domenica 21 marzo 2010

Per riflettere... (sul caso Ned a Campiglione)

QUANTO VALE UNA SPERIMENTAZIONE
di Andrea Braconi

(tratto da Corriere News.it)


Ogni fabbrica custodisce le proprie storie. Di lavoro. E di vita. Storie che puoi osservare dai volti. Storie che puoi ascoltare quando i cancelli tornano a chiudersi. Come quelli della Ned Silicon. E proprio dai volti degli operai è necessario partire per riflettere su di un’operazione che nel Fermano continua ad alimentare polemiche.
Le tracce di polvere derivante da carbon black sono lì, tra ciglia e zigomi, a raccontarci la paura di chi, dentro i capannoni dell’ex Sadam, dalla prima metà di febbraio si ritrova a svolgere 3 turni (di 8 ore) da 4 addetti ed un turno (sempre di 8 ore) da 5. Arrivando a lavorare anche 6 giorni su 7. Una produzione a ciclo continuo, finalizzata ad una sperimentazione su silicio per pannelli fotovoltaici.
Sono diciassette vite che in questi ultimi anni non hanno avuto nome e voce. Diciassette vite che sono state spesso strumentalizzate, dai sindacati, dai media e dalla politica.
Ma quel duplice livello di attenzione più volte rimarcato - la salute dei cittadini e quella dei lavoratori - a poche ore dalla manifestazione del 21 marzo torna di drammatica attualità.
Perché le parole hanno un peso. E se da un lato gli abitanti (ri)lanciano le proprie preoccupazioni per le emissioni, dall’altro gli operai qualche segnale di insofferenza - misto a difficoltà di respirazione e catarro color notte - fanno fatica a contenerlo.
Le fiamme che fuoriescono dal forno. Le mazze di ferro che colano. Le maschere di protezione che si deformano per le temperature troppo elevate. Le tute ignifughe che faticano a contenere il calore. L’aspirazione insufficiente a riequilibrare un ambiente avvolto da polveri. Le infiltrazioni di acqua dal tetto di quelli che una volta erano il locali del magazzino dello zucchero. Le difficoltà nella perforazione del foro di colata. E poi uno spogliatoio fatiscente, riscaldato da una semplice stufetta. Con uno scaldabagno che di funzionare proprio non ne vuole sapere.
Neanche stipendi che arrivano a sfiorare i 2.000 euro, frutto di “chiacchierati” accordi per il mantenimento del livello occupazionale, riescono a limitare l’inquietudine di chi in quell’attività non riesce a vedere un futuro. Accordi che in caso di chiusura della stessa Ned prevedono un incentivo all’esodo di 38.000 euro lordi (29.000 per chi interrompe prima il rapporto di lavoro o per chi ha rifiutato la chiamata), ma che nulla sembrano evidenziare sull’eventualità di un trasferimento, più volte paventato dai vertici della società e da esponenti della Regione Marche.
La scadenza del contratto è fissata al 31 maggio. Ma qualcuno sembra intenzionato a gettare la spugna molto prima. A condizioni lavorative precarie e ad una formazione che non riescono a non definire “scadente”, si amalgamano preoccupazioni per uno stato di salute già fortemente condizionato.
Ma una qualsiasi sperimentazione, per quanto strategica, vale tutto questo?

