mercoledì 18 febbraio 2009

Il cancro interno che divora i leader

E alla fine è successo quello che doveva succedere: il morbo invisibile ma oramai noto a tutti, la malattia congenita pur se principalmente sottocutanea, il virus per il quale hanno tutti l’antidoto e nessuno è riuscito in raltà a debellare ha colpito ancora la sinistra italiana e ha finito per uccidere l’ennesimo suo leader. E così l’idea originale che doveva essere il traino della politica italiana e che tutti dovevano inseguire è diventata di colpo il carretto nuovamente carico di reduci sorpresi, costretti a correre ai ripari e ad assistere al partito unico dei propri avversari; il progetto di un’Italia nuova e di una politica ringiovanita è diventato improvvisamente il bozzetto acciaccato di idee soffocate da conflitti interni e stracciato dall’inattualità dei soliti vecchi; l’innovazione carica di ossigeno pulito e capace di coinvolgere un movimento di base molteplice e numerosissimo è diventata in un istante la soffocante nostalgia di logiche logore e passate, logiche che un accanimento terapeutico narcisista e autoreferenziale continua a tenere in vita.
Ed eccoci ora alle solite analisi del giorno dopo, alle consuete lodi della vittima e alle già viste ipotesi di resurrezione: la verità è che Veltroni è stato colpito a morte da un’incapacità di fondo, da una schiavitù subita ma soprattutto dalle scorie tossiche della Chernobyl del comunismo che ancora infettano luoghi e soggetti della sinistra italiana.
La capacità veltroniana di catalizzare persone e valori, aree e correnti (dote e valore innegabile all’interno di un partito che non avrebbe potuto senz’altro trovare una figura alternativa così trasversale e catalizzatrice) si è trasformata però nell’incapacità di mettere in gioco e a frutto la leadership giustamente conseguita, troppo appiattita sulla facciata della comunicazione (in sé senz’altro non un difetto) e del messaggio mediatico più che sui contenuti (il governo ombra che non ha prodotto leggi ombra, le scuole di formazione che sono state spesso una passerella di nomi), troppo spesso rivendicata in momenti di difficoltà senza forgiarla effettivamente nel fuoco di un congresso o di effettivi dibattiti interni, troppo poco in grado di tenere a bada in modo fecondo tradimenti e subdolerie carsiche.
L’accettazione veltroniana di traghettare l’ennesimo passaggio difficile del centro-sinistra italiano, regalandogli la barca prestigiosa di questa sua nuova casa si è trasformata nella schiavitù di un marchio, di una novità, di una comunità chiamata a raccolta troppo velocemente, senza ottenere una chiara ed esplicita disponibilità a lasciare a terra il vecchio e portare in mare solo uno sguardo nuovo sul futuro. La nave, costruita in fretta e furia, realizzata con qualche compromesso rispetto all’altezza del progetto, ha cominciato a scricchiolare; ed ecco allora che non è scattata quella solidarietà tanto invocata e sbandierata verso gli altri e lo straniero, ma stranamente così impossibile per le difficoltà della propria nave e dei propri compagni di viaggio: i primi brontolii, i primi ammutinamenti e il capitano reso schiavo di rotte indecise e insoddisfacenti.
Ma resto dell’idea che la ragione più seria e grave di tutte non pesa certo sulle spalle veltroniane, ma costituisce il vero cancro della sinistra italiana e ha purtroppo un esito nocivo per l’intero paese: un cancro che si chiama incapacità di governare, o meglio non volontà di governare. Lo scoppio del comunismo ha prodotto in Italia una serie di monadi-partito, incapaci di compromessi e dialoghi, autoreferenziali e moniste, in grado solo di scindersi e continuare a scindersi per il gusto di distinguersi e trovare così il modo di dare voce alla propria opposizione. Eccolo il grande male: volere ostinatamente levare parole di opposizione e di critica, solo di opposizione e di critica, per il gusto stantio di mostrarsi come gli autentici e puri portatori del massaggio originario della sinistra; ciò, a costo di rinunciare a qualsiasi progetto per il Paese; l’importante è poter rivendicare un’opposizione ferma e ferrea, a prescindere. E se le scorie dello scoppio sono queste modani, le conseguenze sono duplici: primo che si assiste ad un processo curioso, che sta portando ad una sorta di triste coincidenza tra individuo e partito, e quindi alla creazione di soggetti politici nel senso letterale – ed individuale – del termine; secondo, ed è il vero dramma, che questa malattia mortale sta mietendo vittime illustri e moderate, sta facendo scomparire le uniche figure di mediazione, sacrificate sull’altare del dialogo e della novità. Se la risposta migliore al cesarismo berlusconiano che il centro-sinistra sa dare è l’omicidio politico di tutte le figure di dialogo, la conseguenza che ci aspetta è la miseria di tanti piccoli prepotenti semplici finti leader che litigano tra loro e lasciano, per anni, il paese in mano a chi bellamente li guarda e sorride.

