diventare quasi scheletrico; un presente breve e gioioso di compagnia e volti nuovi che gli ha ridato entusiasmo e coraggio. La nostra presenza che diventava sollievo, la nostra normalità che diventava eccezionalità, il nostro ascolto che diventava assenza di pregiudizi: partiti con la paura di dover fare chissà cosa, ci siamo accorti che allacciare relazioni e raccontarsi storie è il modo migliore per scoprirsi e volersi bene.
Torno indietro, riavvolgo il nastro e vedo diciannove ragazzi in cerchio su un piccolo pezzo di prato che si raccontano la loro prima giornata in giro per quattro strutture, uno di fronte all’altro, un po’ indecisi sul da farsi, ma capaci di fermare le loro vite, rubare una settimana di agosto al clima festoso delle vacanze e al richiamo della compagnia dei loro amici: che cosa li spinge e cosa li motiva? Per ora basta questo sì, è sufficiente per essere orgoglioso di loro; per capire il motivo ci sono sei giorni da vivere tutti d’un fiato, con qualche sacrificio e molta pazienza, un pizzico di trascuratezza per sé e tanta curiosità per l’altro. I giorni trascorrono, ma il cerchio e il luogo è esattamente lo stesso: siamo alla fine del campo e ora però hanno tutti capito il motivo della loro scelta, hanno tutti provato emozioni forti (senza sperimentare chissà quali brividi extra-ordinari o indotti) e i loro occhi ce lo comunicano. E questa è per molti versi la felicità: essere insieme a dei giovani che ti lasciano giovane, a dei ragazzi che dove vanno si sentono dire che sono belli, a un gruppo che ti fa capire quanto sia bella la vita di Ac, a delle vite che cercano e sognano, alle quali però, quasi inconsapevolmente, Dio ha fatto il regalo grande di custodirle in questa settimana magnifica, di sorreggerle e di consentire con la sua provvidenza ciò che, comprensibilmente per molti di noi, altrimenti si farebbe fatica solo a pensare.