sabato 6 marzo 2010

Quale vulnus? Persino la realpolitk esce sconfitta da questa storia

La domanda mi sembra davvero scoppiettante nella sua semplicità (e forse per questo non è stata ancora posta a voce alta quasi da nessuno): cosa succederà da domani se un singolo finisse per presentare in ritardo una domanda per un concorso pubblico, arrivando venti minuti (o mezz’ora che sia) in ritardo, magari con qualche leggero vizio di forma sulla richiesta? O cosa dovrebbe avvenire (approssimandoci ad un caso analogo) nel più piccolo dei comuni del nostro paese se, alle elezioni comunali, una lista arrivasse fuori tempo o motivo massimo alla scadenza naturale e legale?
Al di là di Dl attuativi, interpretativi o altro (incluse le regolamentazioni costituzionali che regolano le firme del Capo dello Stato), mi sembra che il vero vulnus di tutta questa storia, trascurato in nome di una realpolitik che guarda alle reazioni dei cittadini solo quando divengono pericoloso strumento di intimidazione, è la riproposizione della distinzione pericolosa tra democrazia formale e democrazia sostanziale risolta dall’agghiacciante “argomento dei numeri”. Perché è questo a cui stiamo assistendo: la cancellazione delle regole in nome del peso numerico-politico. Si sarebbe avuta la stessa movimentazione pubblica e politica a parti invertite, ovvero se fossero stati, ad esempio, i radicali a combinare il pasticcio che in ben due regioni il PDl ha commesso?
Ritengo che quanto avvenuto in questi giorni sia metafora di molte degenerazioni della politica, ma in assoluto che introduca un precedente che “farà” inevitabilmente e pericolosamente costume.
Un precedente cioè che lascia passare, tra l’altro, due principi sinceramente un po’ strani: innanzitutto quello secondo cui le regole formali sarebbero fittizie, retoriche e barocche, nonché valide solo nel caso in cui non siano rispettate da altri; in secondo luogo quello secondo cui non è più l’elezione che si deve svolgere a decidere la forza di un partito, ma l’elezione precedente o il fatto che sia al governo (fino a prova contraria fino all'election day non si sa ancora quanti voteranno il partito X). Dato che in questa caso sarebbe rimasta fuori una parte notevole di elettori (sulla base dell’esito elettorale precedente, per l’appunto), la regola deve passare in secondo piano? La sostanza (ma, poi, al di là dei termini, di quale sostanza parliamo?) deve vincere sulla forma (pensi bene il nostro Presidente del Senato, seconda carica dello Stato, quando pronuncia queste parole, che la sua stessa carica è investita di formalità, che le sue parole devono essere esempio di rigore istituzionale e che la forma, quando si tratta di regole, e ancora più di leggi, non è retorica, ma spesso già sostanza)?
Altra trascurata declinazione poco confortante. Siamo di fronte nuovamente al crollo politico di ogni vincolo di responsabilità della classe dirigente nei confronti del suo elettorato (nient'altro che una delle manifestazioni concrete della crisi dei partiti): se i dirigenti di un partito hanno infatti delle cariche, queste comportano non solo onori, ma oneri, tra i quali quello di dovere testimoniare e spiegare alla propria base il perché, a causa di un proprio errore, quella stessa base sarà privata della possibilità di votare un proprio rappresentante. Testimonianza ulteriore, tra l’altro, di quanto il cordone ombelicale tra rappresentanti e rappresentati oggi non esista più e sia fittizio (solo evocato durante le elezioni, perfino dimenticato durante le legislature, strumentalmente richiamato nei casi tristi di questi giorni).
E se addirittura volessimo scendere da queste pure, asettiche, utopiche e improponibili considerazioni teoriche al piano della realpolitik , tanto invocata in queste ore (punto di partenza della stessa predisposizione al dialogo del Presidente Napolitano, al quale per autorevolezza mi rimetto), ci troveremmo di fronte ad un partito che, approfittando di un cavillo interpretativo e sventolando - stavolta guarda caso sì - la firma del Capo dello Stato, non compie nemmeno il minimo sindacale dei passi, ovvero, visto che si parla delle regole di tutti, provare a trovare una convergenza con le altre forze politiche (le quali, nel nome della medesima realpolitik o in assenza di una loro proposta concreta o in prospettiva di qualche loro errore futuro, senz'altro ne avrebbero discusso).
E se non c’è l’accortezza, nemmeno simbolica, di lanciare al paese il messaggio che sulle regole si decide tutti insieme; se non c'è la levatura politica di capire che qualora un governo decida unilateralmente su queste vicende finisce per rivelare in maniera esplicita la totale coincidenza e indistinzione tra maggioranza e organi istituzionali, come possiamo aspettarci che vengano ammessi pubblicamente gli errori e i responsabili ne chiedano pubblicamente scusa, per lo meno ai propri elettori (non a tutti, ci mancherebbe)?

