martedì 21 dicembre 2010

TANTISSIMI CARI, VERI E PIENI AUGURI DI BUON NATALE

Un augurio un po' particolare, che trova voce nelle belle parole della Comunità di Taizé:
un augurio rivolto a chi è ancora ragazzo fuori e a chi non smette di esserlo dentro,
un augurio di rinascita ed entusiasmo ad una generazione di ragazzi che fatica a vedere nitidamente il futuro,
un augurio di coraggio e sapienza ad una generazione che è stata giovane e che ora è chiamata ad accompagnare i giovani!!
Buona Natale, di cuore!!


Beati Noi Ragazzi
Se avremo il coraggio dell'autenticità
quando falsità e compromesso
sono più comodi: la verità ci renderà liberi.
Se costruiremo la giovinezza
nel rispetto della vita e nell'attenzione dell'uomo
in un mondo malato d'egoismo:
daremo testimonianza di amore.
Se, in una società deturpata dall' odio e dalla violenza,
sapremo accogliere e amare tutti,
saremo costruttori e artigiani della pace:
"I giovani e la pace camminano insieme".
Se sapremo rimboccarci le maniche
davanti al male, al dolore, alla disperazione:
saremo, come Maria, presenza amica e discreta
che si dona gratuitamente.
Se avremo il coraggio di dire in famiglia, nella scuola,
tra gli amici che Cristo é la certezza:
saremo sale della terra.
(Comunità di Taizè)

venerdì 26 novembre 2010

ULTIMA PUNTATA DEL PICCOLO DISPERATO DIZIONARIO DEMAGOGICO DELL’UNIVERSITA’ - LETTERE "S", "T", "U", "Z"

Pubblico "a puntate" un testo meraviglioso che mi è capitato sotto mano, che mettendo a frutto la dote unica dell'ironia, ci regala una pittura dello stato di degrado dell'italico mondo accademico.

Avvertenza
Si propone all’attenzione del pubblico un nuovo e pratico ausilio lessicale, pensato e realizzato per venire incontro alle esigenze delle giovani generazioni, che si sono trovate ad affrontare la bagarre della protesta senza un efficace supporto terminologico. Gli autori nutrono qualche speranza che i lettori comprendano che il Piccolo Dizionario diventa tanto più demagogico quanto più essi stessi sono disperati. E, comprendendo, perdonino.
(G. Azzena, M. Rendeli)

sapere (inutile): quello che non produce immediato indotto economico. Oppure: tutte quelle materie che, sottoposte al vaglio del Mìnistro Gèlmini (o, in sua vece, ad Emma Marcegaglia) le risultano ostiche, quando non ignote (ad es. glottologia, paleografia, filologia romanza, papirologia ecc.)

sinistra, le 10 proposte del PD: articolazione maldestra di finta intenzionalità, per di più tardiva.

studio, studiare…: attività propria di giovani e meno giovani generazioni di “fannulloni” che perdono tempo in attività economicamente non remunerative, strappando altresì, con crudeltà, braccia all’agricoltura (e alla pastorizia: così anche Gavino Ledda, nell’ultima intervista a La Repubblica). L’esito di questa disdicevole attività è presente sub voce sapere e cultura. In tempi lontani, cronologicamente non quantificabili, tale attività era mostrata attraverso l’esempio (v.) offerto dai maestri (forse anche baroni, ma pur sempre maestri…) che popolavano gli italici
atenei.

SUV: discrimine culturale, prima ancora che sociale. Sta anche per perdita di tempo pedagogica, nel senso che è culturalmente ed economicamente sbagliato continuare a spiegare ai propri figli e agli studenti che, per essere identificati come componenti della compagine umana, non è necessario possedere un SUV.

tecnologica-e-scientifica: epiteto omerico. Apposizione fissa del sostantivo “ricerca”. Per quella “umanistica” cfr. invece: sapere inutile.

trasmissione: (arc.) un tempo indicava il meccanismo insito nella evoluzione del sapere da generazione a generazione mediante lo studio (v.) e la ricerca (v.). In tempi lontani i maestri dicevano di essere “nani sulle spalle di giganti”, ma poiché attualmente i giganti risultano estinti e i nani hanno preso il potere, sembra più conforme l’accezione del vocabolo “parte fondamentale del meccanismo di funzionamento di un autoveicolo”, ad es. di un SUV (v.).

tre più due: gioco da tavolo, il cui regolamento deve essere modificato, per legge, entro e non oltre il novantesimo giorno dalla presa di servizio del Ministro dell’Università entrante.

tre carte, gioco delle: altro gioco da tavolo in voga presso le stazioni ferroviarie napoletane e consistente nell’estorcere a ignari passanti somme di danaro. L’impressione che tale attività ludica possa essere connessa con il mondo dell’università deriva dalla profonda discrasia esistente fra regole annunciate al grande pubblico e natura dei decreti emessi: si confronti la lotta alla baronia e al nepotismo annunciata, rispetto alla natura e alla composizione delle commissioni di concorso nel funzionamento sociale delle tribù universitarie (v. docenza, tre fasce di).

turn over: tipo di promozione mercantile, offerta lancio: “lasci cinque prendi uno”. Geogr.: sinonimo di desertificazione pianificata.

umanistica, cultura: voce non pervenuta, comunque costosa ed economicamente improduttiva. Trattasi della vocazione di molti a interessarsi di cose che, come direbbero i vecchi zii dei romanzi ottocenteschi, sono un lusso per la società.

valutazione: operazione vincente, iniziata da un Governo di sinistra, che come primo
provvedimento ha speso 3.500.000 Euro per far valutare da revisori anonimi (v.) 17.329 prodotti (sic!) presentati da 102 strutture, 77 università, 12 enti pubblici di ricerca, 13 istituzioni private di ricerca. Il Dècreto Gèlmini non è ancora del tutto chiaro su come si procederà in questo senso (ma è chiaro che chi valuterà dovrà comunque essere professore di I fascia), ma si può ricordare che, nel 2006, la commissione dei Valutatori dei Progetti di Ricerca era così composta: 14 "garanti", di cui 7 nominati dal Ministro "mentre" i restanti 7 sono scelti dal Ministro in una rosa (aulentissima?). E ogni valutatore percepiva 10.000 euro all'anno e il Presidente (presumibilmente nominato dal Ministro) 15.000. Storia. Nessuno mai, nella lunga storia del
mondo, si è minimamente preoccupato di cosa si debba fare sul serio per “valutare”; e di quali possano essere i metodi della valutazione, lo stile, il sistema, i tempi, perfino le finalità ultime. Tutti, nei secoli, sono rimasti concentrati sull'idea fissa, la madre di tutte le preoccupazioni, l’archetipo di ogni domanda: chi sarà a valutare?

zero, costo: moda, la più in voga da almeno venti anni. Maniera elegante per definire l’impegno del dicastero nel momento in cui si attuino cambiamenti: secondo fattore comune alle riforme universitarie (v.). Prove di laboratorio dell’applicazione dello “zero, costo” sono state condotte con i carburatoristi, ai quali è stato chiesto di modificare (alias truccare) alcuni vecchi motorini “a costo zero”: per i risultati della sperimentazione si v. la conclusione del lemma “Zorro”.

Zorro: o meglio Zoro, con una “ere” sola. Etim. Il lemma presenta due distinte radici: a) un tempo, a Roma, per definire una persona di volgari e campagnole maniere su usava darle del “burino”. Burino evolse presto in “buro”; sul finire dei Sessanta, però, alcune ragazze della “Roma bene” (quelle con molti colpi di sole nei capelli) poiché tipicamente fonanti “a bocca larga” decisero che suonasse meglio boro, appellativo massimamente dispregiativo che a sua volta si sarebbe trasformato, più recentemente, in “zoro” (= volgarone o, secondo la forma oggi più diffusa, coatto, coattone). b) In questa sede si preferisce tuttavia l’etimo filologicamente più corretto, di derivazione iberica (tu eres un zorro… = sei una volpe), i.e. un furbacchione, del tipo di quello che sta provando a passare davanti alla fila dei bollettini e che si può correttamente apostrofare con un: “a Zoroo!!”. Quanto finora esposto si rende necessario per una migliore definizione semantica dell’art. 17 del Decreto Legge 25 giugno 2008, n. 112 (Decreto Tremonti), definizione che vale la pena supportare con un semplice esperimento pratico, replicabile anche in ambienti chiusi e non protetti: qualcuno legge ad alta voce l’art. 17 nel punto dove recita: “a decorrere dal 1° luglio 2008, le dotazioni patrimoniali e ogni altro rapporto giuridico della Fondazione IRI in essere a tale data, ad eccezione di quanto previsto al comma 3, sono devolute alla Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia”; a questo punto, se l’esperimento si è svolto senza errori, tutti quelli che ascoltano dovrebbero rispondere, spontaneamente e in coro: a Zorooo!