venerdì 8 luglio 2011

I RITI DI DEGRADAZIONE E L’ANNULLAMENTO DELLA SPERANZA 2: LA POLITICA SENZA LAVORO O IL LAVORO SENZA POLITICA

Nel V secolo a.C, Protagora, come buona parte della tradizione classica, ricorre ad un mito per narrare le prime origini della vita dell’uomo in comunità: per salvare gli uomini da uno sterminio Zeus invia loro, tramite Ermete, aidòs e dìke, ovvero correttezza e giustizia; Zeus però decide in questo caso una distribuzione diversa rispetto a quella utilizzata nel caso delle téchnai, ovvero delle capacità professionali; se infatti può essere sufficiente l’istituzione di un persona capace in medicina, a servizio di numerose altre, correttezza e giustizia vanno riversate su tutti gli uomini, perché solo così tutti possono essere partecipi; se correttezza e giustizia fossero possedute solo da qualcuno, come avviene per le professionalità, non vi sarebbe città; ne deriva che tutti i cittadini non in virtù dell’attività professionale, bensì di queste doti, possono intervenire negli affari “comuni”. In uno dei suoi interventi sui nostri quotidiani Roberto Saviano di recente ha scritto: “Mi guardo intorno e penso: come deve sentirsi un giovane italiano che voglia usare in politica la sua passione civile, il suo talento? La politica di oggi lo incoraggia o lo spaventa? E qual è il prezzo che tutti paghiamo per questa esclusione e per questa diffidenza? Qual è il costo sociale della paura?”.
Da un lato la saggezza antica e profonda che scava fin nelle radici antropologiche, dall’altro le domande assillanti del nostro presente tutto italiano; da una parte la capacità di cogliere le doti e le virtù del paradigma di una buona politica; dall’altro la paura che i talenti migliori vengano divorati dai limiti della nostra cattiva politica. Che cosa unisce questo mito del V secolo a.C, raccontato da un retore e da un filosofo, capace di guidarci con immediatezza su un piano universale, con le riflessioni di un giovane scrittore del 2000 e qualcosa d.C., che guarda la sua Italia e ne denuncia i problemi che la tengono in scacco o sotto ricatto continuo? Il rapporto tra politica, lavoro e professionalità, che, da allora fino ai giorni nostri, continua a costituire oggetto di riflessione e confronto, ma che oggi, più di ieri, sembra avvinto e soffocato da un circolo vizioso che nessuno è in grado o vuole realmente interrompere. Quale circolo vizioso? Quello di un luogo di servizio che si è fatto luogo di privilegi e quello di un lavoro che non c’è che fa diventare lavoro ciò che lavoro non è. Come spiegarlo? Mettendo due generazioni, quella degli ultracinquantenni e quelli degli appena trentenni, al cospetto della domanda “la politica è un mestiere?”. La risposta ovvia di entrambi sarà “no”, ma le pratiche di vita raccontano tutta un’altra storia, che forse ci affida una delle ragioni a causa delle quali è così difficile cambiare la nostra classe dirigente e la logica che la anima.
Vi siete mai chiesti quale è la professione di alcuni totem della nostra politica? Vi siete mai chiesti quanti anni sono che si dicono intepreti di cambiamenti radicali e strutturali del nostro convivere quotidiano? Ecco, la prima sensazione che mi viene in mente è che c’è una generazione di ultracinquantenni che ha snaturato il senso della politica, perché ne ha fatto il proprio mestiere e, mentre racconta al mondo intero delle qualità della flessibilità e dei meriti di contratti a tempo determinato che agevolano il cambiamento e magari il successo lavorativo, restano indeterminatamente avvinghiati al loro ruolo, lontani da un mondo in cui e per cui non lavorano da tempo, vestiti di un ruolo che oramai non solo ha fagocitato e digerito le loro singole professionalità, ma ne ha spesso traviato correttezza e giustizia. La politica che diventa lavoro è divenuta un lavoro senza politica: proceduralmente schiava delle logiche e delle leggi interne di un mondo tutto volto alla propria autoriproduzione, radicalmente incapace di rinnovarsi perché terribilmente paralizzata dall’idea di dover fare altro (ma quale altro a questo punto), ma soprattutto oramai definitivamente priva di ragioni e progetti, così come della sua vocazione gratuita e della sua dimensione di servizio.
Andiamo indietro di qualche annetto, cambiamo generazione, manteniamo lo stesso sfondo, cosa troviamo? Una generazione di appena trentenni che vorrebbe cambiare il mondo e in primis il mondo della politica, ma che è afflitto da sfiducia e delusione. E di fronte a questo panorama, quale mela avvelenata viene offerta loro? Quella di una vita sotto ricatto: da un lato un lavoro che non c’è, che va cercato, cambiato, capito e riadattato; dall’altro una politica che chiede nuovi volti, nuove presenze, nuove idealità, ma molto tempo, il tempo che solo la serietà può permettersi di domandare. Ecco, la tentazione del serpente è già in atto: non ho lavoro, non ho soldi e se unissi la mia passione politica con la possibilità di tirarci su qualche lira? Che c’è di male in fondo? I miei ideali sono alti e nobili, questo non è poi altro che un modo per comunicarli e iniziare a farli conoscere… Ovviamente nulla da dire al cospetto di chi viene valorizzato per una competenza che mette a disposizione, ma quello che noto è un meccanismo decisamente più perverso. La politica che può diventare un lavoro rischia di essere una politica senza lavoro: il bivio tra quanti devono per forza rinunciare ad un impegno di puro volontariato in politica perché costretti a farsi in quattro per uno o più posti di lavoro, da conciliare magari con una famiglia (ed ecco qua che le 24 ore di una giornata e i 7 giorni di una settimana sono belli che andati) e quanti iniziano a vedere nella politica la soluzione dei propri problemi lavorativi e non si rendono conto che stanno già svendendo i propri seppur nobili ideali al mercato che accusano (prolungando la vita a quel sistema perverso di cui erano e magari pensano di continuare ad essere gli accusatori).
Da dove cominciare allora?

lunedì 13 giugno 2011

Affinché prevalga, oltre alla partecipazione, un sano principio di prudenza

So che accanto a questa possono essere riscontrate molte altre voci, e magari autorevoli, che la pensano diversamente, ma credo che ne vada del modo in cui guardiamo al nostro paese: scegliere di investire in un senso o in un altro dirà da oggi chi saremo domani.

Per questo riporto questa riflessione il cui valore è dato dalla cognizione di causa di chi ne parla e scrive.
Buona riflessione



"Ho lavorato una vita nel nucleare vi spiego perché voterò sì al referendum"
Oltre due decenni di esperienza nel settore, visitando una sessantina di reattori in tre continenti, con la convinzione che le precauzioni prese negli impianti rendessero impossibile una catastrofe. Poi Three Miles Island, Chernobyl, Fukushima: tre disastri in meno di 30 anni...
di ALBERTO BAROCAS

Dopo essere stato allibito per l'incoscienza delle dichiarazioni di uno scienziato, il professor Battaglia (la pubblicazione di una sua opera scientifica con la prefazione di Silvio Berlusconi parla da sé), su un tema così importante per la sorte dell'umanità, mi sento costretto ad intervenire avendo dedicato tutta la mia vita professionale alla ricerca e sviluppo del nucleare ed essendo stato per lungo tempo "abbastanza" a favore dell'energia nucleare.