martedì 17 febbraio 2009

Massimo D'Alema: il "Gollum" della sinistra italiana

Chi di voi ha avuto l’opportunità di leggere o vedere al cinema “Il Signore degli Anelli” penso sia rimasto impressionato, come il sottoscritto, da una delle sue figure più particolari, inquietanti e suggestive, ovvero Gollum, o Sméagol che dir si voglia, a seconda che ci riferiamo alla sua origine Hobbit o alla sua deriva folle. E’ sicuramente una delle figure più controverse di tutta la saga, ma ha tre caratteristiche importanti, che mi interessa specialmente mettere in luce qui: è presente in tutta la trilogia, ma addirittura fin da “Lo Hobbit”, dove ci viene raccontato il suo incontro con Bilbo; rappresenta senza dubbio la metamorfosi causata dalla bramosia di quel segno di potere e di poteri che era l’Anello d’oro; raffigura l’opportunismo di chi sa fingere di pensare al bene dei propri compagni di viaggio e ha invece in mente solo il proprio personale ed egoistico obiettivo.
Ecco, fatta la tara all’imbrutimento estetico che Sméagol subisce dopo aver conquistato - temporaneamente - l’Anello, divenendo, per l’appunto, Gollum – che risalta ancora di più in confronto al baffo e al brizzolato del soggetto in questione – penso proprio che Massimo D’Alema sia il Gollum della politica e della sinistra italiana. Mi perdonerete l’esagerazione e l’esasperazione del confronto, ma la stanchezza che nutro nei confronti della sua onnipervasiva capacità di influenzare, complicare – a tratti rovinare – il corso della storia politica e della maturazione (?) della sinistra italiana, nonché la sua esasperata ricerca di un primato politico-culturale in quella parte del panorama politico italiano è diventata ora definitivamente insopportabile.
Perché Gollum? Perché siamo di fronte ad una figura che ha costantemente messo al centro della propria esperienza politica – per lo meno quella degli ultimi anni, che per la mia età tendo a ricordare meglio, salvando così il suo passato da un giudizio che non mi posso permetter di dare – la ricerca dell’Anello e per fare questo ha fatto spesso finta di "costruire" dei legami (il Gollum buono, che accompagna Frodo-Prodi e Sam-Veltroni alla ricerca dell’Anello per salvare la terra degli Hobbit) per poi distruggerli alle spalle (il Gollum cattivo, che tenta di uccidere Frodo-Prodi e Sam-Veltroni incurante del bene della terra degli Hobbit e della difesa della loro casa), nel tentativo di far suo l’Anello, fosse solo per i pochi attimi del Presidenza del Consiglio, della Presidenza della Bicamerale, del gusto di sentirsi il referente unico nei momenti di difficoltà che lui stesso crea. Ecco, Gollum-D'Alema accompagna in modo così esageratamente nocivo tutta la metamorfosi della sinistra italiana e forse qualcosina in più che davvero riesce difficile sopportarne la tracotanza e la distruttività.
Ora però basta!! Ci siamo lasciati alle spalle il fallimento della Bicamerale, ci siamo lasciati alle spalle il tradimento di Prodi, abbiamo creduto alla sua fiducia nel Pd, ma costantemente assistiamo ad una realtà che ci dice altro, fino alla rivendicazione, oggi, a nemmeno due ore dalla sconfitta in Sardegna, di un nuovo patto a sinistra, con quella sinistra che prima ha fatto finta di accettare che venisse disancorata dal PD e ora rivendica in una chiara, ennesima, poco velata delegittimazione veltroniana; tutto ciò solo per apparire la voce che deve orientare: disfare il terreno con le proprie mani, per essere l'unico a saper indicare la strada da percorrere, eccolo il "segreto motto" d'alemiano.
Ecco allora nient'altro che la “Massima” incarnazione odeirna dei limiti della sinistra italiana, a partire dal crollo del muro di Berlino: quel partito comunista verso il quale la Democrazia Cristiana nutriva il massimo sentimento di invidia, motivato da un’apparente – a questo punto forse artefatta – unità, rispetto alle divisioni interne del massimo partito cattolico, che, una volta crollato, non ha fatto altro che lasciare sul panorama della politica italiana tutte monadi-partito, dedite alla divisione, alla sotto-sezione, al protagonismo individualistico: dal collettivismo all’individualismo assoluto (quale paradosso per la sinistra?). E se qualcuno ha reso esplicito questo trend, D’Alema, quale astuto animale politico, molto più abile e machiavellico di molti suoi colleghi a sinistra, che hanno messo faccia e debolezza nelle scissioni, si è sempre saputo mantenere dentro una corrente più ampia, per lavorare, dall’interno, come un fiume carsico, che, però, non ha fatto altro che portare tronchi rovinati dallo stesso morbo, qiello della totale e chiusa autoreferenzialità.
Il Gollum-D’Alema che ricerca per sé l’Anello, incurante di tutti e capace solo di nascondersi dietro agli altri per poi pugnlare alle spalle per ottenere ciò che gli interessa. Ma cosa gli interessa? Questo è il vero grande dilemma. Possiamo davvero pensare – e a questo punto io personalmente ne sono convinto, ma lascio a voi almeno il punto interrogativo – che l’uomo di punta della sinistra italiana non sia altro che l'espressione migliore dei limiti del post-comunismo italiano (una sorta di presunta supremazia autoreferenziale) e l'incarnazione, in fondo, della più radicale alternativa al comunismo (quell'individualismo acquisitivo cardine del liberalismo feroce)?