venerdì 15 ottobre 2010

Sono già passati due mesi da un'esperienza unica

Ieri pomeriggio ho messo a fuoco che sono già trascorsi due mesi dal campo di servizio che abbiamo svolto a Pizzoli (un "pizzico" di strada da L’Aquila) con i ragazzi dei giovani e giovanissimi dell’Ac di “Grotta” (e tre gradittissime "intrusioni" di Porto Potenza) e, nonostante molte siano già state le occasioni per tornare a fare mente locale su un’esperienza che ha segnato in modo speciale le vite di tutti noi (il ritorno, un paio di settimane dopo, per un saluto a tutti i bimbi; i nuovi contatti con Giulia e Noemi; la cena del campo; la newsletter della Caritas delle Marche; le foto del nostro don Piero), mi sono accorto con stupore che non avevo ancora messo per iscritto nulla in questo mio spazio virtuale e ho cercato, al di là del tempo che non c’è mai, di capire i motivi di questo vuoto.
E ho percepito che forse affonda tutto nella difficoltà di trascrivere in lettere, consonanti, vocali, parole, punteggiatura il dono di cinque giorni preziosi, che hanno avuto bisogno di ben più altri giorni per essere decantati e che mai potranno essere raccontati in maniera adeguata. Mi limito allora a due sole suggestioni, profondamente distanti l’una dall’altra, così come altrettanto profondamente distanti dalla verità della realtà vissuta, ma che inevitabilmente hanno finito per essere due delle molte anime di questa esperienza: la prima grigia, triste e angosciata; la seconda carica di speranza, con qualche sorriso e oserei dire felice.
Quando la realtà fa meno male della sua mistificazione.
Ho cercato di partire per questa esperienza totalmente scevro da interpretazioni di sorta e pregiudizi di comodo per provare a percepire “dal vivo” fondatezza di posizioni e verità di situazioni; sono tornato a casa senza la chiarezza che mi aspettavo, molto confuso e annebbiato, ma con l’unica certezza appurabile, l'enorme gravità. E allora mi sono detto: vuoi vedere che proprio il modo in cui tale gravità è stata subito sbandierata, ma col tempo mascherata, ha fatto saltare ogni gerarchia di rivendicazione e ogni fisiologica attesa di ricostruzione? Se da un lato molti rivendicano alla gestione da parte del governo italiano la celerità con cui si è dato il tetto a molti e accusano quasi di scarso senso della realtà le critiche e le rivendicazioni a solo un anno dal sisma da parte degli aquilani, se dall’altro lato molti accusano il governo italiano di aver fatto poco, troppo poco e difendono le posizioni di chi a oltre un anno si chiede quale sarà il destino di una città intera, io credo che il vero dramma che si tocca con mano vivendo qualche ora a L’Aquila è il vuoto assordante di una progettualità al cospetto di una tragedia tanto grande; un vuoto che è stato ammantato dall’immagine che tutto si potesse risolvere rapidamente, una tragica e colpevole assenza di un progetto (quanto è miseramente bipartisan e quanto fortemente onnipresente nella nostra classe dirigente questo tarlo) a cui non si è cercato di rispondere con il coinvolgimento di tutti, ma si è replicato con la facciata dell’immediatezza. Il terremoto dell’Aquila non ha semplicemente devastato una città d’arte, ma ha scardinato una cittadinanza viva, unita e appassionata: se allora non si hanno idee e soldi per ricostruire tutta la città d’arte (come si potrebbe anche comprendere o far comprendere, visti i danni ingenti e profondi), si deve almeno avviare un cammino di dialogo e condivisione per chiedere pazienza in vista della ricostruzione di una nuova cittadinanza viva, unita e appassionata a partire da un chiaro progetto di città. Se invece ciò non avviene e si propaganda la possibilità che tutto possa essere fatto nel giro di pochi mesi, con qualche rivoluzionario palazzo per pochi (a proposito ci è mai stato detto quanto è costato?), forse si può capire perché tutti chiedano molto e presto: risolvere con decisioni lontane da quella realtà (come era e come dovrebbe essere) un problema più che reale (lo scollamento di un tessuto umano) non è forse legittimo che provochi delle richieste che sembrano altrettanto lontane dalla realtà (la lentezza della ricostruzione) di un problema più che reale (tanta e tanto grave è la distruzione)??
Quando la semplicità ti fa scoprire la grandezza del bene.
Ho cercato di partire per un’esperienza limitata nel tempo (solo cinque giorni) e a molta distanza dall’immediata crisi post-terremoto (oltre un anno) senza alcuna pretesa di essere il soccorritore di turno e con l’ampia consapevolezza di entrare nell’ordinarietà quotidiana di una quotidianità da un po’ per nulla ordinaria in verità; per cui onestamente mi attendevo, poco abituato in questi anni a vivere l’esperienza di un campo di servizio e più abituato al camposcuola, che fosse il campo a fagocitare il servizio e a limitare il servizio ad una sorta di bella cornice, ma quasi simbolica. Invece è successo esattamente il contrario, in tutto e per tutto: il servizio ha partorito il campo e lo ha fatto passando attraverso le attività più semplici di questo mondo; le attività più semplici di questo mondo hanno costruito un clima tra i partecipanti e una rete di relazioni con i ragazzi e le persone che abbiamo conosciuto a Pizzoli davvero fuori dall’ordinario. Abbiamo fatto compagnia a qualche anziano negli hotel o nei moduli abitativi, abbiamo animato le attività di alcuni centri estivi e di un asilo, abbiamo elargito qualche sorriso a chi condivideva con noi la messa parrocchiale e condiviso tutto ciò insieme, ma proprio nel sorriso di tutti abbiamo percepito la bontà del nostro gesto, la sua giustezza e grandezza che riusciva a stare nella piccolezza e nella banalità della sua veste esteriore: il sorriso provocato e condiviso era il massimo del bene che potevamo fare ed è stato il bene più grande che noi abbiamo ricevuto (soprattutto se si pensa che lo abbiamo ricevuto da chi doveva riceverlo e suscitato in chi non si conosceva per nulla e in nulla). E quei sorrisi, bagnati da qualche lacrima nei racconti, nei resoconti, nelle paure, nelle disillusioni, hanno segnato i cuori e segneranno per sempre i ricordi di chi ha avuto l’onore di questa esperienza. Una grandezza che passa per una porticina minuscola e usa come tramite quanto di più semplice possa esserci; una provvidenza che ti regala sempre molto di più di quanto tu pensi possa seminare, raccogliere e sostenere (è la lezione tramite la quale la realtà mi ha dimostrato quanto sia vera la testimonianza continua della nostra Graziella); una storia umana che è in grado di riservare doni sproporzionatamente più ricchi, anche se infinitamente più istantanei, dei limiti, degli errori, delle colpe e del dolore che spesso la costella. Le storie che s’incontrano e s’intrecciano in un pezzetto di vita sono una delle ricchezze maggiori che ci è offerta e per trasformarle in occasioni di sorriso, al di là del loro recente passato o del loro prossimo futuro e al di sopra di una felicità materiale, basta solo essere aperti all’incontro, esseri aperti all’ascolto, essere aperti alla comprensione e alla disponibilità, essere aperti a farci vicendevolmente compagnia per un tratto di strada, nulla di più. E’ proprio vero, basta poco, così poco!!

giovedì 14 ottobre 2010

CON INTELLIGENZA, OBIETTIVITA' E ONESTA'

Pubblico la lettera di una ricercatrice che spiega al ministro dell'Istruzione perché il ddl spinge i migliori alla fuga e l'Università al collasso (tratto da www.lastampa.it, 13.10.2010).
Chi volesse informazioni sulla mobilitazione dei ricercatori e sulle loro ragioni può visitare questo sito:
http://www.rete29aprile.it/


Caro Ministro Gelmini,
sono una ricercatrice di Cà Foscari, insegno sociologia.
Mai avrei pensato di scriverle sino ad oggi, ma la situazione è grave.
Mi perdoni se per un istante le parlo apertamente.

Ho due anni meno di lei e sono rientrata in Italia nel 2008 dopo aver trascorso il resto degli anni 2000 negli Stati Uniti. Quand'ero un Ph.D. student negli States con molti docenti c'era un rapporto di amicizia. Nel mio Dipartimento c'erano molte donne, young faculty, associate o full professors. Il reclutamento di nuovi docenti era un processo in cui erano coinvolti tutti, anche i graduate students avevano potere decisionale. Tra le tante cose che valutavamo c'era l'età del candidato, perchè più l'Università è giovane e più è viva, dinamica, propositiva, proliferante di sapere. Ricordo che al mio arrivo come studente di dottorato al primo anno avevo trovato ad attendermi all'areoporto il direttore del Dipartimento. Mi aveva ospitata a casa sua per circa un mese. Amava gli studenti perchè credeva rappresentassero il futuro e voleva che fossimo tutti nelle condizioni migliori per lavorare. Ricordo che a lezione gli undergraduates non avevano timore di porre domande, che c'era complicità tra studenti e docenti, che si respirava un'orizzontalità a me sino ad allora sconosciuta.

Nel 2008 sono rientrata in Italia. Non era mio desiderio, ma la vita a volte fa strani scherzi. Ricordo con opacità un concorso con altri sei colleghi. Due di noi avevano trent'anni, gli altri ne avevano più di quaranta. Discutevano di candidati interni o esterni, del numero di concorsi tentati e destinati ad altri, di anni di ricerca e di didattica precaria, di corsi di didattica frontale retribuiti con circa 2 mila euro netti l'anno. Parlavano di famiglie e di figli, di bollette, di una passione messa a dura prova dalla precarietà e dalla svalutazione del sapere.

All'epoca sapevo poco dell'università italiana. Non sapevo che cosa significasse essere un ricercatore, sapevo che il mio stipendio entrante negli Stati Uniti era tre volte lo stipendio che prendo ora. Non mi sono stupita ovviamente quando nessuno è venuto a prendermi all'areoporto, mi sono stupita quando mi sono accorta di avere poche colleghe donne, quando ho conosciuto colleghi che avevano due volte e mezza i miei anni, quando ho realizzato che durante le riunioni ufficiali i ricercatori difficilmente parlavano. Negli anni mi hanno colpita anche altre cose, ad esempio il fatto che l'autonomia di pensiero venisse a volte considerata non tanto come una conquista sublime ma come un segno di arroganza precoce; che in Università come in strada esistessero parole come protettore e tradimento, e che la giovane età non fosse un pregio bensì un difetto: i giovani del resto non hanno un nome, non hanno capitale, non hanno reti di conoscenza già intessute, non hanno potere politico. I giovani non esistono se non in potenza, perciò devono avere pazienza, e prima o poi se hanno fortuna qualcuno li aiuterà.

Capirà con quanta meraviglia abbiamo vissuto questi mesi, quant'è stato travolgente vedere migliaia di ricercatori mobilitarsi a partire dal senso di stima di sé, dalla responsabilità per il futuro, dall'entusiasmo, dall'amore per il sapere. Capirà con quanta energia abbiamo cominciato a parlare negli atenei della sua riforma e quant'è stato rigenerante scoprire che potevamo cambiare le cose in meglio. Ci siamo accorti che l'Università pubblica può essere riformata anche senza mutilazioni, che basterebbe invertire un pò la piramide ordinari-ricercatori per ridurre di molto i costi, per aumentare la democrazia interna, per dare un significato onesto al concetto di meritocrazia. Ci siamo resi conto anche che la sua riforma non va in questa direzione, accentra il potere verso l'alto piuttosto che distribuirlo verso il basso, esclude ancora una volta i più giovani e i precari ed attribuisce il potere decisionale maggioritario ad un Consiglio di Amministrazione esterno ed al Rettore, a scapito addirittura di organi interni sino ad oggi importanti quali il Senato Accademico. Ci siamo resi conto che la sua riforma vorrebbe tagliare i corsi di laurea “inutili”, ma che la definizione di inutilità è sempre un po' ambigua, del resto anche le dittature sudamericane la utilizzavano per mettere al bando i corsi di filosofia e di sociologia. Infine ci siamo dovuti arrendere al fatto che lei non pensa ai giovani, anzi propone il blocco delle assunzioni di nuovi ricercatori a tempo indeterminato, cosa che non solo spingerebbe i migliori di noi all'esodo, ma che data l'età media del corpo docente italiano spingerebbe nel medio periodo l'Unversità pubblica al collasso. Non entro nel merito degli effetti congiunti del suo DdL e dei tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario all'Università, perchè se lo facessi dovrei concluderne che il governo ha in mente un progetto antropologico regressivo per il popolo italiano. Voglio piuttosto dire che tutti noi siamo preoccupati: ricercatori, precari, studenti, professori associati, professori ordinari e presidi.

Siamo preoccupati perchè ci sembra che stiate per votare con semplicismo ed irresponsabilità un DdL di estrema importanza. Siamo preoccupati perchè ci sembra che vi interessi di più il bene di pochi che il bene di tutti, e che Confindustria abbia più diritto ad entrare nella Governance dell'Università di quanto quei giovani “capaci, meritevoli ed anche privi di mezzi” di cui parla la Costituzione abbiano diritto di studiarvi. Siamo preoccupati perchè ci sembra che un disegno di legge di questa portata non andrebbe votato in notturna con la fretta che caratterizza le fughe dei ladri ma alla luce del sole, in aperta collaborazione con tutti coloro che desiderano anteporre ai propri interessi l'amore per il futuro. Siamo preoccupati perchè crediamo che in questo quadro fosco fatto di crisi economica, di precarietà e di crisi di governo non abbia senso dare prove di forza o perseguire un voto politico, come ci sembra stia accadendo. Crediamo che il diritto all'istruzione in Italia sia in pericolo, e che sia nostro dovere proteggerlo oggi domani e sempre, sino a quando riusciremo a creare un'università aperta, orizzontale e di tutti.

Francesca Coin
Università Cà Foscari
Rete 29 Aprile

martedì 12 ottobre 2010

PICCOLO DISPERATO DIZIONARIO DEMAGOGICO DELL’UNIVERSITA’ - LETTERE "O", "P", "Q", "R"

Pubblico "a puntate" un testo meraviglioso che mi è capitato sotto mano, che mettendo a frutto la dote unica dell'ironia, ci regala una pittura dello stato di degrado dell'italico mondo accademico.

