martedì 27 ottobre 2009

Il verde e le luci


Piccolo diario di sensazioni frammentate dagli Stati Uniti
(per lo più “solo” in viaggio di nozze) / 2


Fatta la tara al fatto che New York sa davvero poco di Stati Uniti (sia perché come ci ha detto bene la nostra simpatica guida italiana per un giorno è più un palcoscenico – finanziario, modaiolo, vipparolo – che altro, sia perché il territorio a stelle e strisce è talmente vasto e diversificato che mi sa tanto che sarà difficile averne un’idea e un’immagine unitaria e coerente – altra contraddittorietà che emerge) e preso un po’ come punto di osservazione e di partenza il nostro albergo molto centrale, sulla settima strada, la prospettiva sull’ambizione statunitense di conciliare l’inconciliabile, di far convivere gli opposti, di costruire contraddizioni è davvero illuminante: usciamo dalla nostra stanza, scendiamo dal quindicesimo piano e che succede? Succede che se guardo di fronte a me trovo la Carnegie Hall, ovvero il tempio della musica classica e speranzoso punto di arrivo per molti curricula prestigiosi di orchestrali, concertisti, direttori di orchestra, mentre se mi giro a 180° trovo dietro di me la Broadway, ovvero la via del musical e il centro dei balletti e delle scenografie tutte post-moderne; ma non basta: perché se guardo alla mia destra (e quindi a sud) trovo le luci stroboscopiche e accecanti di Time Square, il cuore artificiale dell’artificiosa Manhanttan, mentre se guardo alla mia sinistra (e quindi a nord) trovo i chilometri rasserenanti della distesa verde di Central Park (il cuore naturale dentro l’artificiale). Che dire? Tutto in un amen.
Da un lato uno dei luoghi in cui e tramite cui New York ha deciso che si potesse accreditare nei confronti di tutta una tradizione musicale europea, divenendo la vetrina prestigiosa ed ambita della concertistica mondiale; dall’altro uno dei luoghi in cui e tramite cui New York ha deciso che potesse spargere nel mondo uno dei segni più tipici della propria produzione e creazione musicale, il musical; da un lato l’austerità e la compostezza di uno dei luoghi sacri della musica classica mondiale; dall’altro una delle più antiche vie della città adibita a lustri e cartellonistica pubblicitaria di dimensioni quasi pacchiane. “Sopra” il polmone verde di Manhattan, che ti accoglie e in un attimo ti isola da suoni e contemporaneità e ti abbraccia in un’atmosfera che non pensi di poter trovare tutta e proprio lì; “sotto” un mastodontico incrocio di strade che aspira a diventare piazza, ma che ti soffoca per luci, rumori, persone e un pesantissimo affascinantissimo sostanziale vuoto;
“sopra” un’oasi dove ricordarsi che il mondo nasce verde e pacifico; “sotto” un’icona dove ammonirsi che il mondo può diventare digitale e asettico.
A congiungere tutto ciò distese di strade mastodontiche, puntellate di giallo taxi, larghe e dense, ordinate e confuse, in cui si unisce un’orizzontalità polimorfa e distratta – quella di visi provenienti da tutto il mondo, che non parlano, corrono e sembrano pensare solo a se stessi, ignari dell’occasione unica che vivono, e cioè quella di costituire carnalmente e concretamente il melting-pot – e la verticalità di grattacieli enormi, che impediscono al sole di parlare in maniera normale, ma che a te dicono molte cose, talmente tante che si fa fatica a riordinarle – ma tutte racchiudibili entro la coordinata del senso di potenza dell’uomo contemporaneo, che li ha saputi concepire e costruire, e la coordinata del senso di isolamento dell’uomo contemporaneo, che vi dimora senza più sapere troppo bene che cosa significhi oggi abitare realmente un luogo.