Dopo una laurea in Radiochimica presso l'Università di Roma e successivo Corso di Perfezionamento in Fisica e Chimica Nucleare, ho lavorato presso i laboratori di ricerca del plutonio di Fontenay-aux-Roses (Francia) nelle ricerche e tecniche del plutonio per l'impianto di riprocessamento del combustibile nucleare di La Hague. Ritornato in Italia ho partecipato, nei laboratori di ricerca della Casaccia (CNEN, ora ENEA), alla messa a punto degli impianti di separazione del plutonio di Saluggia e successivamente allo studio dei siti nucleari in vista della costruzione di centrali di energia nucleare. Dal 1982 sono stato distaccato dal CNEN presso l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) di Vienna dove mi sono occupato prevalentemente di salvaguardie nucleari, in particolare per i reattori nucleari di potenza e di ricerca nel mondo. Per 22 anni ho avuto la possibilità di visitare ed ispezionare una sessantina di reattori in tre continenti, in particolare in Giappone ed in particolare proprio Fukushima.

Durante l'intera attività ero giunto alla conclusione che le precauzioni utilizzate negli impianti nucleari fossero tali da rendere praticamente impossibile un grosso incidente nucleare. Proprio il Giappone si presentava ai miei occhi come il modello per eccellenza di organizzazione, di perfezione, di attenzione al più piccolo dettaglio: l'energia nucleare o doveva essere realizzata così o non doveva esistere. Ed invece... Three Miles Island, Chernobyl, Fukushima... tre catastrofi in meno di 30 anni.

Oggi sono completamente convinto che i rischi dell'energia nucleari siano tali da consigliarne l'utilizzo solo se non ci fossero sulla Terra altre fonti di energia o dopo una guerra nucleare. Voterò quindi SI al referendum per le seguenti ragioni:

a) la progettazione di una centrale nucleare avviene sulla base di dati statistici puri, cioè su una probabilità estremamente bassa di un grosso incidente, anziché basarsi sul fatto che un incidente anche imprevedibile possa avvenire (per esempio: chi avrebbe mai potuto calcolare statisticamente che otto montanari dell'Afghanistan si potessero impadronire contemporaneamente di quattro jet di linea facendoli convergere sulle Torri di New York, sul Pentagono e sulla Casa Bianca? Chi potrebbe calcolare statisticamente la possibilità dell'impatto di un meteorite?) e quindi progettando nello stesso tempo le soluzioni e le difese: naturalmente questo però aumenterebbe enormemente i costi ed allora bisogna ricordarsi che l'energia nucleare è un'industria come tutte le altre, cioè che vuole fare profitti;

b) gli effetti di un grosso incidente non sono come gli altri: terremoti, inondazioni, incendi fanno un certo numero di vittime e danni incalcolabili, ma tutto questo ha un termine. L'energia nucleare no: gli effetti si propagano per decenni se non secoli, con un disastro anche economico per il Paese colpito. I discendenti delle bombe di Hiroshima e Nagasaki ancora subiscono danni. Altrimenti perché il deterrente di una guerra nucleare funziona talmente? Anche i bombardamenti "classici" causano morti molto elevate, ma non portano a danni simili per generazioni...

c) il blocco dell'energia nucleare in Italia del 1987 ha avuto il torto di fermare di botto non solo le quattro centrali in funzione (Trino Vercellese, Caorso, Latina, Garigliano) e la costruzione di Montalto con spese immani per un pazzesco riadattamento dell'impianto nucleare ad una centrale di tipo classico, ma altresì ogni tipo di ricerca nucleare, anche di eventuali impianti innovativi, creando un pericolo, dato l'impauperamento di una cultura "nucleare": non esistevano più corsi di scienze nucleari, né tecnici, né possibilità di tecnologie di difesa da eventuali incidenti in altre nazioni. E questo non è richiesto dalla rinuncia all'uso di centrali atomiche: la ricerca e lo sviluppo del nucleare dovrebbe poter continuare;

d) la presenza di impianti di produzione di energia nucleare porta ad una militarizzazione delle zone in questione: non c'è trasparenza, ogni dato viene negato all'opinione pubblica. Anche agli ispettori dell'AIEA viene proibito di comunicare con la stampa. Lo dimostra anche quello che è successo a Fukushima: il gestore ha tenuto nascosto per lungo tempo la gravità dell'accaduto. E in un territorio come il Giappone, sottoposto non solo a terremoti ma a tsunami, il costo di una maggiore precauzione per gli impianti di raffreddamento è stato tenuto il più basso possibile senza tenere conto dei rischi solamente per fare più profitto!

e) in tutto il mondo non è stato mai risolto il problema dello smaltimento delle scorie mucleari. Nell'immenso deposito scavato in una montagna di Yucca Mountain in USA si sono dovuti fermare i lavori, il maggiore deposito in miniere di sale della Germania si è dimostrato contaminato con pericoli per le falde acquifere, ecc. Il combustibile nucleare delle nostre centrali fermate è in gran parte ancora lì dopo 25 anni. D'altra parte un Paese come il nostro che non riesce a risolvere il problema dei rifiuti può dare garanzie sui rifiuti nucleari?