Avvertenza
Si propone all’attenzione del pubblico un nuovo e pratico ausilio lessicale, pensato e realizzato per venire incontro alle esigenze delle giovani generazioni, che si sono trovate ad affrontare la bagarre della protesta senza un efficace supporto terminologico. Gli autori nutrono qualche speranza che i lettori comprendano che il Piccolo Dizionario diventa tanto più demagogico quanto più essi stessi sono disperati. E, comprendendo, perdonino.
(G. Azzena, M. Rendeli)

OCSE (dati e media): entità superiore, semidivina, che per una lex arcaica (cfr. Varro d.l.l. 6, 18) si è tenuti a nominare molto ma mai indagare nel dettaglio. Anche perché, se lo si facesse, si scoprirebbe che, per adeguarci alla media OCSE (sempre sia lodata), non bisogna tagliare, semmai aggiungere quattro miliardi di Euro.

parametri: intuitivamente sembra indicare qualcosa per misurare qualcosa ma, come “paramedico” o “parafarmacia”, in forma non compiutamente professionale. La legislazione in corso di approvazione aiuterà molto nella determinazione di veri e funzionali parametri: un docente per essere “bravo” deve “fare due prodotti all’anno” (cfr. anche Novissimo Dizionario di Zoologia, sub voce “mucca”).

partenariato: termine complementare a “progetto” (v.): “no partner? no project!”, è un antico detto fiammingo, ancora oggi in voga a Bruxelles dove ogni progetto ha origine e fine. In Italia stanno prendendo piede piccole Agenzie del Partenariato sul modello di “cuori solitari” che possono fornire ai docenti “celibi” partners affidabili, puliti e carini, europei, extraeuropei, mediterranei.

potere, logora chi non ce l’ha: aforisma in voga nel mondo politico della prima repubblica e perfettamente calzante per tutti coloro, docenti e non (con eccezione, forse, dei duchi, v.), che pensano o hanno pensato di cambiare il sistema universitario. L’aforisma in questione fa da pendant con l’altro ben noto detto “A frate’ dimme che te serve…”: cambiando l’ordine dei protagonisti il prodotto non cambia.

precari: il 50% del personale in servizio effettivo negli Atenei italiani. Sta anche per “entità ricattabile all’infinito”.

progetto: sistema unico per avere i soldi per fare la ricerca. Deve essere sempre espresso anche in lingua inglese. La scadenza per la presentazione dei progetti è stabilita per Legge a due giorni dopo la pubblicazione del bando; alternativamente il 18 agosto o il 2 gennaio. La regola base è “chi è ricco diventa sempre più ricco": ricevono i finanziamenti, cioè, progetti che già si muovono in un quadro “ampiamente consolidato”. Quello che non è dato capire è: se ci viene un'idea veramente - ma veramente - geniale, che per essere tale NON PUO' ESSERE CONSOLIDATA, come facciamo ad avere il PRIMO finanziamento? (Non è il caso nostro, naturalmente: si fa così per dire).

rettori: partito politico trasversale, cui le 10 Proposte del PD (v. Sinistra…) intendono attribuire ulteriori poteri, ispirati in forma e sostanza a quelli delle dinastie ellenistiche post-alessandrine. Esplica la sua attività in modo tendenzialmente vitalizio. Per essere rettori è bene essere “figli di partigiani e/o di minatori”. Il rettore non teme l’onda, anzi non teme niente, tranne: a) che il cielo gli cada sulla testa; b) il mandato unico.

revisore anonimo: colui che c’è ma non si vede; colui che, nella penombra della sua stanzetta, con la mano sul cuore ed il pensiero rivolto alla vecchia mamma e/o al tricolore, fornirà con giustizia e equanimità (e che sia dato il bando ad ogni rancore!) un giudizio fortemente positivo sulla ricerca del suo nemico giurato.

riforme universitarie: gattopardesca sequela di decreti e disegni di legge che nascono con alcune intenzioni e sfociano in tutt’altro grazie all’intervento munifico di consigli delle più diverse corporazioni di cattedratici. Generalmente redatte in italianese (e.g. non dire nulla con linguaggio difficile), rivoluzionano ogni volta radicalmente il sistema e costringono i duchi (v.) a inventare i più brillanti sotterfugi perché tutto rimanga uguale a prima. Costringono inoltre i non-duchi a passare diversi mesi (e nottate) ad adeguare il sistema (cfr. tre più due) sia alle regole della riforma sia alle esigenze di duchi e baroni (operazione non sempre facile) i quali nel frattempo se ne vanno in giro dicendo: “non so voi come fate: io non ne ho capito proprio nulla…”. La storia recente delle riforme universitarie ha prodotto: a) il protagonismo del ministro dell’Università o della Pubblica Istruzione di turno: O. Zecchino, L. Berlinguer, L. Moratti, F. Mussi e ora M. Gelmini hanno scritto pagine indelebili, commoventi e spesso assolutamente rivoluzionarie per l’istituzione (v.) universitaria; b) lo zero, costo (v.).

mercoledì 29 settembre 2010

FINI E VELTRONI: IL VINCOLO DELLA “REALPOLITIK”

Le ragioni di una crisi oramai sotto gli occhi di tutti che attanaglia la nostra politica nazionale e la sua miserevole classe dirigente sono a mio avviso molteplici e ben più profonde di quanto il gossip e il killeraggio dossieristico (vedi Fini-Berlusconi) o le dispute personali e personalistiche (vedi Veltroni-D’Alema - ops, Bersani) possano mascherare e meritano ben altro spazio di approfondimento, pur ruotando attorno ad un nodo che inizio ad avere molto chiaro: la totale inadeguatezza progettuale dei nostri politici e l’abissale sproporzione tra le proposte (miopi, tappabuchi e non riformatrici) e la situazione drammatica del nostro paese (uno stile di vita totalmente sovraelevato rispetto a quanto i conti pubblici possono permettere).
Vorrei però in quest’occasione soffermarmi alla superficie per evidenziare, non paradossalmente, come già a questo livello si percepisce uno smarrimento completo della bussola del bene comune e la degenerazione di un’etica pubblica e politica che ha perso la capacità di essere coerente fino in fondo. E lo faccio evidenzando i limiti delle posizioni di due figure che in questo momento della nostra storia politica hanno la ribalta della cronaca nelle vesti di “censori” rispettivamente della cattiva via intrapresa da un lato dalla maggioranza e dall’altro dalla minoranza: Fini e Veltroni.

Perché sull’affaire Fini sembrano avere tutti ragione
La cosa strana di tutto ciò che, in questo periodo, ruota attorno a Gianfranco Fini, di cui non posso che stimare il tentativo di dare un nuovo volto (e spero corpo) alla destra del nostro paese e di cui non posso che accogliere con piacere una critica concreta e solida non a Berlusconi ma al berlusconismo (peccato che i semi di questo nuovo costume sono, dopo quindici anni, tanto diffusi da fagocitare numericamente anche lui), è che sembra che tutti abbiano ragione. Hanno ragione, nei contenuti, i suoi adepti di Futuro e Libertà; hanno ragione, in alcune richieste di chiarimento, alcuni dei suoi “nuovi” nemici del Popolo della Libertà; ma, paradossalmente, hanno tanto più ragione due figure tra loro lontanissime, Mario Campi (ideologo di Fare Futuro) e Antonio Di Pietro (padre dell’Italia dei Valori), che condividono un medesimo appello: lasci la presidenza della camera e si senta libero di dare seguito a ciò che predica. La rivendicazione di una purezza di ideali si mescola infatti in questo caso ad un realismo politico che qualche interrogativo lo pone: se possiamo infatti accettare che il recente passato di Fini sia stato una machiavellica convivenza forzata con Berlusconi per ottenere spazio, tempo e microfono al fine di costruire e rendere visibile una destra alternativa (il fine giustifica i mezzi), può questo meccanismo valere ancora? Può cioè il nostro Presidente della Camera spingersi alle dichiarazioni che ha fatto nei confronti di Berlusconi (politiche, etiche, economiche) e convivere ancora con lui? Nel momento in cui rivendica una supremazia della sua etica pubblica, non può scinderla da una presa d'atto e da una presa di posizione vera che culmini con una scelta altrettanto chiara: se Berlusconi è quello che lui ora dipinge come può essere alleato di chi gestisce, a suo dire, società offshore e faccendieri in Sud America? Certo che l’Italia ha bisogno di stabilità come altrettanto certo è che occorre essere fedeli ad un chiaro mandato elettorale: ma il bene comune e la purezza degli ideali, al cospetto di un male tanto sventolato e attaccato, non viene prima anche di tutto ciò?

Dal sacrificio è risorto solo Gesù
Nonostante alcuni passaggi potessero farlo immaginare (“non farò agli altri ciò che hanno fatto a me” sa di una invidiabile ripresa della Regola d’Oro così come nel Vangelo è ripresa e attualizzata), Walter Veltroni deve capire che non è la re-incarnazione di Gesù. Al di là della battuta, quasi blasfema, che intendo dire? Penso che, al di là del fatto che il suo gesto di qualche mese fa (quando ha lasciato la segreteria del PD) sia da intendesri come suicidio politico o come sacrificio (io tendo ancora fiduciosamente a propendere per la seconda), egli ha in quell’occasione ucciso una sua precisa presenza pubblica e un suo chiaro ruolo dentro al PD, che non può pensare di riproporre: il suo gesto è stato un gesto ultimo, ultimativo e definitivo, dal quale non si torna indietro; dal sacrificio non si resuscita. Fuor di metafora: a Veltroni spetta il diritto di dire la sua nelle molte sedi istituzionali del partito che ha modo di frequentare, a Veltroni spetta di avere un’opinione su quella che deve essere la rotta del partito di cui è importante parlamentare, ma non spetta più di parlare da leader, di smuovere le acque di correnti o pseudo-correnti rispetto alle quali non può più rivendicare un ruolo ufficiale, non spetta più di tornare ai vecchi giochi da cui è voluto uscire e, se anche il suo sacrificio non ha avuto l’esito che sperava, il suo gesto rimane e deve restare coerente con esso. Certo che il Pd ha bisogno di una nuova marcia e di un nuovo scatto altrimenti il progetto è destinato a morire, senza essere mai nato veramente: ma anche in questo caso il bene comune del partito e la purezza di precisi ideali alla base di una progettualità alta, al cospetto di un'inerzia criticata e attaccata, non viene prima delle solite becere lotte per la leadership?

Come mai allora persino chi si candida a purificare la politica dalle sue derive personalistiche (Fini nel caso del Presidente del consiglio) o dai sui limiti partitici (Veltroni nei confronti di un Segretario che ha fin qui deluso) finisce per ricadere nel circolo vizioso di una “realpolitik” che sembra rendere impossibile, nei loro casi, essere coerenti fino in fondo e inaugurare una strada nuova, che sia un partito magari non ancora in grado di vincere le elezioni (Fini) o un confronto lontano dai giornali, ma capace di portare risultati veri, fuori da ogni disputa vecchia e logora (Veltroni)?

lunedì 13 settembre 2010

MA CHE MUSICA MAESTRO!!


Pubblico in versione integrale la testimonianza scritta dai ragazzi (giovani e giovanissimi di Ac di Grottazzolina e Potenza Picena) che hanno partecipato al campo di servizio a Pizzoli (AQ) dal 10 al 14 agosto scorso. Il testo è tratto dalla newsletter di Agosto della Caritas (gemellaggio Chiesa Marche Chiesa Abruzzo). Aggiungo un grande grazie a Giulia e Noemi.
Ps. La foto è di mio cugino Marco (che classe!!)


Direttamente dalle migliori sale di incisione marchigiane il gruppo di A.C. di Grottazolina e tre ragazzi dell’AC di Porto Potenza, ribattezzati dopo le performance che hanno deliziato Pizzoli e dintorni ‘Il coro di Piero’, hanno vissuto cinque giorni a Pizzoli. Ragazzi, animatori, sacerdoti e mamma-cuoca Graziella hanno condiviso con la popolazione del posto momenti di servizio e un cammino di riflessione e preghiera.
Ecco la loro testimonianza.


Presentiamoci: siamo venti ragazzi dell’Azione Cattolica delle Marche, e siamo venuti a trascorrere cinque giorni al servizio della Caritas a Pizzoli. “Adesso ognuno dica perché ha deciso di partecipare a questa esperienza e cosa si aspetta.” Questa la difficile domanda del sacerdote che ci ha accompagnato, poche ore prima di arrivare a L’Aquila.
Be’, sono uscite le motivazioni più varie: chi perché voleva dare una svolta all’abitudine di ogni giorno, vivendo la gioia di donarsi agli altri, chi per vedere direttamente la realtà di un popolo ferito nel più profondo e chi era partito e basta, senza tanti perché o troppe aspettative. Dopo cinque giorni eccoci qui, a dover lasciare Pizzoli e l’ Abruzzo e a chiederci cosa ci abbia lasciato quest’esperienza.
Ci siamo impegnati in diversi modi: con i bambini al GREST di Arischia, a Cagnano, e
all’asilo di Barete, con gli anziani ai MAP e con la comunità animando le celebrazioni. La paura di sbagliare era tanta, ma i bambini e gli anziani che abbiamo conosciuto sono stati aperti e disponibili nei nostri confronti, segno che la nostra presenza era bene accetta.
Sapevamo che il nostro servizio non era caratterizzato certamente dalle competenze pratiche delle Protezione Civile o della Croce Rossa, ma è stato guidato dalla pa-
rola del Vangelo e dall’amore che ne scaturisce. Sicuramente torniamo a casa con la gioia di aver fatto un tratto di cammino insieme a nuove persone e con la felicità che nasce dal mettersi a disposizione degli altri, senza la pretesa dei grandi gesti o di aver compiuto grandi azioni; solo con la consapevolezza qui maturata, dell’importanza dei gesti semplici e quotidiani, del farsi prossimo nelle tante piccole cose che compongono la nostra vita.
Ciò che ci rimane dentro sono sicuramente i sorrisi dei bambini, la luce negli occhi della gente, le parole gentili delle persone che abbiamo incontrato, la disponibilità delle volontarie Caritas e soprattutto il desiderio di restare ancora.
Non sappiamo se il nostro servizio verrà ricordato, ma abbiamo capito che è servito
per rendere migliori questi giorni.