domenica 11 ottobre 2009

L’APPELLO AL POPOLO: IL TERMOMETRO DI UNA DEMOCRAZIA MALATA

Sono giorni molto delicati per il nostro Paese, perché ad una lunga congiuntura di profonda recessione e crisi economica (oramai dilagante e percepibile ad occhio nudo da tutti - checché ne dicano tv e politici) e ad un’improvvisa situazione di catastrofi e rigurgiti idro-sismo-geologici (quanta responsabilità alla natura e quanta colpevolezza all’uomo?) si somma un quadro politico triste e sconvolgente, fumoso e affumicato, esasperato ed esagerato, ma soprattutto pericoloso ed emblematico: pericoloso perché molto più esplosivo e rischioso di quanto l’opinione pubblica sia consapevole, così “costretta a limitarsi” a scandali e processi, congressi e primarie, invece che “allenata ad analizzare” proposte ed idee, provvedimenti e risanamenti; emblematico perché riconsegna una certa strutturale difficoltà delle democrazie odierne, sempre meno facilmente strumento di buon governo e sempre più terribilmente lontane dalle esigenze della gente, o meglio del popolo.
Il popolo, forse uno dei nodi della questione, quello sul quale vorrei un secondo richiamare l’attenzione, perché emblematicamente uno dei sintomi più eclatanti di questa crisi: sarà un caso infatti che da sinistra a destra, con motivazione molto diverse e per questioni e finalità quasi opposte, ci si appelli in continuazione proprio al popolo?
Dal lato del centro-sinistra, il popolo convocato ma frustrato dalla democrazia: un centro-sinistra, quello rappresentato dal Partito Democratico, al quale resta solo un certo esercizio democratico interno al partito, accanto all’incapacità di parlare realmente al popolo al di fuori di esso e attraverso di esso.
Dal lato del centro-destra, il popolo appellato quale protagonista unico (assoluto) della democrazia: un centro-destra, quello rappresentato dal Popolo della Libertà, che sa toccare le corde del popolo, ma che rischia al momento, con il suo leader, di innalzare la democrazia dei numeri sopra quella delle istituzioni.
Che situazione anomala!
Il partito che ha la maggioranza nel paese, che ancora fatica ad essere realmente partito, ad esercitare l’esercizio della democrazia interna, ha un leader acclamato e conclamato, certo e stabile da anni, da più di un anno di nuovo Presidente del Consiglio: a tal punto però che proprio il potere dei numeri, l’esasperazione e l’esaltazione del consenso popolare stanno divenendo l’unico criterio in una deriva che sta opponendo terribilmente governo e stato, popolo ed istituzioni, istituzioni di esercizio del potere ed istituzioni di garanzia del potere. La delegittimazione della terzietà, l’attacco all’imparzialità condotti in nome del riscontro elettorale, delle percentuali di sondaggio e del successo popolare: quale democrazia può oggi permettersi, senza farsi educare dalla storia, che il suo unico criterio di legittimazione sia il risultato dell’urna, fino al punto da essere superiore ad ogni figura ed ordine di garanzia?
Il partito che ha la maggioranza tra le opposizioni, che ancora fatica ad essere realmente un partito, soffocato da discordie che rendono esasperante l’esercizio della democrazia interna, senza un leader legittimato e con il vizio di “uccidere” ognuno che sembra poter avere effettivamente quel ruolo: a tal punto però che proprio la convocazione popolare gli rimane come l’unica testimonianza della propria esistenza; il continuo ricorso a meccanismi di elezione interna e il nuovo ma già troppo spesso utilizzato appello alle primarie come testimonianza della propria democraticità, che finisce però per essere una trappola della propria vitalità. Il ricorso al voto interno e all’appoggio esterno condotti in nome di una trasparenza che rischia di finire per essere l’unico pregio, quasi secondario rispetto all’incapacità cronica di dare un esito adeguato al riscontro: quale seguito può avere un partito che si candida a governare il paese senza essere in grado di governare se stesso? Quale valore ha il continuo appello all’esercizio della democrazia per darsi un organigramma, se poi si è la causa di una stanchezza nei confronti dei medesimi esercizi democratici per una sempre più cronica incapacità di parlare con voce forte e credibile sui problemi della nostra Italia?
Un paradosso davvero simpatico: l’appello al popolo che accomuna due storie e due percorsi così differenti e che per entrambi ci rivela quanto esso solo non debba e non possa bastare per arrogarsi il diritto della democrazia, laddove non sia temperato, in un caso, dal rispetto degli organi garanti dello Stato, dall’intoccabilità di una carta meravigliosa e forse mai realmente realizzata e dall’abbandono di ogni deriva personalistica e, nell’altro, dal riconoscimento dell’esito di un percorso, dall’abbandono di ogni rivalità interna e da un’effettiva chiara e coerente identità politica.
Una paradosso ancora più simpatico se ci accorgiamo che, in un verso o nell’altro, in realtà, oggi, la democrazia si appella al popolo per legittimare o chiedere sempre o comunque soltanto un leader.

IL PREMIO DELLA/ALLA SPERANZA. IL NOBEL AD OBAMA

Due premesse prima di iniziare il tutto.
Premessa1: in effetti un po’ di perplessità questa scelta l’ha lasciata anche a me, nonostante del premiato sia un fan accanito; dato infatti che viviamo in un mondo in cui la poesia risulta perennemente scalzata dalla prosa, forse vale più il giudizio del Times – “intento palesemente politico e di parte” – che mille suggestioni.
Premessa2: non faccio neppure troppa fatica a pensare che questa decisione sia quantomeno prematura; non male il commento a tal proposito del vicedirettore del Wall Street Journal Europe Iain Martin: “è assolutamente bizzarro. Obama non ha fatto la pace con nessuno se non forse con Hillary Clinton”.