f) l'Italia è un paese sismico, dove l'ospedale e la casa dello studente dell'Aquila sono crollate perché al posto del cemento è stata usata sabbia. Può dare garanzie sugli impianti nucleari? E la presenza di criminalità organizzata a livelli preoccupanti può liberarci da particolari preoccupazioni nella scelta e costruzione di centrali atomiche?

g) ultima osservazione: anche se molti minimizzano gli effetti delle radiazioni nucleari, una cosa si può dire con certezza: gli effetti delle radiazioni a bassi livelli ma per tempi estremamente lunghi sugli esseri viventi non sono stati mai chiariti. Non deve essere solo il fumo a preoccupare l'opinione pubblica!

Per tutte queste ragioni penso che in Italia l'uso dell'energia nucleare non sia raccomandabile, perlomeno in questa fase della nostra storia, ed invece un miscuglio di diverse fonti di energia (eolica, solare, idrica, gas, geotermica) potrà sopperire ai nostri bisogni, accompagnato da una maggiore ricerca scientifica ed un diverso modello di vita con maggiore eliminazione degli sprechi. Io voto sì.

Tratto da www.repubblica.it
(10 giugno 2011)

martedì 8 marzo 2011

In occasione della festa della donna pubblico questa lettera di suor Rita Giaretta scritta qualche tempo fa

Lettera aperta da Caserta di suor Rita Giaretta
Caserta, 27 gennaio 2011, Festa di Sant’Angela Merici

«Se verrete a conoscere chiaramente che sono in pericolo la salvezza e l’onestà delle figliole, non dovrete per niente consentire, né sopportare, né aver riguardo alcuno, se non potrete provvedere voi, ricorrete alle madri principali e, senza riguardo alcuno,siate insistenti, anche importune e fastidiose» (Sant’Angela Merici).

Da anni, insieme a tre mie consorelle (suore Orsoline del S. Cuore di Maria), sono impegnata in un territorio a dire di molti “senza speranza”. Un territorio, quello casertano, sempre più in ginocchio per il suo grave degrado ambientale, sociale e culturale, dove anche la piaga dello sfruttamento sessuale, perpetrato a danno di tante giovani donne migranti, è assai presente con i suoi segni di violenza e di vera schiavitù.

Come donna, come consacrata, provocata dal Vangelo di Gesù che parla di liberazione e di speranza, insieme alle mie consorelle, ho scelto di “farmi presenza amica” accanto a queste giovani donne straniere, spesso minorenni, per offrire loro il vino della speranza, il pane della vita e il profumo della dignità.

Oggi, osservando il volto di Susan chinarsi e illuminarsi in quello del suo piccolo Francis, scelto e accolto con amore, ripensando alla sua storia – una tra le tante storie accolte, la quale ancora bambina (16 anni) si è trovata sulle nostre strade come merce da comprare, da violare e da usare da parte di tanti uomini italiani – sono stata assalita da un sentimento di profonda vergogna, ma anche di rabbia.

Ho sentito il bisogno, come donna, come consacrata e come cittadina italiana, di chiedere perdono a Susan per l’indecoroso spettacolo a cui tutti, in questi giorni, stiamo assistendo. E non solo a Susan, ma anche alle tante donne che hanno trovato
aiuto e liberazione e alle tante, troppe donne, ancora schiave sulle nostre strade. Ma anche ai numerosi volontari e ai tanti giovani che insieme a noi religiose credono nel valore della persona, in particolare della donna, riconosciuta e rispettata nella sua dignità e libertà.

Sono sconcertata nell’assistere come da “ville” del potere alcuni rappresentanti del governo, eletti per cercare e fare unicamente il bene per il nostro Paese, soprattutto in un momento di così grave crisi, offendano, umilino e deturpino l’immagine della donna. Inquieta vedere esercitare un potere in maniera così sfacciata e arrogante che riduce la donna a merce e dove fiumi di denaro e di promesse intrecciano corpi trasformati in oggetti di godimento.

Di fronte a tale e tanto spettacolo l’indignazione è grande!

Come non andare con la mente all’immagine di un altro “palazzo” del potere, dove circa duemila anni fa al potente di turno, incarnato nel re Erode, il Battista gridò con tutta la sua voce: «Non ti è lecito, non ti è lecito!». Anch’io oggi, anche a nome di
Susan, sento di alzare la mia voce e dire ai nostri potenti, agli Erodi di turno, non ti è lecito! Non ti è lecito offendere e umiliare la “bellezza” della donna; non ti è lecito trasformare le relazioni in merce di scambio, guidate da interessi e denaro; e soprattutto oggi non ti è lecito soffocare il cammino dei giovani nei loro desideri di autenticità, di bellezza, di trasparenza, di onesta. Tutto questo è il tradimento del Vangelo, della vita e della speranza!