Andrea, Chiara, Damiano, Gaia, Francesco, Letizia, Lucia, Lucrezia, Marco, Mattia, Stefano, Tommaso

venerdì 10 settembre 2010

I RITI DI DEGRADAZIONE E L’ANNULLAMENTO DELLA SPERANZA 1: PRESENTE SENZA FUTURO

C’è una cosa che in questo momento della mia vita mi segnala in maniera oppressivamente concreta quanto l’essermi sposato e l’aver creato una famiglia (fatta la tara alla grandiosa bellezza della cosa in sé) mi abbia oramai proiettato nell’età adulta (oltre il fatto di aver superato i trenta): un bel pizzico di paura del futuro; ma c’è una cosa che in questo momento della mia vita mi aiuta tragicamente a pensare che, nonostante mi sia sposato e abbia creato una famiglia, nonostante mi senta adulto (e abbia superato i trenta), tutto sommato sono ancora giovane: la luce accecante del presente. Sull’adulto pesa infatti “per antonomasia” la consapevolezza di una crescente responsabilità nei confronti del domani, non più solamente il "proprio" domani; il giovane vive, “cromosomicamente”, nel gusto dell’oggi e nel coraggio dell’imprevisto, molto concentrato sul "proprio" vissuto. Solo che la mia paura del futuro ha ben poco del fisiologico e costruttivo (come dovrebbe essere) e la luce accecante del presente somiglia per nulla alla chiarezza delle possibilità (quanto piuttosto risulta vicina ad una cecità da abbaglio).
Se poi faccio un passo avanti e mi azzardo a coniugare queste due dimensioni – fosse solo per non pensare di avere un’identità schizofrenica – mi rendo miseramente conto che questa strana convivenza è poco naturale e soprattutto poco sana: questa società sta infatti costringendo i giovani adulti della mia generazione a dimenticarsi del fatto che stanno crescendo e a convincersi di poter restare giovani; il tutto non grazie a miracolose creme rivitalizzanti, a mode colorate e sportive o a utopiche formule anti-age, ma perché sta frullando, in un mix tremendo e agghiacciante, l’ossessione dell’oggi con la necessità di non dovere pensare a domani. Se il giovane, per “deformazione professionale” non è portato ad interrogarsi sul suo futuro, e potrebbe quindi trovarsi a proprio agio in questa condizione, all’adulto che gli si sta accostando e cerca di convivere per un pezzetto di strada con lui è oggi impedita questa possibilità: ci è stata resettata la fiducia nel domani e cancellata la speranza nel futuro, e questo al di là della contingenza esistenziale della nostra condizione umana.
Un paio di generazioni or sono, e quindi anche cronologicamente qualche decennio fa, i miei genitori, allora bambini, sono cresciuti in condizioni che costituiscono spesso oggetto di racconti tali da sembrare quasi mitici tanto paiono lontani e diversi dalla nostra realtà quotidiana (povertà, sacrifici, essenzialità): ma a quella generazione è stata data l’occasione di mettersi alla prova per tentare di costruire il futuro proprio e dei propri figli. La mia generazione è cresciuta invece all’interno di una bolla di sviluppo economico che l’ha protetta e viziata ed oggi inizia a toccare con mano quanto il nostro stile di vita sia stato sproporzionato rispetto a quanto potevamo e possiamo tuttora permetterci. Quale la conseguenza? Che il nostro presente è un presente di affannosa e continua ricerca di una sistemazione lavorativa o di una nuova collocazione lavorativa, vittime di una flessibilità che ci è stata presentata come la panacea di tutti i mali e che è diventata invece l’ultima e unica possibile schiavitù pensabile nell’età della difesa dei diritti umani; che il nostro futuro è tragicamente costretto ad essere declinato molto spesso al singolare, laddove si riesce a progettare, immaginare, pianificare. Non è certo nella mia indole la presunzione di voler avere una vita già scritta o dettagliamene prevista, ma desidererei un’esistenza che preveda il diritto di guardare al futuro con fiducia; non è nel novero dei miei obiettivi vedermi regalata una vita piena di successi o di agio, ma, da marito, desidererei che mi fosse consentito di vivere da padre senza dover pensare con affanno e vergogna a ciò che lascerò ai miei figli.
E’ vero, ci sono valori e sentimenti da trasmettere e affidare in eredità, come c’è, per chi ci crede, una Provvidenza a cui affidarsi, che spesso scompagina e riordina le situazioni di vita, ma gradirei che questo presente potesse essere anche una semina per far raccogliere altri, mentre al momento è uno scavo esasperato nel fondo di un fondo già scavato; gradirei avere motivi per coltivare una fiducia che non sia utopica o irrealistica, ma fondata e argomentata; gradirei, in buona sostanza, che la tridimensionalità del volume temporale delle nostre vite si riordinasse secondo la dignità che le compete: un passato da cui imparare, un presente in cui investire, un futuro di cui essere serenamente responsabili.

giovedì 9 settembre 2010

PICCOLO DISPERATO DIZIONARIO DEMAGOGICO DELL’UNIVERSITA’ - LETTERE "I", "L", "M", "N"

Pubblico "a puntate" un testo meraviglioso che mi è capitato sotto mano, che mettendo a frutto la dote unica dell'ironia, ci regala una pittura dello stato di degrado dell'italico mondo accademico.

Avvertenza
Si propone all’attenzione del pubblico un nuovo e pratico ausilio lessicale, pensato e realizzato per venire incontro alle esigenze delle giovani generazioni, che si sono trovate ad affrontare la bagarre della protesta senza un efficace supporto terminologico. Gli autori nutrono qualche speranza che i lettori comprendano che il Piccolo Dizionario diventa tanto più demagogico quanto più essi stessi sono disperati. E, comprendendo, perdonino.
(G. Azzena, M. Rendeli)

inganno, fatta la legge trovato l’:
a) cervelli, rientro dei:
della corsa al rientro hanno fatto parte anche studiosi che hanno lasciato il nostro paese consapevolmente e hanno creduto di poter
rientrare senza il forte appoggio delle alte sfere; ma ora il rientro sembra essere più volgarmente la soluzione ottimale per duchi e rettori che, in suo nome, possono far rientrare, quasi totalmente a spese del ministero, fidi scudieri che hanno trascorso un periodo (tre anni, ma non continuativi…) di ricerca all’estero, senza farli passare dalle “forche caudine” del concorso (v.);
b) fama, chiara: operazione di cooptazione di uno studioso che abbia recato un contributo vitale alla scienza, e che sia colto, fascinoso, talentuoso, geniale, militesente, possibilmente bella presenza. Stante la perdurante latitanza di persone di questo tipo (che, se esistono, certamente
non hanno nessuna interesse a fare il professore universitario), tutta l’operazione consiste nell’assumere direttamente e senza tante storie qualche amico di duca (v.). Cfr. (ma solo per i lettori più acuti) “turn-over”.

investimento: il termine indica i soldi che ogni docente investe (de sua pecunia, dicevano le iscrizioni latine…) per fare ricerca, pagarsi le trasferte, confrontare le proprie idee con altri studiosi, partecipare a convegni et similia. Oppure: incidente stradale che normalmente vede
coinvolti un autoveicolo e un pedone. Non risultano da molti anni altre tipologie di
investimenti.

istituzione: animale mai esistito o altrimenti da molto tempo estinto. Il termine è però tuttora in uso, anche se in forma traslata e in ambienti snob, ad indicare l’Università in quanto tale, cioè quella che non serve a riprodurre docenti (v. Lodge, legge di) ma a produrre cultura e progresso (scientifico e umanistico). Nel nostro paese, come nelle società aristocratiche di tempi remoti, la
preminenza di famiglie eminenti (v. duchi) rende però tale sovrastruttura (e conseguentemente anche il termine che la indica) del tutto inutile: ciò provoca una escalation nella personalizzazione e nella creazione di costellazioni delle più diverse forme di potere interne al sistema (facoltà, dipartimenti, corsi di laurea, centri di eccellenza ecc. ecc.). Caratteristica è la loro non riproducibilità in caso di cessazione o assenza (per trasferimento, pensionamento o quant’altro) dell’aristocratico di riferimento. Il confronto con altre galassie (università europee o americane) è inutile e fors’anche dannoso.

laurea: sinonimo di perdita di tempo, frapposta tra l’individuo e le mete più agognate (v. “calciatore/velina”,“SUV”); valore legale della: qualcosa da abolire con grande urgenza per rendere più felici le università private.

lenticchie, piatto di: unità di misura premonetale con la quale i vari Governi (compreso l’ultimo) hanno comprato il consenso delle tribù universitarie. Alle lenticchie si accompagna, oltre alla classica cipolla, un sistema sicuro di controllo dei concorsi a cattedre: elezione, elezione ed estrazione, estrazione da una lista di votati, votazione di una lista di estratti, estrazione di votati da una lista di estratti, liste di votanti estratti, estrazione di liste votanti… come sia sia: l’importante è mantenerne comunque saldo il controllo. Anzi, sempre più saldo, come ben dimostrano i commi 4 e 5 dell’art. 1 del decreto Gèlmini.

Libro Iniziatico della Valutazione: Esattamente come il Necronimicon è un libro inesistente, ma al quale tutti fanno riferimento come se esistesse. Conterrebbe, secondo gli alchimisti, la formula per valutare qualsiasi “prodotto” della cultura, specie se di ambito universitario: dalla presenza o meno dei cancellini nelle aule fino al numero medio di scarpa dei membri del Senato
Accademico, ogni attività che possa svolgersi in un Ateneo è ivi contemplata e
comparativamente valutata. Sono famosi i falsi: quello del Necronomicon, comparso nel 1941 sul catalogo di Philip Duchesne libraio in New York, e quello del L.I.V., messo in vendita su eBay da tal Jiao Tong, antiquario-bibliofilo di Shangai.

Lodge, legge di: legge che presiede alla riproducibilità dell’ultima casta (il c.d. vastupurusamandala della prima fascia - v. docenza, tre fasce di), teorizzata e materialmente testata nel volume di D. Lodge, Il professore va al congresso, Bompiani, Milano 2002. In essa si dimostra come un ordinario scelga un successore mediamente meno dotato di lui per poterlo controllare: ciò porta alla creazione di una catena di progressivo rimbecillimento della figura
fino a quando, in fondo a essa, il docente non si accorge di aver scelto un Einstein… e la catena ricomincia. Ogni riferimento alle teorie vichiane (corsi e ricorsi…) è inutile perché incomprensibile ai più.

L.U.I.S.S., Libera Università Internazionale degli Studi Sociali: ateneo privato che dal 1974 sostituisce l’Università Internazionale degli Studi Sociali Pro Deo, fondata da Padre Felix Andrew Morlion nel 1946; la pronuncia "Liuiss" è più frequente nel linguaggio corrente, specie in
quello delle mamme dei giovani frequentanti, per fraintendimento fra l’acronimo italiano (vaticano) e una parola in lingua inglese.