Comunque, provando a “fantasticare” un po’ e ad abbandonare chissà quali dietrologie possibili, mi immergo nel mio sogno e nel paio di considerazioni in merito all’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Barack Obamache che in un certo qual modo nobilitano e rendono affascinante la scommessa dell’accademia svedese.
Provo ad illustrarle anche citando qualche passo.

a) “sforzi straordinari nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”.
Il primo motivo suggestivo è proprio il destinatario, ma non nella sua persona, quanto nella sua carica. Non è senz’altro la prima volta che questo riconoscimento viene affidato ad un uomo politico, ma il fatto che avvenga per l’ennesima volta ha il pregio di riconsegnare la politica alla sua vocazione autentica e alla sua dimensione progettuale, scalzandola da biechi provinciali battibecchi personali, innalzandola da quelle logiche di mercato alle quali troppo spesso si piega, mettendo in secondo piano la sua ineliminabile componente demoniaca, elevandola alla sua identità più propria e appropriata. La politica è idea e disegno di un mondo e di una società nuovi, è l’espressione pratica della relazionalità intrinseca che caratterizza la natura umana, è sguardo sul futuro, è responsabilità nei confronti delle generazioni successive, è opera di coordinamento e dialogo tra classi, culture, convinzioni, è tentativo instancabile di far prevalere la socialità sull’aggressività. Il Premio Nobel per la Pace assegnato ad un uomo politico – e all’uomo politico più potente del mondo – riconsegna centralità ad una certa visione della politica e veste di nuova dignità la missione di ogni uomo di potere: da questo punto di vista dunque – e forse di più ancora per noi italiani, in questo triste momento di eruzioni diffuse, in cui ci assale un magma incandescente che fagocita pubblico e privato, prepotenza e attacco alle istituzioni, invocazione ai numeri e scontri verbali – esso costituisce forse un’occasione propizia per tessere insieme, in maniera nuova e più convinta, due dimensioni troppo spesso divergenti: quella della teoria politica e quella della prassi politica. Il Premio Nobel per la Pace al più potente uomo politico ci ricorda che il progetto di concordia tra i popoli è alla base di ogni politica internazionale e che il potere trova la propria sana legittimazione solo laddove è ricontestualizzato all’interno di una finalità più ampia, volta a fortificare legami autentici e permettere equilibri buoni, sani e giusti.

b) “Solo raramente una persona come Obama ha catturato l'attenzione del mondo e dato al suo popolo la speranza di un futuro migliore […]. È giunto il momento per tutti noi di assumerci la nostra parte di responsabilità per una risposta globale alle sfide globali”.
Il secondo è legato alla motivazione. Sarà idealistico, o addirittura utopico, sarà superficiale, o addirittura epidermico pensarlo, ma sentire – almeno nella memoria del sottoscritto per la prima volta – assegnare un riconoscimento così prestigioso alla speranza, non nascondo che mi ha fatto qualcosa di più di un certo effetto. Non sono i risultati a contare, non è quanto si è fatto già, ma i disegni di speranza che Obama ha tratteggiato e presentato al mondo, illustrandoli sempre al plurale e presentandoli come la scommessa laica alla quale il mondo intero è chiamato a guardare. Eccolo probabilmente il vero cuore dell’assegnazione: qualcuno ha riattivato e rianimato il fiume in secca della speranza terrena e globale, ha saputo trovare nuove sorgenti per rimpolparlo e ha saputo tracciargli un letto tale da riportarlo alla luce di fronte al mondo. Un nuovo sguardo sul futuro, un nuovo capitolo per la storia, un nuovo “noi” pronto a guardare oltre i propri tanti piccoli ed egoistici “sé”.
Un investimento che è un’investitura, certo – e che sotto questo punto di vista può suscitare qualche critica –, ma come ogni investitura porta con sé delle responsabilità, che costituiscono forse l’ancora di salvezza che evita in ultima istanza a questo premio di essere solo retorica e lo trasformano immediatamente in un onere etico e politico: da oggi Obama dovrà agire non soltanto da Presidente degli Stati Uniti, non soltanto da icona di un cambiamento, ma da detentore di un Premio che lo “condanna” a meritarlo quotidianamente e lo “costringe” non più soltanto ad unire i cuori ed i sogni di molti, ma a lavorare realmente per la pace di tutti…

…ed ora che mi sono svegliato dal sogno di queste belle idee, potranno dirmi che oscuri poteri forti hanno nella realtà manovrato affinché ciò avvenisse per motivazioni che solo loro sanno, ma forte del bel sogno di questa notte provo ugualmente ad ampliare il mio bacino di speranza e ad assumermi la mia dose di responsabilità.