Una spiegazione "economica" della crisi dei partiti

Loretta Napoleoni

Partiti in vendita


(tratto da Internazionale, del 5 marzo 2010)

In passato la politica era finanziata dai tesseramenti. Oggi dipende da sponsor a cui è difficile dire di no.

Ormai in occidente la politica è un prodotto come tanti altri: viene venduto attraverso gli spot pubblicitari, con l’aiuto di uomini e donne (poche) che recitano un copione scritto da una raffinata macchina della propaganda. Gli acquirenti naturalmente siamo noi, i cittadini consumatori. Lo scopo? I soldi più che il potere.

Sembrano frasi rubate alla versione moderna del capolavoro di George Orwell, 1984, dove il Grande Fratello (non quello televisivo) condiziona i cittadini attraverso il marketing. Invece sono le tristi constatazioni che fanno ogni giorno moltissimi occidentali.

Come siamo arrivati a questo punto? La risposta va cercata nei meccanismi di finanziamento dei partiti. Trent’anni fa si basavano quasi esclusivamente sul contributo degli iscritti. Alla fine degli anni ottanta il peso del tesseramento è sceso al 50 per cento e oggi è meno del 10 per cento. Nel 2004 più di un quarto delle entrate dei laburisti britannici – all’epoca il più grande partito della sinistra europea – proveniva dalle donazioni di 37 grandi sponsor, tra cui il magnate dell’acciaio Lakshimi Mittal. Solo l’8 per cento dei finanziamenti era garantito dal contributo degli iscritti.

I partiti somigliano sempre più a un’azienda e sempre meno a un’organizzazione che ha un programma politico. Questo spiega perché nel 1999 la Enron ha finanziato metà della campagna elettorale di George W. Bush. In cambio, una volta eletto, Bush ha concesso al gruppo energetico la tanto desiderata deregulation del settore. Il principio della democrazia mercato è quindi il classico do ut des, anche quando il baratto costringe il partito a contraddire il suo programma.

Naturalmente chi decide sono i leader. Nel 1997 Bernie Ecclestone, il capo della Formula 1, donò a Tony Blair un milione di sterline. In cambio il leader laburista gli permise di pubblicizzare le sigarette durante le gare automobilistiche in Gran Bretagna, anche se era vietato dalla legge e il New Labour era sempre stato contrario.

Thatcher e Reagan
È stata la rivoluzione neoliberista di Margaret Thatcher e Ronald Reagan a dare il via alla metamorfosi dei partiti. Li ha spogliati della componente popolare per trasformarli in macchine da guerra nelle mani di un’élite. In tutto l’occidente la base si è ristretta e la cupola si è rafforzata. Tra il 1978 e il 1999 i partiti francesi hanno perso il 64,5 per cento degli iscritti, pari a circa un milione di persone, mentre il numero dei tesserati nei partiti italiani e britannici si è dimezzato.

I politici moderni preferiscono gestire gli sponsor invece che gli iscritti al partito. E più gli sponsor sono ricchi, meno sono i controlli sull’origine dei fondi elargiti. Qualche anno fa l’intera giunta comunale di Marbella, in Spagna, fu arrestata perché, in cambio di ricchi finanziamenti, aveva concesso licenze edilizie a società che riciclavano il denaro sporco della mafia russa e truffavano i compratori degli immobili. Da anni i parlamenti e le democrazie occidentali sanno di essere minacciati da questi cambiamenti, ma non hanno la forza di contrastarli.

Nel 2006 la relazione della commissione parlamentare britannica sul finanziamento dei partiti affermava: “Il sistema che ha mantenuto in vita i partiti per più di un secolo si sta disgregando. Da quando il numero degli iscritti ha cominciato a calare i partiti sono diventati dipendenti dalle donazioni dei privati per finanziare le loro campagne elettorali”.

Struttura personale
La messa in vendita del partito al miglior offerente corrode la democrazia rappresentativa e di massa perché il partito-azienda è ormai una struttura politica ed economica “personale”, che tutela esclusivamente gli interessi dei politici e dei loro sponsor.