Marcegaglia Emma, commenti positivi sulla riforma Gelmini. Questa voce è stata erroneamente trasferita su questo Dizionario dalla “Rubrica del Chissenefrega”.

merito, meritocrazia: vocabolo-muro (del tipo: “buco dell’ozono”, “innalzamento della temperatura terrestre”, “cucciolo di foca”) contro il quale si può solo battere la testa. Ti ci devi fermare davanti e arrenderti alla sua solidità mediatica e retorica, anche perché se dici che di veri geni non ne hai mai conosciuti e che forse bisognerebbe capire che cos’è esattamente “merito” dentro le università, o sei con piena evidenza uno “sfigato immeritevole”, o sei
Fabrizio De Andrè (e questo non può essere).

moduli, modulistica: (v. progetto). Strumentazione atta principalmente “a trovare soldi”, ma funzionante anche in altri campi della cultura (v.) e della vita universitaria. La “complessità” ne è parte integrante e condizione essenziale. La progressiva evoluzione della complessità
(inversamente proporzionale alla quantità dei fondi erogati) è stata nel tempo curata dal benemerito U.C.A.S.E.S.I: malgrado questo Ufficio lavori per il bene del Paese da molti anni, non se ne conosce l’indirizzo, ma si può dire che l“Ufficio Complicazione Affari Semplici E Spesso Inutili” abbia filiali ovunque. Storia. I moduli-per-trovare-soldi (v. docente) nell’antichità constavano di due pagine e una decina di spazi compliabili (nome, cognome, oggetto della ricerca, soldi necessari, firma…); oggi i ponderosi tomi di istruzioni che li accompagnano contengono indicazioni del tipo: per ottenere il finanziamento ti inoltrerai nella palude di Gondrurf,
e attraverserai il paese degli elfi, per giungere alla porta scarlatta di Bendramalius, ove è l’Antico Guardiano… (per il bene del Progetto occorre immaginare la frase letta da Gianni Musy che, per chiarezza, è il doppiatore di Albus Silente).

normalista: talora un minimo più simpatico del bocconiano (v.).

lunedì 23 agosto 2010

PICCOLO DISPERATO DIZIONARIO DEMAGOGICO DELL’UNIVERSITA’ - LETTERE "D", "E", "F"

Pubblico "a puntate" un testo meraviglioso che mi è capitato sotto mano, che mettendo a frutto la dote unica dell'ironia, ci regala una pittura dello stato di degrado dell'italico mondo accademico.

Avvertenza
Si propone all’attenzione del pubblico un nuovo e pratico ausilio lessicale, pensato e realizzato per venire incontro alle esigenze delle giovani generazioni, che si sono trovate ad affrontare la bagarre della protesta senza un efficace supporto terminologico. Gli autori nutrono qualche speranza che i lettori comprendano che il Piccolo Dizionario diventa tanto più demagogico quanto più essi stessi sono disperati. E, comprendendo, perdonino.
(G. Azzena, M. Rendeli)

destra, programma culturale della: serie di azioni incontrollate, tese a coprire una psicosi di fondo derivante dalla sterilità congenita della destra (in ambito ecumenico) nella produzione di intellettuali (ad eccezione di Vittorio Feltri che comunque ci prova, almeno vestendosi “come un”).

docente: 1. dicesi di persona impegnata a compilare moduli per trovare soldi; o a parlare con Sindaci e Assessori per trovare soldi; o a fare ricerche che non gli interessano perché è lì che c’erano i soldi (e.g. “fare marchette”…); o a divinare qual sia l’idea di ricerca che, nei prossimi cinque minuti, potrebbe piacere al Presidente (non importa di che, basta che sia Presidente) il quale potrebbe dare soldi; o a tradurre in inglese il testo del proprio modulo-per-trovare-soldi perché tra gli anglofoni che transitano in Italia è abitudine visitare Venezia, Firenze, Roma e, nei momenti buchi, dare un occhiata ai suddetti moduli; o, alternativamente, a trovare qualcuno che traduca dall’italiano all’inglese a costo zero (v.) i moduli, perché è un sacrosanto diritto del revisore anonimo (v.) di turno imparare l’inglese mentre valuta le ricerche. 2. Dicesi di persona che, se non sta cercando soldi, è impegnata a riscrivere il regolamento dell’Università
secondo i dettami dell’ultimissima riforma (v.). 3. Dicesi di persona che, se disturbata da uno studente mentre sta cercano soldi o riscrivendo il regolamento, risponde: per favore, venga nell’orario di ricevimento. E che, con sguardo opaco, dice al collega che incrocia nel corridoio (cosparso di modelli ENPI, PRIN, FIRB): “finalmente ho due ore di lezione”.

docenza, tre fasce di: suddivisione in caste, ispirata all’organizzazione sociale delle culture del basso Gange. Del tutto inutile da un punto di vista pratico, ma non da quello economico, è per questo il meccanismo sul quale si fonda il funzionamento sociale delle tribù universitarie. Il passaggio dalla casta più bassa a quella più alta avviene mediante il superamento di una serie di prove iniziatiche (concorso a cattedre: v.), basate su una figura simbolica detta “la piramide del ricatto”. Nell’accedere all’ultima casta (il c.d. vastupurusamandala della prima fascia), all’iniziato viene praticato un reset del disco rigido (ctrl-alt-canc), che lo renda, infine, in tutto simile ai suoi pari.

dottorati: aree di parcheggio con abbonamento triennale. Esistono “al coperto” (con borsa”) e “incustodite” (senza borsa).

duchi: più di Baroni. Casta suprema, poco nota ai media e al popolo ma molto incisiva, composta di super-intellettuali (universitari) che, se vogliono, possono anche scrivere sui principali giornali nazionali e parlare a tu per tu col Ministro. Ai duchi si deve l’invenzione di parole quali “merito”, “eccellenza”, “valutazione”, utili per mantenere inalterati attraverso Governi di destra, di sinistra e di centro, i propri titolo, ruolo e conseguenti prebende. Per omnia saecula saeculorum. Amen.

eccellenza: neologismo funzionale, creato dai “duchi” (v.) al fine di riprendersi l’effettivo controllo dei concorsi (v.) e della ricerca, perso per la troppa “autonomia” (v.) e a causa della “moltiplicazione dei corsi di laurea” (v.) e di troppe Facoltà del “sapere inutile” (v.). Si ottiene esclusivamente mediante una cerimonia detta “della solenne autocertificazione”.

edilizia (universitaria): croce e delizia, stella polare di rettori, presidi e duchi che si cimentino con la politica universitaria. In molti casi vige una straordinaria legge del contrappasso (forse
una patologia lombrosiana) secondo la quale per istituende strutture universitarie si privilegia il riciclaggio di ex carceri o colonie penali ottocentesche, di strutture dismesse dopo l’approvazione della Legge Basaglia (ospedali psichiatrici)… Rara avis è il campus universitario. Campus con alloggi per studenti: voce non pervenuta.

educazione: termine arcaico, probabilmente risalente a substrati linguistici preindoeuropei, comunque attualmente in disuso e a-significante.

esempio: animale estinto perché smise inopinatamente di riprodursi (v. studio, studiare).

FFO (Fondo di Funzionamento Ordinario): ciò che l’apparato statale concede alle università per sopravvivere. Tale fondo, rimasto nel suo complesso immutato negli ultimi decenni (ma questo rientra nella casistica “miracolo di San Gennaro”), ha visto un progressivo e costante decremento per singolo ateneo in relazione all’aumento esponenziale dei richiedenti (che siano pubblici, privati o telematici non fa differenza). La morale è che delle 115 istituzioni
universitarie nessuna oggi è contenta e tutte piangono miseria…

fondazione universitaria: sinonimo di ente pubblico (sic!) o privato, di singola persona assai benestante (!) che nutra il recondito desiderio di finanziare un’università, una sua facoltà, un suo dipartimento. Più semplicemente, conoscendo i meccanismi del Bel Paese, sarà una privata richiesta di elargizione, ad esempio, per l’iscrizione in un prestigioso, italico ateneo.

martedì 20 luglio 2010

PICCOLO DISPERATO DIZIONARIO DEMAGOGICO DELL’UNIVERSITA’ - LETTERA "C"

Pubblico "a puntate" un testo meraviglioso che mi è capitato sotto mano, che mettendo a frutto la dote unica dell'ironia, ci regala una pittura dello stato di degrado dell'italico mondo accademico.

Avvertenza
Si propone all’attenzione del pubblico un nuovo e pratico ausilio lessicale, pensato e realizzato per venire incontro alle esigenze delle giovani generazioni, che si sono trovate ad affrontare la bagarre della protesta senza un efficace supporto terminologico. Gli autori nutrono qualche speranza che i lettori comprendano che il Piccolo Dizionario diventa tanto più demagogico quanto più essi stessi sono disperati. E, comprendendo, perdonino.
(G. Azzena, M. Rendeli)

caccia, all’iscritto: sport di massa. Ha conosciuto il suo vero momento di lancio da quando si è deciso che i criteri di valutazione (v.) degli Atenei dovevano essere squisitamente quantitativi.
Prevede una seconda fase, detta “frollatura”: una volta catturato, l’iscritto deve essere fatto laureare “in fretta”, così da rispondere ad un altro ottimale criterio di valutazione, il “presto”. Nonché “bene”, secondo un altro criterio di valutazione che, per essere eccessivamente “astratto”, è stato infine reso concretamente: “con buoni voti”, occasionalmente (ma non obbligatoriamente) meritati

calciatore/velina: attività sicuramente più redditizie e meno impegnative dello studio e della ricerca universitaria; i.e. esempi da seguire. Non casualmente le due razze (calciatore e velina) spesso si incontrano (cfr. Cassano A., Pardo P., Dico tutto. E se fa caldo gioco all'ombra (Memorie di A. Cassano), Rizzoli, Milano 2008). Fra le seconde ora si annovera un ministro.

carota, il bastone e la: valutazione churchilliana della condotta da tenere con amici e nemici. Tecnicamente plausibile per l’attuale contingenza della italica università, dove parafrasando una intuizione giolittiana “per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano”.

CFU: acronimo che, malgrado ciò che tutti pensano, non vuol dire Credito Formativo Universitario, ma Circasso Fantasmagorico Umorale. Trattasi dell’unità di misura con la quale si pesano le materie, ovviamente inutili (ça va sans dire) impartite nelle università italiane, scaturente dallo stretto rapporto aritmetico tra lezioni frontali e studio individuale. Ad es.: un
tempo l’esame di Storia Romana constava del corso monografico, più 8 volumi da studiare e ben digerire, più 8 mesi di lezione e altrettanti di studio, nonché svariate notti insonni. Alla fine si otteneva: a) un voto, b) conoscere la storia romana. Oggi, grazie alla riforma Moratti, l’esame di Storia Romana consta di ben 6 Circassi Fantasmagorici Umorali. E tanto basti.

clientelismo universitario: slogan mediatico. Quello vero (parentale) rappresenta circa lo 0,5% dei casi. Quello più diffuso (stante un’endemica carenza di veri e propri “geni”) consiste nel tentare di fare entrare nella struttura colui o colei che si sta spezzando la schiena come precario da minimo dieci anni, tralasciando i suoi studi per stare appresso alle esigenze della struttura
stessa (...una vita da mediano...) a compilare moduli, a tradurre in inglese, a scrivere lettere, portare proiettori, a fare seminari, tutorati, laboratori, ma anche lezioni, esami, tesi di laurea… insomma più o meno tutto quello che dovrebbe fare il docente (v.) e che spesso non fa perché troppo occupato a cercare qualche soldo con il quale pagarlo.

CNR: entità parastatale caratterizzata dall’essere sempre stata sull’orlo della chiusura. Oggi il termine è più di sovente usato quale parametro (v.) negativo di comparazione: “l’Università è in crisi, ma sapessi il CNR…!”; oppure: “niente, in confronto a quello che sta succedendo al CNR!”.
Per abuso in tal senso il termine sta assumendo il significato finale di soglia minima di sopravvivenza (“…qui state peggio che al CNR”).

competitività: il vero, fondante, finale parametro (v.) della c. è stato di recente chiarito dal Mìnistro Gèlmini: “siamo più indietro (perfino) del Cile, che produce più laureati che noi”. V. anche “cuscinetti a sfera, produzione di” sul Novissimo Dizionario della Confindustria.

concorso a cattedra: modo arcaico per dire “valutazione comparativa”. Rientra tra i vocaboli politicamente scorretti, come cubista (= operatrice ludica del poliedro regolare), o nano (= diversamente alto), o camorrista (= operatore autonomo economia parallela), o nero (= abbronzato, diversamente bianco). Si tratta di un prova iniziatica che serve ad entrare
nell’università e, poi, a prendere uno stipendio più alto, alla quale è preposta una sacra casta sacerdotale. Prima potevano essere sacerdoti un po’ tutti, ma il Mìnistro Gèlmini (per combattere efficacemente il potere dei Baroni) ha deciso che d’ora in avanti sarà appannaggio esclusivo dei Baroni (cfr. anche: docenza, tre fasce di). Si tratta di prove iniziatiche arcaiche e, per questo, di funzionamento semplice e chiaro, anzi talvolta di una goffaggine disarmante, la cui perversità non sta tanto nei risultati, o nel metodo, quanto nel fatto che chi partecipa sa che, una volta entrato nel meccanismo, prima o poi potrà a sua volta gestirlo. E per questo, e solo
per questo, ne accetta con filosofica rassegnazione i ritmi, gli sviluppi e, talvolta, anche la malvagità. N.B.: Il concorso non è l’unico sistema per accedere all’Università: si v. al proposito quanto riportato sub voce “Inganno, fatta la legge trovato l’”.