Ma davanti a questo spettacolo una domanda mi rode dentro: dove sono gli uomini, dove sono i maschi? Poche sono le loro voci, anche dei credenti, che si alzano chiare e forti. Nei loro silenzi c’è ancora troppa omertà, nascosta compiacenza e forse sottile invidia. Credo che dentro questo mondo maschile, dove le relazioni e i rapporti sono spesso esercitati nel segno del potere, c’è un grande bisogno di liberazione.

E allora grazie a te, Susan, sorella e amica, per aver dato voce alla mia e nostra indignazione, ora posso, come donna consacrata e come cittadina, guardarti negli occhi e insieme al piccolo Francis respirare il profumo della dignità e della libertà.

Sr. Rita e sorelle comunità Rut

sabato 26 febbraio 2011

Per capire realmente cosa è l'Europa - Un'intervista di Gianni Borsa al nuovo Presidente del parlamento europeo

Dal luglio 2009 è presidente del Parlamento europeo, primo deputato di un paese dell’est ad assumere questa carica. Il polacco Jerzy Buzek, nato nel 1940 in Slesia, ingegnere, ha iniziato l’impegno politico nel 1980 con la nascita di Solidarnosc. Dopo aver partecipato in prima fila alla vita del sindacato libero (tra i fattori decisivi per la caduta della Cortina di ferro nel 1989), ha svolto attività politica nel suo paese, fino ad assumere, fra il 1997 e il 2001, la carica di primo ministro a Varsavia. Il suo contributo all’ingresso della Polonia nell’Ue è ampiamente riconosciuto. Gianni Borsa per SIR Europa lo ha intervistato alla vigilia della sua visita a papa Benedetto XVI, prevista per lunedì 28 febbraio.

Un papa tedesco e un presidente del Parlamento europeo polacco si incontrano in Vaticano. Ci saranno molti temi in agenda. Su quali intende attirare l’attenzione di Benedetto XVI? Cos’ha da dire o da chiedere l’Europa di oggi a un uomo di fede e di cultura come Joseph Ratzinger e alla Chiesa cattolica?
“Noi politici in Europa dovremmo piuttosto ascoltare quello che un uomo di fede e di cultura come Joseph Ratzinger ha da dire. Dopo tutto, non è soltanto un capo di Stato, ma è prima di tutto il supremo pontefice della Chiesa cattolica: una comunità di credenti che ha dato forma all’Europa. Le stesse fondamenta dell’Unione europea sono state poste da democristiani come Schuman, De Gasperi e Adenauer, che si sono ispirati agli insegnamenti della Chiesa. L’Ue riconosce, nel preambolo del suo Trattato di fondazione, il retaggio culturale, religioso e umanistico dell’Europa come propria fonte di ispirazione. È chiaro che la cristianità è stata una grande fonte di ispirazione per l’Europa. Anche il Trattato di Lisbona fornisce una base legale – per la prima volta – al dialogo istituzionale tra l’Unione e le comunità religiose. Ho già rappresentato il Parlamento europeo in tali incontri. L’anno scorso, abbiamo avuto un dialogo con i rappresentanti delle Chiese cattolica, protestante e ortodossa oltre che del giudaismo e dell’islam, su come l’Unione europea possa combattere la povertà e l’esclusione sociale. In qualità di presidente del Parlamento europeo, sono onorato di essere ricevuto da papa Benedetto XVI. In un periodo di grandi cambiamenti in Europa e nel mondo, tutti noi abbiamo bisogno di qualche orientamento. L’est e l’ovest finalmente crescono di pari passo. Noi, in Europa, stiamo cominciando a respirare nuovamente con tutti e due i polmoni, come aveva chiesto il grande Giovanni Paolo II nel suo discorso al Parlamento europeo di Strasburgo nel 1988. Quando un papa tedesco e un presidente polacco del Parlamento europeo si incontrano, possiamo essere grati di ciò che abbiamo conseguito finora. Ancora molte sfide ci attendono. So che forse una delle più grandi preoccupazioni della Chiesa cattolica in questi giorni è la persecuzione dei cristiani in Medio Oriente. Si tratta di una preoccupazione che qui, al Parlamento europeo, condividiamo profondamente, e stiamo incoraggiando Catherine Ashton, Alto rappresentante per gli affari esteri dell’Ue, ad aprire la strada con misure concrete in difesa della libertà religiosa”.