Il Popolo della libertà di Silvio Berlusconi ne è l’esempio migliore. Il premier lo finanzia quasi per intero e il partito promuove i suoi interessi e quelli dei suoi collaboratori, per esempio attraverso le leggi ad personam. Così David Mills evita il carcere per una serie di nuovi cavilli legislativi e intanto la protezione civile è diventata un vespaio di tangenti per gli esponenti del partito.

Dai tempi di Mani pulite il marketing della politica si è raffinato al punto che oggi “corruzione” è sinonimo di “sponsorizzazione”. Purtroppo i cittadini non hanno gli strumenti per opporsi, perché non dialogano più con il loro partito. Ecco perché Bush e Blair sono stati rieletti anche se tutti sapevano che avevano fatto dei favori ai loro sponsor.

E allora perché ci meravigliamo degli scandali delle ultime settimane? Da vent’anni le democrazie occidentali sono gestite da partiti e leader politici che si ispirano ai modelli del terzo mondo, dove i politici vendono favori al miglior offerente per finanziare costosissime campagne elettorali, inutili centri di ricerca e, perché no, anche appartamenti di lusso e barche principesche. Il tutto alla luce del sole. In confronto Bettino Craxi era un dilettante e tangentopoli una fiction.

Loretta Napoleoni è un’economista italiana che vive a Londra. Il suo ultimo libro è La morsa. Le vere ragioni della crisi mondiale (altri articoli di Loretta Napoleoni per Internazionale).

La scena e il laboratorio

La Regione dei cento teatri è di nuovo vicina all’appuntamento elettorale che dovrà decidere a chi spetta governarla nel prossimo quinquennio: non intendo entrare nel merito del valore umano e politico dei due principali candidati alla poltrona di governatore, Spacca e Marinelli; finirò per rispettare la par-condicio di questo periodo (almeno per quel che merita nel principio che la anima, tralasciando le derive delle ultime settimane – esempio televisivo in primis – in cui ci è stato data l’ennesima dimostrazione di cosa combina la tecnica quando non è governata da persone autorevoli e principi di spessore). Il senso di queste righe è infatti rendere esplicita una trasversale delusione, che, al momento, riguarda centro-destra e centro-sinistra su due ambiti differenti e per motivi diversi, ma tragicamente connessi ad alcune grandi voragini della politica nazionale.
Scrive Ilvo Diamanti ne La Repubblica del 14 febbraio scorso: “Perché oggi la metafora più adeguata per descrivere il sistema della rappresentanza (ben delineata dal filosofo Bernard Manin) richiama la "scena", dove si confrontano gli attori e il pubblico. Il quale può, certamente, decretare il successo oppure il decesso di un programma e (simbolicamente) di un attore. Ma, appunto, non è lui a decidere i palinsesti. Perché può solo reagire a un'offerta elaborata dall'esterno. A cui non partecipa”. Purtroppo, ma forse non paradossalmente, il candidato Marinelli ha dato alla luce il proprio slogan elettorale un po’ di tempo prima dell’analisi di Diamanti e non so se si sarebbe sentito di sposarlo ugualmente dopo queste parole (che costituiscono per certi versi l’alter ego “a sinistra” della plastica che si scioglie del “più liberale” Galli Della Loggia), ma, a questo punto, quello che davvero risulta rivelatore e imbarazzante è proprio lo slogan del centro-destra marchigiano: ”Insieme a voi per cambiare la scena”. Tana per Diamanti o per Marinelli? Senz’altro il sottoscritto spesso esagera nelle sottigliezze, ma ritengo più che emblematico di un certo stato sonnacchioso della coscienza civile della classe dirigente del nostro paese e in questo caso del centro-destra della nostra regione aver accettato e promosso uno slogan di questo tipo, di fronte al quale le alternative sono difficilmente più di due: o le parole non hanno più alcun significato o è oramai definitivamente sdoganata la simbiosi tra politica e scenografia, tra programma e sceneggiatura, tra protagonisti e attori, tra realtà e rappresentazione (quanta lucidità, quindi, in realtà, nelle parole di Diamanti).
Ma la “scena” della nostra Regione è anche quella di un “laboratorio”, in cui la politica nazionale ha deciso che, indipendentemente da molte realtà locali, si dovesse imporre una decisione emersa dai direttivi romani, al di là della coerenza, attenzione e continuità nei confronti della situazione e recente storia politica locale. E così i vertici del Partito Democratico hanno deciso che dovesse prevalere la linea dell’accordo con l’Udc, alla faccia dei quindici anni di governo ampio e positivo anche con la “sinistra più a sinistra”: non intendo con questo dire che non di debba sperimentare un nuovo dialogo con chi ha capito finalmente, con qualche anno di ritardo, cosa abbia significato per questo paese il berlusconismo, ma penso che il Partito Democratico – che partito ancora non è – continua a non avere la forza, l’autorevolezza, la dignità e gli argomenti per essere traino nei confronti di altre eventuali forze della coalizione/opposizione: se nel Lazio si è fatto scegliere il candidato da una battuta che forse la stessa Bonino faceva fatica a pensare che potesse diventare qualcosa di serio (senza primarie e senza un minimo dibattito pubblico), nelle Marche ha subito una scelta, facendo prevalere i conti matematici a tavolino sulla propria capacità di farsi protagonista e garante della forza di una coalizione più ampia (nell’incapacità di decidere se andare da soli e nell’incapacità di offrire una piattaforma programmatica ampia e attraente, ne segue la triste situazione di essere sempre sotto una sorta di “ricatto elettorale”: i numeri vincono sulla sostanza – come è ovvio che sia quando la sostanza non c’è). Non mi interessa qui affrontare la cancerogena voglia di scissione della sinistra radicale né il balbettio nazionale del partito di Casini, ma la grande nota politica che mi sta più a cuore è che il PD, che a Roma non sa dettare una politica nazionale, nelle Marche ne impone una locale costruita tutta sui numeri (di carta) piuttosto che capacità catalizzatrici.
Cosa ne resta? Da un lato la “scena” di ciò che la politica non si vergogna di dichiarare quando la rappresentanza diviene rappresentazione e dall’altro il “laboratorio” di ciò che la politica finisce inevitabilmente per essere quando si spera che l’esperimento produca da sé un’ipotesi (e non viceversa).