lunedì 16 febbraio 2009

La solita altezza spirituale!!!

Vivere e morire secondo il Vangelo
Di Enzo Bianchi, Priore di Bose
La Stampa, 15 febbraio 2009


“C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare” ammoniva Qohelet, così come “c’è un
tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per uccidere e un tempo per
guarire...”. Veniamo da settimane in cui questa antica sapienza umana – prima ancora che
biblica – è parsa dimenticata: anche tra i pochi che parlavano per invocare il silenzio v’era
chi sembrava mosso più che altro dal desiderio di far tacere quanti la pensavano
diversamente da lui. Soprattutto si è avuto l’impressione che l’insieme della nostra società
non avesse certezze condivise sulla scansione dei diversi “tempi” e sul significato dei
diversi verbi usati da Qohelet a indicare lo scorrere dell’esistenza umana: quando è
“tempo” per questo o per quell’altro? E cosa significa parlare, morire, uccidere, guarire?
Uno smarrimento di senso condiviso che ha coinvolto anche parole forti attinenti ai
principi fondamentali dell’etica: dignità, libertà, volontà, rispetto, carità, vita...

Le settimane appena trascorse saranno sicuramente ricordate come “giorni cattivi” da
molti cristiani, ma anche da molti uomini e donne non cristiani che tentano ogni giorno di
rinnovare la loro ricerca di senso, soprattutto attraverso la faticosa lotta dell’amare in
verità e dal lasciarsi amare da quanti sono loro accanto. “Giorni cattivi” è un’espressione
biblica che indica tempi privi di una parola da parte di Dio, da parte dei suoi profeti e
quindi anche privi di parole umane sincere, vere, autentiche: tempi in cui si fa silenzio per
non aumentare il rumore, la rissa, l’aggressione nella comunità umana e per evitare che
parole sensate vengano triturate insieme alle insensate e non si riesca poi più a recuperarle
per giorni migliori. Per questo molti hanno preferito il silenzio. Da parte mia confesso che,
anche se il direttore di questo giornale mi ha invitato più volte a scrivere, ho preferito fare
silenzio anzi, soffrire in silenzio aspettando l’ora in cui fosse forse possibile – ma non è
certo – dire una parola udibile.
Attorno all’agonia lunga diciassette anni di una donna, attorno al dramma di una famiglia
nella sofferenza, si è consumato uno scontro incivile, una gazzarra indegna dello stile
cristiano: giorno dopo giorno, nel silenzio abitato dalla mia fede in Dio e dalla mia fedeltà
alla terra e all’umanità di cui sono parte, constatavo una violenza verbale, e a volte
addirittura fisica, che strideva con la mia fede cristiana. Non potevo ascoltare quelle grida
– “assassini”, “boia”, “lasciatela a noi”... – senza pensare a Gesù di Nazaret che quando gli
hanno portato una donna gridando “adultera” ha fatto silenzio a lungo, per poterle dire a
un certo punto: “Donna (non “adultera”), neppure io ti condanno: va’ e non peccare più”;
non riuscivo ad ascoltare quelle urla minacciose senza pensare a Gesù che in croce non
urla “ladro, assassino!” al brigante non pentito, ma in silenzio gli sta accanto,
condividendone la condizione di colpevole e il supplizio. Che senso ha per un cristiano
recitare rosari e insultare? O pregare ostentatamente in piazza con uno stile da
manifestazione politica o sindacale?

Ma accanto a queste contraddizioni laceranti, come non soffrire per la strumentalizzazione
politica dell’agonia di questa donna? Una politica che arriva in ritardo nello svolgere il
ruolo che le è proprio – offrire un quadro legislativo adeguato e condiviso per tematiche
così sensibili – e che brutalmente invade lo spazio più intimo e personale al solo fine del
potere; una politica che si finge al servizio di un’etica superiore, l’etica cristiana, e che
cerca, con il compiacimento anche di cattolici, di trasformare il cristianesimo in religione
civile. L’abbiamo detto e scritto più volte: se mai la fede cristiana venisse declinata come religione civile, non solo perderebbe la sua capacità profetica, ma sarebbe ridotta a
cappellania del potente di turno, diverrebbe sale senza più sapore secondo le parole di
Gesù, incapace di stare nel mondo facendo memoria del suo Signore.