Quali sono le grandi sfide che l’Ue ha dinanzi a sé in questa fase? Quelle in cui occorrere “più Europa”, una maggiore integrazione fra i popoli e gli Stati del continente? E cosa pensa, in tale contesto, a proposito della crescita di fenomeni preoccupanti come il populismo, le nuove forme di nazionalismo, la xenofobia?
“Oggi, l’Europa deve trovare il suo posto nel mondo. Il rafforzamento della nostra unità e della nostra performance economica è un requisito fondamentale in questo sforzo, ma dobbiamo andare oltre. Dobbiamo infondere vita al Trattato di Lisbona, specialmente nel settore della politica estera. L’Unione europea ha bisogno di mezzi sufficienti a garantirsi un posto adeguato nel mondo, dove le economie emergenti, come la Cina, l’India e il Brasile, sono sempre più influenti. Parlo di mezzi sia politici che di bilancio; gli stati membri dovrebbero essere consapevoli che è nel loro interesse rafforzare la posizione della baronessa Ashton e aumentare il budget dell’Ue per la politica estera. Possiamo in realtà risparmiare denaro se condividiamo e mettiamo insieme le nostre risorse e le nostre competenze. Insieme, possiamo ottenere molto di più a livello internazionale. Si guardi, per esempio, alla politica energetica dell’Unione europea, una delle mie priorità: se supportiamo gli investimenti europei per la creazione di un mercato energetico veramente continentale, potremo anche parlare con una sola voce sul mercato internazionale delle forniture energetiche, che è sempre più competitivo. Soltanto insieme possiamo influenzare la risposta internazionale al cambiamento climatico e stabilizzare il prezzo che ogni cittadino deve pagare per l’elettricità e il combustibile. Questo è quello che io chiamo un valore aggiunto europeo. L’integrazione europea ha sempre due dimensioni: riunire le nazioni europee in un’unica Unione e supportare ogni cittadino nella ricerca del proprio posto in una società globalizzata. Si prendano ad esempio la sfida globale della migrazione, la sfida europea dell’invecchiamento delle società e la sfida locale della disintegrazione delle comunità: tutte interconnesse tra di loro. L’immigrazione verso l’Europa è un dato di fatto e aumenterà negli anni a venire. Dovremo trovare una risposta europea a questo problema, ma non dobbiamo dimenticare il nostro debito nei confronti delle nostre famiglie e della coesione sociale di ogni comunità locale. Posso capire che alcuni cittadini si sentano persi in un mondo globalizzato, dove le decisioni prese dall’altra parte del pianeta possono influenzare la nostra esistenza quotidiana, ovunque viviamo. In un mondo del genere, in cui il tempo e lo spazio sembrano sospesi, aumenta la tentazione di difendere le identità locali in modo semplicistico. Il nazionalismo, la xenofobia e il populismo sono alcune di queste tentazioni. Dobbiamo combattere tali fenomeni, pur prendendo sul serio le preoccupazioni dei nostri cittadini”.

Lei si è più volte espresso in questi mesi su argomenti cari ai credenti, come i valori etici, la libertà di religione, il sostegno alle famiglie… L’Europa politica, quella di Strasburgo e Bruxelles, è attenta a questi aspetti della vita di ogni giorno?
“Certo che lo siamo. Ci sono problemi che riguardano i cittadini che ci hanno eletto. La libertà di religione è uno dei diritti umani più fondamentali, una delle componenti più intime della dignità umana. Non possiamo rimanere indifferenti quando la gente viene uccisa per ciò in cui crede, non importa se siano cristiani, musulmani, ebrei o agnostici. Quello che è successo alle comunità cristiane in Medio Oriente negli ultimi anni non può essere ignorato. Non vogliamo insegnare niente agli altri paesi, ma dobbiamo prendere le parti degli oppressi e dei vulnerabili. Dobbiamo garantire che i cristiani abbiano un futuro in questa regione, che possano prosperare, che possano vivere dignitosamente e che non abbiano bisogno di fuggire, specialmente perché vi abitano da duemila anni. Questa affermazione comporta, tuttavia, di doverci ispirare ad un esempio. Ricevo gravi lamentele da varie parti d’Europa su come vengano trattati alcuni immigrati. Sono felice che almeno a Roma i musulmani possano praticare il culto in una bella moschea, che è stata visitata negli ultimi anni da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI. Lei ha anche citato il sostegno alle famiglie: questo è un punto fondamentale per noi, in Europa. L’Ue ha rafforzato il principio di sussidiarietà, che è stato messo a punto dalla dottrina sociale della Chiesa, nel Trattato di Lisbona. In base a tale principio, le famiglie sono il cuore stesso di tutta la società umana. Dobbiamo proteggerle e accudirle. Nel suo ristretto ambito di competenza al riguardo, il Parlamento europeo ha fatto molto per migliorare le condizioni lavorative di padri e madri. Soltanto l’anno scorso, l’Europarlamento ha votato a favore di una proroga del permesso di maternità oltre le 14 settimane, che sono attualmente lo standard minimo. I governi nazionali dell’Unione non hanno ancora raggiunto un accordo in merito a tale misura, ma spero che lo facciano presto. In questo contesto, non dobbiamo dimenticare la questione delle pari opportunità tra uomini e donne. I cambiamenti demografici, che ho citato in precedenza, non sono l’unica ragione per cui dobbiamo sbloccare le potenzialità professionali delle donne. Vita professionale e vita familiare non devono essere in contraddizione!”.