conigli, collina dei (oppure, depressione dei): luogo adamsiano (R. Adams, La collina dei conigli, Rizzoli, Milano 2008) nel quale trova dimora la maggior parte dei docenti universitari. Partendo dall’assioma che “tutti gli animali sono uguali ma alcuni son più eguali di altri” (così G. Orwell, La fattoria degli animali, Mondadori, Milano 2001), il sito si connota per il silenzio che lo stordisce nel momento in cui istinti politici di qualsiasi genere mostrano la volontà di cambiare le regole in itinere e non. Gli abitanti del luogo si connotano peraltro per la necessità di prendere parola in occasioni stravaganti, al fine esporre il loro pensiero specie se scevro dalla conoscenza dell’argomento.

corso di laurea: (non) libero mercato, regolamentato da duchi (v.) e baroni (v.), all’interno del quale trovano ospitalità docenti strutturati e non strutturati per la loro attività didattica. L’autonomia
universitaria (v.), del tipo comeinitalia, ha prodotto non raramente mostri (cfr. fig.: F. Goya, Il sonno della ragione genera mostri - acquaforte acquatinta del
1797) privi di futuro, che rispondessero alle esigenze di singoli docenti; nelle piccole università sono più comunemente costruiti a immagine e somiglianza del
duca di turno. St. delle religioni. La moltiplicazione dei Corsi di laurea viene oggi intesa come peccato mortale. La Conferenza Episcopale ha presentato istanza affinché venga annoverata quale undicesimo comandamento (non moltiplicare i corsi di laurea).
Nell’attesa di un riscontro all’istanza, nel Libro Iniziatico della Valutazione (v.), la moltiplicazione viene rubricata come peccato perfino più grave dell’età media troppo avanzata dei ricercatori universitari, già indicata come colpa originale degli stessi.

cultura: voce non pervenuta.

venerdì 16 luglio 2010

I RITI DI DEGRADAZIONE E L’ANNULLAMENTO DELLA SPERANZA

Nel film La grande seduzione, ritirando un assegno di disoccupazione, uno dei protagonisti dice: “Ogni mese non ritiri solo i soldi, ritiri anche la vergogna. I soldi non bastano per quindici giorni, ma la vergogna dura tutto il mese”. Quale ritratto più significativo, emblematico e aderente alla realtà si può oggi immaginare? Quale più tragico e drammatico resoconto di ciò che realmente scardina le sicurezze e la serenità della quotidianità di ognuno si può realizzare?

Denaro e vergogna: le due coordinate metaforiche (e purtroppo non solo) entro cui si include il dramma dei tempi nei quali stiamo vivendo, rispetto ai quali è giunto il momento di levare alto il grido di insopportabilità e rivolta.

Inizia qui quella che vuole essere la fotografia di un paesaggio sfuocato, il ritratto di una bruttura esistenziale, la poesia costruita sulla rima di tragicità e flessibilità, il romanzo di storie senza speranza.

Quattro tappe, almeno inizialmente, che ruotano attorno ad altrettante parole chiave che raffigurano lo stato e lo stadio della degradazione della nostra generazione e dei legami intergenerazionali: il presente senza futuro, la cooperativa senza cooperazione, i figli senza genitori, la flessibilità senza opportunità.

PICCOLO DISPERATO DIZIONARIO DEMAGOGICO DELL’UNIVERSITA’ - LETTERE "A" E "B"

Pubblico "a puntate" un testo meraviglioso che mi è capitato sotto mano, che mettendo a frutto la dote unica dell'ironia, ci regala una pittura dello stato di degrado dell'italico mondo accademico.

Avvertenza
Si propone all’attenzione del pubblico un nuovo e pratico ausilio lessicale, pensato e realizzato per venire incontro alle esigenze delle giovani generazioni, che si sono trovate ad affrontare la bagarre della protesta senza un efficace supporto terminologico. Gli autori nutrono qualche speranza che i lettori comprendano che il Piccolo Dizionario diventa tanto più demagogico quanto più essi stessi sono disperati. E, comprendendo, perdonino.
(G. Azzena, M. Rendeli)

ammicco, cultura dell’:
fenomeno etnologico diffuso tra le classi aristocratiche delle tribù universitarie, per il quale niente è quel che sembra, i tavoli dove si giocano le partite importanti sono sempre “da un’altra parte” e quello per cui vale la pena impegnarsi non è mai quello che stai facendo o che pensi tu, ma quello che stanno facendo e che pensano loro. E che non ti dicono mai.

autonomia: sinonimo di chimera. Termine invalso alla fine degli anni ’80, ad indicare che all’Università è concesso di procurarsi i soldi per campare “in autonomia” (comeinamerica), mentre le leve decisionali restano comunque controllate centralmente (comeinitalia). Detto anche “la bufala” (dell’autonomia), il termine subisce oggi una evidente deriva semantica verso “fondazione” (v.).

autoreferenzialità: 1. patologia psicologica che coglie un buon numero di docenti dopo l’adlectio all’ultima casta (v. docenza, tre fasce di): con essa si intende l’incontrollabile pulsione del soggetto al riferimento unico alla sua esperienza, e alla sua bibliografia (ampia o no che sia);
spesso si accompagna a fasi di totale amnesia in merito ad una storia della disciplina che magari vanta secoli di tradizione; 2. accusa infamante da utilizzare per zittire gli universitari quando si vorrebbero occupare dei problemi dell’università (colleghi, cerchiamo di non essere sempre così autoreferenziali!); esiste tuttavia un modo, senza ricorrere a insulti così sanguinosi, per combattere questo tipo di assurda sedizione: basta invitare in TV, a discutere “di università”, veri esperti del ramo quali Alexis Tsoukias e Luca Barbareschi.

baroni: poveri cristi, additati dai media come i padri-padroni-padrini dell’Università: in realtà malinconici funamboli che vivono nel ricordo e nella nostalgia dei veri, antichi baroni-universitari, e sotto il tacco dei Governi, dei duchi (v.), e dei giovani (si fa per dire) colleghi non-baroni che li accusano di essere baroni.

base, ricerca di:
quella che non si fa più. Si fanno solo ricerche “di eccellenza” “di rilevante interesse nazionale”, “europee”, “di rilevante interesse europeo”. Nel senso che se io voglio fare una ricerca sugli insediamenti neolitici nel territorio di un minuscolo Comune italiano devo dichiarare, sotto la mia responsabilità, che si tratta di una ricerca “di rilevante interesse nazionale” (PRIN), se non europeo, entrando involontariamente (ma non troppo) in competizione con quella sul cancro.

beni e attività culturali: poliedrico settore della vita del nostro paese, utilizzabile in prossimità di eventi elettorali. Frequentato, nei periodi non elettorali, solo da talebani che ritardano pericolosamente la ripresa economica mediante ridicole attività, solitamente di emergenza (i.e. terroristiche), non confacenti al progresso della Nazione. N.B.: la voce specifica è stata inserita a causa della nota situazione di disperazione permanente degli Autori, ma potrebbe essere estesa anche ad altri campi del sapere privi di ritorno economico, tipicamente ricordati solo in occasione della consegna dei premi Nobel.

bocconiano: figlio di ricchi, ma intelligente (cfr. anche normalista). Non sempre simpaticissimo.

giovedì 8 luglio 2010

Finalmente una tragica e lucida testimonianza di consapevolezza

In difesa dell'Università

Documento redatto dai Professori:
Claudio Ciancio
Mario Dogliani
Federico Vercellone

Il corpo accademico continua ad essere smarrito e silenzioso. È come un pugile frastornato: non reagisce ai colpi che vengono inferti all'Università - e dunque innanzi tutto a chi in essa vive e la fa vivere - da una campagna carica di disprezzo e di irrisione e da una serie di atti governativi devastanti (ampiamente condivisi, nella sostanza ispiratrice, anche dall'opposizione). Continua a subirli in silenzio, rannicchiato su se stesso. Non ha mai trovato le forme collettive di una reazione.

Qualcuno ha paragonato l'Università italiana di oggi alle Signorie del Cinquecento, che si rivolsero alle potenze straniere perché non sapevano risolvere i loro problemi. Ma l'immagine più propria è quella di una colonna di prigionieri stracciati e dagli occhi vuoti, che strascicano i piedi sotto il controllo di poche guardie armate. Nel cap. 18 del Genesi si narra di come Dio si lasciò impietosire da Abramo promettendogli che avrebbe salvato Sodoma se si fossero trovati almeno dieci giusti. Il senso del racconto è chiaro: qualunque "luogo" può essere salvato da una minoranza. Anche l'Università, dove i giusti sono certamente più di dieci. La sanior pars del corpo accademico, però, non ci crede più. Le colpe per le malefatte di molti, nel corso almeno delle ultime generazioni, pesano come un macigno. È inutile nasconderlo. La paralisi politica di tanti studiosi di valore deriva da un senso di fatalità di fronte a un castigo collettivo percepito come inevitabile e, in fondo, giusto.

Ma chi ha finora giustamente operato non deve sentirsi oppresso e condannato irrimediabilmente all'impotenza da questo senso di colpa collettivo. E non deve nemmeno rassegnarsi a quelle componenti vili del mondo universitario che pensano basti piegarsi, come il giunco sotto la piena, perché nulla in sostanza muti. Con questa rassegnazione la miglior parte del corpo accademico - che non teme nessuna valutazione e nessun confronto scientifico - legittima le ragioni del disprezzo di cui esso è investito, e contribuisce con le sue stesse mani a corrompere la figura dell'Università italiana di fronte alla comunità scientifica internazionale. La prima internazionalizzazione che noi stessi avalliamo è quella del nostro disprezzo.

Per altro è assurdo che, nonostante i comportamenti perversi di molti, invece di estirpare il male si voglia uccidere il malato. Altrettanto assurdo è non riconoscere che le responsabilità dei mali dell'università coinvolgono non solo il corpo docente ma vanno imputate anche, e in misura non minore, ai vari dicasteri preposti all'università nell'ultimo ventennio. E non ci risulta che il MIUR riceva sanzioni a causa del proprio precedente operato. È doveroso e necessario reagire. L'effetto congiunto del ddl cd. Gelmini, della manovra finanziaria - che va ad aggiungersi a quella avviata nel 2008, sotto il profilo dei tagli e dei sottofinanziamenti - e della protesta dei ricercatori aprono uno scenario nel quale il corpo accademico non può più rimanere inerte e affidarsi al senso di responsabilità che, in una logica bottom up, si confida finirà per prevalere nel Governo, che non potrà (si dice) chiudere le università per asfissia e fame. Il che è assolutamente contraddetto dal fatto che la strategia "affamare la bestia" è ben consapevole e meditata.

E c'è un motivo morale per reagire: non possiamo nasconderci dietro i magistrati, i ricercatori o la protesta del personale tecnico-amministrativo, che vede colpiti i propri bassi redditi al di fuori di ogni equità: non possiamo affidare ad altri la pressione sociale necessaria per invertire la rotta. Il corpo accademico deve, per quanto riguarda l'Università, farsi "classe generale" e assumere su di sé la responsabilità per il futuro di tutto il mondo universitario, compresi - s'intende - gli studenti e il personale tecnico amministrativo.Per invertire la rotta è necessario partire dalla questione fondamentale, e suscitare una discussione che la sottragga alle misere secche in cui è stata costretta dall'arroganza di alcuni e dalla rassegnazione di molti.

II. La minaccia all'autonomia dell'Università, fondata sull'accusa di autoreferenzialità e disfunzionalità sociale ed economica, nasce da una visione organicistica e totalitaria, che non tollera corpi e funzioni autonomi né nello stato né nella società. C'è perfetta coerenza tra l'attacco all'Università e l'attacco alla magistratura. Il secondo è fondato sull'idea che il potere si concentri tutto nell'esecutivo in quanto espressione del voto popolare, mentre il primo è fondato sulla riduzione all'unico principio della funzionalità tecnico-economica. Queste tendenze stanno in singolare contrasto con la rivendicazione delle autonomie territoriali e del principio di sussidiarietà, un contrasto che si risolverà facilmente quando quella rivendicazione mostrerà tutto il suo carattere illusorio.