E’ avvenuto quanto più volte avevo intravisto e temuto: lo scontro di civiltà preconizzato
da Huntington non si è consumato come scontro di religioni ma come scontro di etiche,
con gli effetti devastanti di una maggiore divisione e contrapposizione nella polis e, va
detto, anche nella chiesa. Da questi “giorni cattivi” usciamo più divisi e non certo per
quella separazione in nome di Cristo che, con il comandamento nuovo dell’amore da
estendersi fino ai nemici, può provocare divisione anche tra genitori e figli, all’interno
della famiglia o della “casa” di appartenenza. Abbiamo invece conosciuto divisione in
nome di quel male che affligge l’umanità e che trasforma la diversità in demonizzazione
dell’altro, muta l’avversario in nemico, interrompe o nega il confronto e il dialogo, dando
origine a posizioni ideologiche capaci di violenza prima verbale poi fisica e sociale. Da un
lato il fondamentalismo religioso che cresce, dall’altro un nichilismo che rigetta ogni etica
condivisa fanno sì che cessi l’ascolto reciproco e la società sia sempre più segnata dalla
barbarie.
Per chi come me ha pensato di dedicare tutte le fatiche alla ricerca del dialogo, del
confronto, del faticoso cammino verso la comunione, innanzitutto nello spazio cristiano e
poi tra gli uomini, e in questo sforzo sentiva di poter rendere conto della speranza
cristiana che lo abita e di annunciare il vangelo che lo anima, questi giorni sono davvero
cattivi. Come ignorare anche gli altri segni di barbarie cui stiamo assistendo in questa
amara stagione? Leggi che chiedono ai medici di segnalare alle forze dell’ordine la
presenza di clandestini che necessitano di cure mediche, vanificando così il diritto alla
salute riconosciuto a qualunque essere umano; episodi ormai ricorrenti di giovani e
ragazzi che danno fuoco a immigrati o a mendicanti; senzatetto di cui si prevede la
schedatura mentre li si lascia morire di freddo; esercizio della violenza in branco verso
donne o disabili...
Sì, ci sono state anche voci di compassione, ma nel clamore generale sono passate quasi
inascoltate. L’Osservatore romano ha coraggiosamente chiesto – tramite le parole del suo
direttore, il tono e la frequenza degli interventi – di evitare strumentalizzazioni da ogni
parte, di scongiurare lo scontro ideologico, di richiamare al rispetto della morte stessa. Ma
molti mass media in realtà sono apparsi ostaggio di una battaglia frontale in cui nessuno
dei contendenti si è risparmiato mezzi ingiustificabili dal fine. Eppure, di vita e di morte si
trattava, realtà intimamente unite e pertanto non attribuibili in esclusiva a un campo o
all’altro, a una cultura o a un’altra. La morte resta un enigma per tutti, diviene mistero per
i credenti: un evento che non deve essere rimosso, ma che dà alla nostra vita il suo limite e
fornisce le ragioni della responsabilità personale e sociale; un evento che tutti ci minaccia e
tutti ci attende come esito finale della vita e, quindi, parte della vita stessa, un evento da