Non di rado lei richiama le sue radici, gli anni nella Polonia comunista, l’impegno per ricostruire la libertà e la democrazia… In questi 20 anni com’è cambiata l’Europa dell’est? In Polonia, Ungheria, Estonia o Bulgaria l’opinione pubblica è ancora favorevole all’integrazione comunitaria? Le persone hanno tratto benefici dall’ingresso nell’Ue? E l’Ue potrebbe ingrandirsi ancora? Ci sono cinque paesi candidati all’adesione e altri che bussano alle sue porte…
“Quando ho cominciato la lotta per la libertà nel movimento Solidarność, 31 anni fa, non avrei neppure potuto sognare quello che sarebbe successo. Il fatto che la lotta popolare per la libertà si sia conclusa così presto e con successo ha superato le nostre aspettative più ottimistiche. Chi avrebbe pensato che l’est e l’ovest si sarebbero riuniti? Chi avrebbe pensato che sarebbe caduta la Cortina di ferro? Abbiamo ottenuto così tanto in così poco tempo. Oggi siamo liberi, il nostro destino è nelle nostre mani e siamo orgogliosi di far nuovamente parte della grande famiglia europea. Gli allargamenti dell’Ue sono riusciti a trasformare il nostro continente negli ultimi 20 anni e anche prima, considerando la democratizzazione di Grecia, Portogallo e Spagna negli anni Ottanta. La prospettiva dell’allargamento ha contribuito a stabilire una pace duratura nei Balcani occidentali. Può esserci una sola Europa per tutti! La storia dell’integrazione europea ha mostrato i vantaggi dell’apertura e della solidarietà. Quei valori sono centrali anche per la cristianità. L’Unione crescerà ulteriormente in futuro e dovremo trovare i modi per gestirla. L’Europa è energica, viva e mutevole. È un progetto in costruzione. Tutti i paesi europei hanno la prospettiva di diventare membri dell’Unione, quando saranno pronti”.

L’Ue non deve essere una “fortezza” chiusa in se stessa, ma deve aprirsi alle frontiere globali. Lo hanno più volte ricordato anche i Pontefici e altri leader religiosi. Di recente si sono affrontati, sotto diversi punti di vista, i casi di Egitto, Libia, Tunisia, Sudan, Haiti, Iraq, Pakistan, Medio oriente. In effetti si ha l’impressione che l’Ue stia timidamente acquistando la statura di un protagonista mondiale. Qual è la sua impressione?
“Domanda importantissima! Come ho già detto, l’Europa deve trovare il suo posto nel mondo. Non vogliamo più interpretare soltanto il ruolo di quello che paga, dobbiamo diventare anche protagonisti. In primo luogo, dobbiamo trovare una risposta agli sviluppi dei nostri vicini più prossimi. Gli eventi che si verificano in Libia, Tunisia, Egitto e in tutto il mondo arabo ispirano speranza. Dal primo momento, ho sostenuto in pieno le legittime aspirazioni dei popoli. Come vicini, amici e partner, dobbiamo proteggere i fiori della libertà. Dobbiamo accompagnare i popoli del sud nella lunga strada verso la vera democrazia che stanno così coraggiosamente perseguendo. Desideriamo facilitare la libertà e la prosperità dei paesi nostri vicini. In questo contesto, è più urgente che mai ridefinire la politica europea di vicinato, che attualmente non è all’altezza della sfida. Sottolineo che la delegazione ad hoc dell’Europarlamento è stata la prima missione ufficiale europea a visitare la Tunisia. Ha raccolto informazioni e sta preparando i passi successivi. Abbiamo deciso di inviare un’altra delegazione in Egitto. Il Parlamento europeo ha inoltre chiesto una conferenza internazionale dei donatori per assistere e stabilizzare le giovani forze democratiche dei nostri vicini”.

Infine: se le chiedessimo di inviare un messaggio ai giovani, cosa direbbe loro?
“Non perdete fiducia nel bene che possiamo fare. Non perdete la speranza che questo possa essere realizzato. Voi siete l’Europa e noi abbiamo bisogno che voi sosteniate l’Europa. Non ho dubbi che sappiate perfettamente cosa farne in futuro”.