Il primo difetto di ogni concezione organicistica è, come dimostra l'esperienza storica, la tendenza all'implosione. Così la mancanza di autonomia della magistratura produce disordine nell'esercizio del potere politico, che non può svolgersi correttamente proprio perché privo di controlli. Analogamente con la mancanza di autonomia della ricerca e della cultura viene meno l'alimento e la possibilità di progresso tecnico ed economico. L'autonomia delle diverse sfere è infatti la condizione di possibilità del reciproco sostegno e incremento.

In un suo tardo corso di lezioni Schelling scriveva: «Proprio per il motivo per il quale da taluno vengono rimproverate le Università, di tenere cioè il giovane in uno stato di troppo grande astrazione rispetto al mondo (come se egli non esigesse proprio questo, che gli vengano garantiti in forma serena e non turbata lo sviluppo e la formazione delle sue capacità spirituali), proprio per questo le nostre Università sono organismi ordinati, degni di essere mantenuti e degni di gloria». Non può non colpire il fatto che queste parole (che non sono una richiesta ma la constatazione dello stato di fatto) siano pronunciate nel 1841 a Berlino: la monarchia assoluta prussiana era capace di garantire quell'autonomia delle Università che le nostre democrazie non sono più in grado di garantire. Certo si può dire che un potere politico forte è in grado di offrire queste garanzie di autonomia, ma non si può nemmeno ignorare che la sua forza deriva anche dalla sua capacità di offrirle.

Nella prima pagina della sua Storia della filosofia Abbagnano sottolineava (ed è una cosa che ripeteva spesso a lezione) che, secondo una tradizione risalente ad Erodoto, la matematica «sarebbe nata in Egitto per la necessità di misurare la terra e spartirla tra i suoi proprietari dopo le periodiche inondazioni del Nilo» conservando così «un carattere pratico, completamente diverso dal carattere speculativo e scientifico che queste dottrine rivestirono presso i Greci». Di questa differenza era consapevole Platone quando contrapponeva «la passione di apprendere che si potrebbe attribuire particolarmente al nostro paese» all'«amore del denaro [Š] che si riscontra fortissimo presso i Fenici e gli Egizi» (Repubblica, 435 e).

Sta di fatto che il primato dell'interesse pratico ed economico non ha prodotto quello sviluppo della scienza che la speculatività greca ha prodotto consegnandolo all'occidente e rendendo possibile uno sviluppo economico e tecnologico che altre tradizioni, più pratiche, non hanno conosciuto. È ben noto come, anche successivamente, lo sviluppo scientifico abbia conosciuto un particolare incremento quando il sapere si è sottratto alla sua funzionalizzazione religiosa, sociale e politica. Comprimere la ricerca pura in nome di una qualsivoglia destinazione del sapere significa bloccarne la crescita. Scoperte e innovazioni sono possibili se si è aperti a qualsiasi esito della ricerca, mentre esse sono fortemente inibite quando la finalità è sempre già predeterminata dall'esigenza di un utilizzo economicamente e tecnicamente produttivo dei suoi esiti.

Jean-François Lyotard, nel suo famosissimo La condizione postmoderna - volume che nacque come un Rapporto sul sapere nelle società più sviluppate, richiesto dal Consiglio universitario del Governo del Quebec (altri stili, altri cervelli...) - scrive: «L'espansione della scienza non si produce attraverso il positivismo dell'efficienza. Al contrario: lavorare alla prova significa ricercare e "inventare" il contro-esempio, vale a dire ciò che è intelligibile; lavorare all'argomentazione significa ricercare il "paradosso" e legittimarlo attraverso nuove regole del gioco del ragionamento. In entrambi i casi l'efficienza non viene ricercata per se stessa: essa viene per eccesso, a volte tardi, quando i finanziatori si interessano finalmente al caso». Ma noi non abbiamo finanziatori-osservatori attenti; abbiamo solo la miopia di chi concepisce l'Università come luogo in cui praticare l'outsourcing di funzioni aziendali, scaricandone il costo sui rottami del sistema pubblico.

L'immediata destinazione applicativa della scienza fornisce un potente impulso alla demolizione dell'autonomia della ricerca attraverso la sua parcellizzazione, che l'allontana dai suoi fondamenti, cioè dai luoghi in cui può trovare i punti di contatto con gli altri saperi e le altre sfere della cultura. Non si tratta certamente di passare da un eccesso all'altro disprezzando il sapere applicato, ma di non interrompere la sua connessione con la libera ricerca di base, una connessione che, sia pure in modo mediato, finisce per avere ricadute feconde sullo stesso sapere applicato. Come ha osservato Michel Henry in La barbarie, oggi l'attacco all'autonomia del sapere e dell'Università non proviene dal totalitarismo politico e neanche prevalentemente dalla sfera economica, quanto piuttosto dalla tecnocrazia, che tende ad espellere la cultura orientando ogni processo formativo all'acquisizione di abilità tecniche senza riguardo agli effetti negativi che così si producono sullo sviluppo di queste stesse abilità.

Possiamo facilmente constatare come la cultura venga tendenzialmente ridotta a momento ludico-distensivo, spettacolare e consumistico. La parcellizzazione del sapere danneggia poi quel che resta della ricerca di base. Essa si arricchisce infatti della reciproca relazione fra le diverse scienze e le diverse sfere della cultura: idee estetiche o filosofiche, per fare un esempio, possono ispirare nuovi modelli scientifici e viceversa. Sappiamo benissimo che l'unità del sapere resta un ideale, ma è molto diverso tenerlo come stella polare o abbandonarlo. Il mantenimento di «uno spirito comune scientifico» è e resta, come già Schelling auspicava, una delle missioni fondamentali dell'Universitas.

Non va poi trascurata l'enorme funzione formativa che può avere una convergenza dei saperi per superare le schizofrenie dell'uomo contemporaneo. Ciò che è in gioco è la ricchezza e la profondità dello spirito personale, che da un lato sono un valore in sé e dall'altro sono le condizioni per l'innovazione e la crescita del sapere, anche di quello tecnico. Purtroppo non ci si avvede di come una civiltà tecnocratica - di cui un'università tecnocratica è una componente decisiva - si avvii verso "la barbarie" di cui parla Henry. Occorre allora sostenere l'autonomia e la tendenziale unità del sapere come dimensioni che devono sempre accompagnare qualsiasi formazione universitaria per quanto essa possa e debba essere orientata alla professionalizzazione. E non si deve avere paura di ciò che immediatamente appare disfunzionale o ritardante rispetto alla velocità dei processi tecnologici e in generale della dimensione applicativa riconoscendo che nella crescita del sapere ciò che è immediatamente disfunzionale può diventare ciò che è alla lunga più funzionale.

La delegittimazione di questa Università, cui hanno certo contribuito anche comportamenti scorretti delle sue componenti, è un passaggio decisivo verso la sconfitta dell'Occidente nel processo di globalizzazione, una sconfitta che non è deprecabile tanto per la perdita di egemonia che essa comporta quanto piuttosto per l'estremo impoverimento umano che porta con sé. Un impoverimento conseguente al decadimento di un ideale di universalità del sapere che è, nonostante tutto, da sempre proprio della cultura occidentale. Questa difesa della tradizione universitaria non è una semplice riproposizione del modello humboldtiano, ma è il tentativo di riconoscere nell'autonomia della ricerca una ricchezza effettiva del paese, un patrimonio il cui significato e valore non può essere commisurato sulla base di un ritorno effettivo a breve scadenza, e che tuttavia può essere commisurato e valutato in modo adeguato.

Investire nell'università non costituisce affatto, da questo punto di vista, un modo di dissipare risorse che, utilizzate altrove, fruttificherebbero in modo più significativo. Investire sul sapere significa riconoscere e riconoscersi una sorta di capacità di programmare sul medio e lungo termine che è testimone della forza delle istituzioni statuali di un paese. E non è improbabile che la stessa debolezza congenita della nostra Università dipenda da un'altra altrettanto congenita debolezza delle nostre istituzioni politiche che vivono in uno stato di assoluta precarietà; che possono subire, come un'invasione, la presenza di una parte politica o dell'altra senza aver la capacità di mantenere un indirizzo autonomo.

A questo proposito bisogna chiedersi: com'è possibile che un Ministero condanni (non solo orienti a un diverso indirizzo, come è ovviamente legittimo, ma rinneghi nella loro sostanza, in riferimento ad istituzioni che godono di un'autonomia costituzionalmente protetta) le proprie precedenti politiche dopo che si sono modificate le maggioranze di governo? Gli organi dell'Amministrazione centrale da cui dipende la vita di istituzioni costituzionalmente garantite non dovrebbero essere relativamente autonomi dal conflitto politico? Non ci si rende conto che immergendoli in quest'ultimo le si disintegra e si produce un disorientamento gravissimo nell'ambito di coloro che devono fare istituzionalmente riferimento alle loro direttive? Se lo stesso Ministero riconosce come radicalmente sbagliati i propri precedenti comportamenti, questo potrebbe valere anche per il futuro, in occasione di un ulteriore cambio di guida politica.

Un andamento di questo genere produrrebbe (se non ha già prodotto) un totale scetticismo nei confronti delle istituzioni, una disaffezione nei loro confronti da parte dei cittadini, degli utenti e dei loro dipendenti. E ben difficilmente la disaffezione e lo scetticismo producono l'efficienza che oggi tanto si auspica.Si tratta invece di cogliere la genesi dei mali dell'università per indirizzare meglio, e cioè in modo oculato e differenziato, più e non meno risorse. Questo significa per esempio interrogarsi non solo sull'andamento dell'Università ma su quello dei nostri istituti di ricerca in generale. Ora l'Italia è forse l'unico paese in Europa che abbia incanalato tutte o quasi tutte le risorse della ricerca nell'Università. Questo significa che il tracollo dell'Università produrrebbe il totale tracollo della ricerca italiana che non può contare su istituzioni come la Max Planck Gesellschaft tedesca o il CNRS francese.

Che questo paese non sia stato mai in grado di pensare davvero che la ricerca sia un valore in sé è dimostrato anche dalla quasi totale assenza di strutture di pura ricerca, che potrebbero interagire con l'Università contrastando la tendenza a finalizzare la sua attività di ricerca esclusivamente alla professionalizzazione. È sulla base di questa mentalità, che favorisce la parcellizzazione del sapere, e sulla spinta delle istituzioni locali che si è creata un'eccessiva proliferazione di sedi decentrate (ancor più che di atenei). Non era meglio sviluppare centri di ricerca autonomi, più attrezzati e più efficienti quanto alle loro finalità, rispetto a molte sedi periferiche? In questo modo si sarebbe perseguita quell'"eccellenza" di cui tanto si parla senza produrre i guasti attuali. In questo modo forse avremmo ancora ventenni e trentenni che percorrono con entusiasmo le vie della ricerca, e non quel panorama tristissimo di giovani ricercatori senza prospettive (e disillusi quanto i loro professori) che abbiamo dinanzi. Su questa via si potrebbe procedere senza produrre tracolli e senza aggravare i bilanci, ma anzi arricchendo il panorama delle istituzioni culturali del nostro paese. Non si potrebbe orientare gradualmente il cammino, senza traumi, proprio in questa direzione?

Ora è chiaro che produrre il tracollo dell'Università con i tagli attuali significa far crollare non solo l'istituzione didattica che va sotto questo nome ma anche l'unica (o quasi) struttura pubblica dedicata alla ricerca. Ed è ben evidente che una didattica che non venga sostenuta dalla ricerca produce stanche e disinformate ripetizioni da parte di un personale docente umiliato che si sentirà sempre più indotto a svolgere i propri compiti per puro dovere di firma. C'è modo di procedere diversamente aumentando semmai finanziamenti da sempre largamente insufficienti, con una distribuzione delle risorse fondata soprattutto sul merito scientifico, con un'incentivazione anche economica che faccia riferimento a questi parametri. Occorre dunque spendere per valutare e per valutare bene. Con gli attuali criteri si ottengono valutazioni ancora troppo vaghe.

Si tratta di creare un corpo docente convinto dei propri compiti e orgoglioso dell'istituzione in cui lavora e che sia dunque fermamente determinato e incentivato a rappresentarla secondo uno spirito di servizio e di correttezza. È ben evidente, per finire, che i tagli sugli stipendi produrranno l'esatto contrario: la ricerca di compensazioni economiche e d'immagine al di fuori dell'università e l'inclinazione a fare il minimo indispensabile.