mercoledì 3 marzo 2010

Un Galli della Loggia come spesso obiettivo e come non mai duro

LA CRISI D’IDENTITA’ DEL PDL
Il fantasma di un partito

(Corriere della Sera, 3 marzo 2010)


La plastica si sta squagliando? Sembrerebbe. Certo è che coloro che si erano illusi dopo le elezioni del 2008 che il Pdl fosse diventato un partito più o meno vero, qualcosa di più di una lista elettorale, sono costretti ora a ricredersi. Non era qualcosa di più: spesso, troppo spesso, era qualcosa di peggio. Una corte, è stato autorevolmente detto.

Ma a quel che è dato vedere pare piuttosto una somma di rissosi potentati locali riuniti intorno a figuranti di terz’ordine, rimasuglio delle oligarchie e dei quadri dei partiti di governo della prima Repubblica. E tra loro, mischiati alla rinfusa — specie nel Mezzogiorno, che in questo caso comincia dal Lazio e da Roma— gente dai dubbi precedenti, ragazze troppo avvenenti, figli e nipoti, genti d’ogni risma ma di nessuna capacità. E’ per l’appunto tra queste fila che a partire dalla primavera dell’anno scorso si stanno ordendo a ripetizione intrighi, organizzando giochi e delazioni, quando non vere e proprie congiure (e dunque non mi riferisco certo all’azione del Presidente Fini, il quale, invece, si è sempre mosso allo scoperto parlando ad alta voce), allo scopo di trovarsi pronti, con i collegamenti giusti, quando sarà giunto il momento, da molti dei cortigiani giudicato imminente, in cui l’Augusto sarà costretto in un modo o nell’altro a lasciare il potere.