Intervista a cura di Gianni Borsa
24 febbraio 2011

Tratta da www.agensir.it

martedì 11 gennaio 2011

La Scuola di politica del Centro San Rocco


La politica vive oggi la sollecitazione di sfide inedite e la complessità di crisi radicali: oltre un’attualità spesso urlata e chiusa su se stessa, recuperare una nozione condivisa e partecipata di politica significa intercettare le esigenze di nuove forme di cittadinanza, dare vita ad adeguate modalità di partecipazione, inaugurare spazi in cui tornino a legarsi in maniera feconda diritti dei cittadini e doveri dei governanti, impegno e senso critico, controllo e responsabilità. La Scuola diocesana di politica, che s’inscrive tra le attività promosse dal Centro San Rocco, si propone di fornire gli strumenti concettuali per riscoprire una politica al servizio del bene comune, operare un maturo esercizio di discernimento, formare cittadini laici impegnati nella promozione della persona e nella vita buona della comunità e delle istituzioni.

Le attività della Scuola sono destinate a quanti hanno a cuore il bene della comunità nella quale vivono e in relazione alla quale intendono intraprendere un percorso di formazione e approfondimento, con l’intenzione di lasciarsi coinvolgere e interrogare dalla riflessione e dalla discussione. La quota annuale d’iscrizione è di euro 15, come segno di responsabilità e garanzia dell’impegno dei partecipanti: ciascun iscritto, a fronte di ciò, riceverà del materiale didattico e di approfondimento. L’iscrizione si può effettuare presso la Segreteria del Centro San Rocco o via internet (www.centrosanrocco.it). Il pagamento della quota verrà richiesto al termine del primo incontro. La frequenza per chi s’iscrive è obbligatoria. Il ciclo è anche aperto ad uditori che non possono garantire una presenza a tutti gli incontri. Alla fine del corso verrà rilasciato agli iscritti un attestato di partecipazione.

La Scuola diocesana di formazione all’impegno sociale e politico intende, nella sua prima edizione, mettere a tema un rapporto tornato di stretta attualità, quello tra politica e anti-politica, al fine di dare profondità storica ad una dialettica che sta assumendo oggi toni patologici e recuperare categorie e concetti che permettano di riscoprire le radici e i motivi della buona politica. Avviare un percorso di formazione all’impegno politico nell’epoca del disincanto della politica è la sfida che il centro San Rocco vuole raccogliere nel suo primo anno di vita, provando ad intessere un percorso in cui dare risposta ad alcuni interrogativi radicali: vi è un diritto a disinteressarsi della politica? quale è il luogo migliore per dare giusta voce al dissenso? cosa si intende per buona politica? Quali sono i fondamenti antropologici della politica? cosa si intende per anti-politica? si può parlare di un’anti-politica fisiologica?

Con questo intento nasce un percorso che si radica su una vocazione prioritaria e vive essenzialmente due momenti. La vocazione è quella di offrire occasioni di dialogo, partecipazione e confronto: è per questo che si è cercato di far incontrare esperienze, prospettive e bagagli culturali differenti; è per questo che in ogni appuntamento sarà lasciato ampio spazio al dibattito; è per questo che si è ritenuto prezioso pensare a dei momenti seminariali.

In tal senso si può dire che la scuola avrà una sua fase pubblica, aperta a tutti, che si declina su sei appuntamenti, di cui cinque lezioni magistrali e una tavola rotonda, ma anche una serie di appuntamenti dedicati esclusivamente agli iscritti, che con loro verranno decisi e concordati e che verrano incastonati nel corso dello sviluppo degli incontri del sabato e al loro termine (incontri con amministratori, seminari di approfondimento di alcuni testi, lettura della Parola). In relazione a quest’ultimo aspetto si colloca anche l’idea di offrire del materiale di approfondimento per la lettura a casa, che prevede l’indicazione di alcuni volumi, sui quali si tornerà in uno degli appuntamenti seminariali, ma anche una raccolta di articoli, contributi e saggi, indicati via via dari relatori, che gli iscritti troveranno già inclusi nel pacchetto di materiale didattico che verrà consegnato loro al momento del versamento della quota di iscrizione.

Sabato 29 gennaio - ore 17
Marco Olivetti - Docente di Diritto Costituzionale, Università di Foggia
Attualità e vitalità della Costituzione nell’epoca della sfiducia

Sabato 5 febbraio - ore 17
Marco Cangiotti - Docente di Filosofia Politica, Università di Urbino
Fondamenti antropologici della politica

Sabato 26 febbraio - ore 17
Matteo Truffelli - Docente di Dottrine politiche europee, Università di Parma
Per una storia dell’Italia antipolitica

Sabato 19 marzo - ore 17
Roberto Gatti - Docente di Filosofia politica, Università di Perugia
Il soggetto post-moderno e il declino della politica

Venerdì 25 marzo - ore 17,30
Mons. Arturo Aiello - Vescovo di Teano-Calvi
I cattolici in politica: la spiritualità linfa dell’impegno

Sabato 9 aprile - ore 17
Il civile e il sociale: quale contributo per una buona politica?
Claudio Gentili - Direttore Education di Confindustria
Vinicio Albanesi - Presidente Comunità Capodarco
Mario Dupuis - Fondatore Opera Edimar

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