III. Alla luce a) di queste gravissime preoccupazioni che coinvolgono non solo i tagli previsti ma anche le indicazioni quanto mai caotiche relative al nuovo assetto dei Dipartimenti e delle Facoltà, b) delle facilmente prevedibili difficoltà di carriera in cui verranno a trovarsi gli attuali ricercatori, e c) del prevedibile perpetuarsi sine die del precariato per chi si avvia alla carriera accademica, si propone ai Colleghi di riflettere su iniziative di protesta quali: - Sciopero di tutto il personale docente dell'Università; - Sospensione delle sessioni di esami ivi comprese quelle di laurea; - Rinvio dell'inizio delle lezioni.

Per aderire si prega di scrivere a
Claudio Ciancio (claudio.ciancio@fastwebnet.it) o Mario Dogliani (mario.dogliani@unito.it)
o Federico Vercellone (federico.vercellone@unito.it).

martedì 1 giugno 2010

Una delle prove della grande penna di Diamanti

BUSSOLE
Una società senza baroni
(e possibilmente senza università)
di ILVO DIAMANTI


Tratto da Repubblica.it
31 maggio 2010

Pare che gran parte dei problemi del paese siano riassumibili nel binomio vizioso Statali-Professori. Certo, altre categorie sono, da tempo, bersaglio di critiche durissime. Fra tutti: i magistrati. Ma loro, almeno, hanno potere. Altrimenti non continuerebbero ad essere, dopo tanti anni, al centro di attacchi – sempre più duri - da parte del premier e della classe politica - soprattutto, ma non solo – di centrodestra. Degli statali, invece, “non glie ne frega niente” a nessuno, ormai. La manovra finanziaria del governo, per metà, grava su di loro. Il che - al di là del merito – non ha sollevato nessuna reazione, nessuna protesta. Quasi che, ormai, non si attendessero alcun ascolto. Perché reagire se non ti aspetti alcuna solidarietà sociale - visto che, da fannullone quale sei, il tuo stipendio è, per definizione, rubato?

La posizione dei professori universitari è, in parte, diversa. Difficile sostenere che non contino nulla. Ma, sicuramente, sempre meno. D’altronde, nell’università (iniziale minuscola) non si investe più. (Come nella Cultura: iniziale maiuscola.) Un ambiente in cui è lecito risparmiare, “tagliare”, se hai bisogno di ridurre la spesa pubblica. Tanto la colpa è soprattutto loro. Dei Baroni. Che costano tanto e fanno poco. Anzi, nulla. In fondo sono “statali”. I Baroni: non si riesce a mandarli via. Fino a poco anni fa andavano in pensione quasi a 80 anni. Poi, l’età della pensione, per loro, si è abbassata. Fino a 70. Raro caso – forse unico - in cui si spinge per anticipare l’età della pensione, invece di ritardarla. Ma, come si sa, i Baroni non solo costano, fanno poco o nulla. In aggiunta, impediscono il reclutamento dei più giovani. Visto che, ormai, l’età media dei ricercatori si aggira intorno ai 50 anni. Mentre l’università si è popolata di figure precarie che più precarie non si può. Assegnisti, borsisti, contrattisti. Chiamati, per quattro soldi (e a volte neppure quelli)
a far di tutto. Anche lezione, ovviamente. Come i ricercatori – sempre più attempati, ma ancora ricercatori. E chiamati, ovviamente, a tenere corsi, a fare anch’essi i “professori”. Senza esserlo. Anzi, restando ricercatori – a vita. Visto che il reclutamento è bloccato (non dai Baroni) e loro sono divenuti un ruolo “a esaurimento”. Rimpiazzati da nuovi ricercatori – ma a tempo determinato. Tanto per chiarire che il futuro dell’università è incerto. A tempo determinato, appunto. Come la cultura. Di eterno, ormai, c’è solo il presente. E il premier.

Così, per rimediare, per svecchiare il corpo docente, per ridurre la spesa universitaria, per accelerare il turnover, conviene spingere i Baroni fuori dall’università il più presto possibile. Va in questa direzione la proposta del PD approvata dall’Assemblea nazionale: mandare i Baroni in pensione “ obbligatori” a 65 anni. Mario Pirani, nella sua “Linea di confine”, una settimana fa ha già espresso, al proposito, critiche molto accurate. Da me, molto condivise. A cui aggiungerei un appunto. Molto personale – lo ammetto.

Riguardo all’invecchiamento dei Baroni, ma anche gli altri: i Conti e gli Scudieri. Gli Associati e i Ricercatori. I quali sono “vecchi” non (tanto) per colpa dei Baroni, eterni e immortali. Ma del meccanismo stesso che regola il reclutamento e le carriere nell’università. Autobiograficamente: io, che non ho avuto Baroni a trainarmi, ma molti colleghi e maestri, con i quali ho collaborato, studiato, scritto e pubblicato, ebbene, sono diventato di “ruolo”, ho, cioè, vinto il concorso di ricercatore, quando avevo 40 anni. Prima - e per 14 anni - ho fatto il precario. A mia volta: assegnista, borsista, “ esercitatore”. E poi dottorando e dottorato. Per mantenermi (ma anche per passione), ho diretto un ufficio studi sindacale, poi ho fatto il ricercatore di professione. Così come, durante gli studi universitari, per sostenere i costi e aiutare la famiglia, ho fatto molti altri “lavori”. Fra l’altro: il benzinaio, l’assicuratore, il venditore di enciclopedie, l’operaio. Un’esperienza veramente formativa.

Poi, a 40 anni, dopo tanti anni precari, tante ricerche e tante pubblicazioni (non avere Baroni ha i suoi lati positivi; in particolare: sei più libero), finalmente ricercatore. E quindi uno stipendio regolare per fare quel che mi piace e avevo, comunque, fatto da sempre. Per questo non l’ho mai concepito come un “lavoro”. Da allora, pochi anni dopo, sono divenuto un Barone (ora si dice così). Anche se come Barone sono un disastro, a valutare dalla capacità di curare la politica interna all’accademia (per informazioni, chiedere ai colleghi – più giovani - che collaborano con me). Preferisco fare ricerca, scrivere, insegnare piuttosto che gestire i concorsi. Se davvero mi chiedessero di andare in pensione a 65 anni, temo che, alla scadenza, non raggiungerei i requisiti minimi di anzianità richiesti. A meno di non “riscattare” (si dice così?) gli anni della laurea, del dottorato, ecc… A un costo, mi si dice, tale da azzerare i primi anni di pensione. Per fortuna, ho ancora un po’ di tempo – un po’ di anni di università - davanti, per organizzarmi.

Tuttavia, dubito seriamente che, al mio posto e con il mio stipendio, entrerebbero tre nuovi, giovani ricercatori, come si ipotizza. Intanto perché di giovani, all’università, non ne vedo più. I collaboratori, intorno a me, ormai hanno i capelli bianchi, hanno messo su famiglia, sprezzanti del rischio: hanno persino fatto figli. Magari potessero subentrare a me, loro, precari ad alta qualificazione e con “tanti tituli”. Se così fosse davvero, me ne andrei prima. Anche subito. Magari all’estero, dove in un paio di università, almeno, e in un paio di paesi, almeno, un vecchio Barone come me troverebbe ancora posto. Senza molti problemi

Ma continuo a dubitare che al posto dei Baroni 50-60enni, subentrerebbero davvero tanti giovani ricercatori. Credo e, anzi, temo che – invece - il “taglio” avverrebbe con pochi rammendi. Senza turnover. Chi è fuori ci resterà, raggiunto dai neopensionati. Tutti in cammino verso una società senza (o meglio: con sempre meno) “statali”. E senza Baroni. Verso una società popolata da lavoratori autonomi. Artigiani, commercianti, liberi professionisti. Imprenditori. Grandi, medi, piccoli e piccolissimi. E da lavoratori dipendenti. Ma Privati. D’altronde, come rammentava Eugenio Scalfari domenica scorsa, “gli statali votano in larga maggioranza a sinistra”. E, aggiungo, i Baroni ancor di più. “Il loro scontento non peserà, se non marginalmente, sul consenso raccolto dal governo”. Perché mai, dunque, dovrebbe preoccuparsene il governo insieme alla Lega e al centrodestra?

Mi sfuggono, semmai, i motivi, le ragioni per cui ci stiano pensando l’opposizione e il PD. Forse perché è più facile – e popolare - combattere i Baroni che il Cavaliere.
(31 maggio 2010)

Una delle prove della sterilità delle attuali forze politiche

LINEA DI CONFINE

Se l'Università rottama i professori a 65 anni
di MARIO PIRANI


Tratto da Repubblica.it
31 maggio 2010

Speriamo di sbagliare ma è lecito il timore che qualche spiraglio di demagogia riesca ad influenzare il Pd. Con la suggestione che laddove gli argomenti della ragione non riescono a prevalere l'appello populista, di cui - non dimentichiamolo - la destra ha l'imbattuto copyright, riesca a rianimare gli spiriti. Di qui il ricorso all'improperio di un personaggio serio e di buon senso come Bersani, ma ancor più grave il documento sull'Università votato senza discussione dalla stessa assemblea del Pd che aveva applaudito in piedi l'epiteto contro la Gelmini. Si tratta di un documento proposto da una esponente delle nuove leve, la professoressa Maria Chiara Carrozza, direttrice della Scuola Superiore Sant' Anna di Pisa, responsabile del "Forum Università Saperi Ricerca" del Partito che lo aveva già illustrato in una intervista alla Stampa. Il clou dell'iniziativa è individuabile in una "rottamazione" generale dei professori al compimento dei 65 anni (di contro agli attuali 70). Da qui si dovrebbero ricavare risorse capaci di finanziare un cospicuo turn over a favore dei ricercatori. Era stato annunciato che questa innovativa riforma sarebbe stata discussa all'assemblea nazionale assieme ad altri temi (lavoro, giustizia, ecc.) ma risulta che solo sul tema del lavoro le proteste del professor Ichino sono sfociate in una discussione e votazione a maggioranza dei 700 delegati, ma su un argomento complesso come quello della cultura universitaria (a cui non molto tempo fa Italianieuropei aveva dedicato un appassionato e documentato seminario) è stato ridotto al rango di un qualsiasi odg che si vota in assemblea con un Sì o con un No.

Non resta che rifarsi all'intervista di presentazione, la cui forma e contenuto riecheggiano la animosità antiaccademica propria di alcuni ambienti della destra leghista ed ex-An: "mandare a casa i vecchi" e "fare largo ai giovani!", togliere potere ai "baroni", presentati come anziani nullafacenti, attaccati alle loro cattedre, ecc. Il riferimento al potere dei baroni, per chiunque conosca appena la situazione di disintegrazione del sistema e la metamorfosi delle funzioni e dei ruoli tradizionali della ricerca e degli studi all'interno delle Università-Aziende, appare come una farsesca ripresa degli slogan dei movimenti sessantotteschi, e infatti viene oggi adoperato in funzione apertamente populista da parte di associazioni studentesche di sinistra e di destra, (in particolare Azione Giovani). Ma colpisce ancora più l'insipienza del ragionamento che supporta la proposta stessa, e che consiste nella convinzione dell'effetto benefico che il cosiddetto "shock generazionale" dovrebbe produrre all'interno di un sistema delicato qual è quello dell a ricerca e degli alti studi. Secondo la professoressa Carrozza il ricambio di competenze e di esperienze può, anzi deve, realizzarsi attraverso traumatiche liquidazioni di esperienze di gruppi e di scuole, deve prodursi cioè con sostituzioni di stock di personale. Un conteggio approssimativo degli effetti della proposta, se attuata ad oggi, lascerebbe prevedere la sparizione da un giorno all'altro di circa 6.000 professori, di cui 4.000 ordinari, con una falcidie di specializzazioni scientifico-disciplinari difficilmente recuperabile o risanabile, e con un abbassamento di qualità e di prestigio globale della nostra Università. Nel quinquennio successivo si aggiungerebbero altri 5.000 pensionamenti di ordinari e 3.200 di associati, con un ricambio di circa il 50% dei professori titolari di cattedra. Per valutare la poca consapevolezza che sovrintende questa trovata, va ricordato che l'esodo fisiologico, al compimento dei 70 anni, prevede peri prossimi dieci anni l'uscita di 9000 ordinari e 5200 associati e che il bilancio risultante da questo esodo assicura già un ordinato scorrimento di carriera per gli attuali ricercatori, nonché un reclutamento di nuovi ricercatori a tempo determinato.