Da quel che si può capire, e soprattutto si mormora, sono mesi, diciamo dalla famigerata notte di Casoria, che le maggiori insidie vengono a Berlusconi e al suo governo non già dall’opposizione ma proprio dalla sua stessa parte, se non addirittura dalle stesse cerchie a lui più vicine. Al di là di ogni giudizio morale tutto ciò non fa che mettere in luce un problema importante: perché mai la destra italiana, durante la bellezza di quindici anni, e pur in condizioni così favorevoli, non è riuscita che a mettere insieme la confusa accozzaglia che vediamo? Perché non è riuscita a dare alla parte del Paese che la segue, e che tra l’altro è quasi sicuramente maggioritaria sul piano quantitativo, niente altro che questa misera rappresentanza? Certo, hanno influito di sicuro la leadership di Berlusconi e la sua personalità.

Il comando berlusconiano, infatti, corazzato di un inaudito potere mediatico- finanziario, non era tale da poter avere rivali di sorta assicurandosi così un dominio incontrastato che almeno pubblicamente ha finora messo sempre tutto e tutti a tacere; la personalità del premier, infine, ha mostrato tutta la sua congenita, insuperabile estraneità all’universo della politica modernamente inteso. E dunque anche alla costruzione di un partito. La politica, infatti, non è vincere le elezioni e poi comandare, come sembra credere il nostro presidente del Consiglio ; è prima avere un’idea, poi certo vincere le elezioni, ma dopo anche convincere un paese e infine avere il gusto e la capacità di governare: tutte cose a cui Berlusconi, invece, non sembra particolarmente interessato e per le quali, forse, un partito non è inutile.

Ma se è vero che il potere e la personalità del leader sono state un elemento decisivo nell’impedire che la Destra esprimesse niente altro che Forza Italia e il Pdl, è anche vero che né l’uno né l’altra esauriscono il problema. Che rimanda invece a caratteristiche di fondo della società italiana che come tali riguardano tanto la Destra che la Sinistra. In realtà, il verificarsi simultaneo della caduta del Muro di Berlino e di Mani pulite ha significato la fine virtuale di tutte le culture politiche che la modernità italiana era riuscita a mettere in campo nel Novecento (quella fascista avendo già fatto naufragio nel ’45). È quindi rimasto un vuoto che il Paese non è riuscito a colmare. Non si è affacciata sulla scena nessuna visione per l’avvenire, nessuna idea nuova, nessun’indicazione significativa, nessuna nuova energia realmente politica è scesa in campo. Niente.

Il risultato è che in Italia i capi politici più giovani hanno come minimo superato la cinquantina. Ma naturalmente il vuoto è più sensibile a destra, e più sensibili ne sono gli effetti negativi, perché lì la storia dell’Italia repubblicana non ha costruito nulla e dunque non ha potuto lasciare alcun deposito; che invece è rimasto solo nel centro-sinistra, erede di un ininterrotto sessantennio di governo del Paese tanto al centro che alla periferia. Così come nel centro-sinistra sono rimasti quasi tutti i vertici della classe politica che fu cattolica o comunista, portando in dote la propria esperienza e le proprie capacità. Mentre alla Destra è toccato solo il resto: a cui poi, per il sopraggiunto, generale, discredito della politica, non si è certo aggiunto il meglio del Paese.

Ernesto Galli della Loggia

Post-scriptum personale:
il grassetto nell'articolo è mio e richiama due questioni alle quali sono molto legato, ovvero la politica del fare (e non del progettare) e la politica del leader (e non di un'intera classe dirigente), che mi fa piacere ritrovare in questo testo: l'idea che la politica non sia tecnica di acquisto di consenso, ma coerenza di proposizione di un progetto (è necessario lo sforzo di immaginare e prospettare una realtà, mentre non può bastare spacciarsi per creativi del fare); lo stretto legame che alla fine si è costituito tra il Centro-Destra berlusconiano e il Centro-Sinistra senza idee e blocca il nostro paese (una rincorsa reciproca sul vuoto, essenziale al procastinarsi di entrambi, e in fondo in fondo il reciproco appiattimento intorno alla politica del leader: da un lato sicuramente trovato, ma soffocante nella sua presenza autoreferenziale; dall'altro erroneamente agognato, e alibi di una ingiustificata lontananza dalla realtà)