viversi perciò soprattutto nell’amore: amore per chi resta e accettazione dell’amore che si
riceve. Sì, questa è la sola verità che dovremmo cercare di vivere nella morte e accanto a
chi muore, anche quando questo risulta difficile e faticoso. Infatti la morte non è sempre
quella di un uomo o una donna che, sazi di giorni, si spengono quasi naturalmente come
candela, circondati dagli affetti più cari. No, a volte è “agonia”, lotta dolorosa, perfino
abbrutente a causa della sofferenza fisica; oggi è sempre più spesso consegnata alla scienza
medica, alla tecnica, alle strutture e ai macchinari...
Che dire a questo proposito? La vita è un dono e non una preda: nessuno si dà la vita da se
stesso né può conquistarla con la forza. Nello spazio della fede i credenti, accanto alla
speranza nella vita in Dio oltre la morte, hanno la consapevolezza che questo dono viene
da Dio: ricevuta da lui, a lui va ridata con un atto puntuale di obbedienza, cercando, a
volte anche a fatica, di ringraziare Dio: “Ti ringrazio, mio Dio, di avermi creato...”. Ma il
credente sa che molti cristiani di fronte a quell’incontro finale con Dio hanno deciso di
pronunciare un “sì” che comportava la rinuncia ad accanirsi per ritardare il momento di
quel faccia a faccia temuto e sperato. Quanti monaci, quante donne e uomini santi, di
fronte alla morte hanno chiesto di restare soli e di cibarsi solo dell’eucarestia, quanti hanno
recitato il Nunc dimittis, il “lascia andare, o Signore, il tuo servo” come ultima preghiera
nell’attesa dell’incontro con colui che hanno tanto cercato... Negli anni più vicini a noi,
pensiamo al patriarca Athenagoras I e a papa Giovanni Paolo II: due cristiani, due vescovi,
due capi di chiese che hanno voluto e saputo spegnersi acconsentendo alla chiamata di
Dio, facendo della morte l’estremo atto di obbedienza nell’amore al loro Signore.

Testimonianze come queste sono il patrimonio prezioso che la chiesa può offrire anche a
chi non crede, come segno grande di un anticipo della vittoria sull’ultimo nemico del
genere umano, la morte. Voci come queste avremmo voluto che accompagnassero il
silenzio di rispetto e compassione in questi giorni cattivi assordati da un vociare indegno.
La chiesa cattolica e tutte le chiese cristiane sono convinte di dover affermare
pubblicamente e soprattutto di testimoniare con il vissuto che la vita non può essere tolta o
spenta da nessuno e che, dal concepimento alla morte naturale essa ha un valore che
nessun uomo può contraddire o negare; ma i cristiani in questo impegno non devono mai
contraddire quello stile che Gesù ha richiesto ai suoi discepoli: uno stile che pur nella
fermezza deve mostrare misericordia e compassione senza mai diventare disprezzo e
condanna di chi pensa diversamente.
Allora, da una millenaria tradizione di amore per la vita, di accettazione della morte e di
fede nella risurrezione possono nascere parole in grado di rispondere agli inediti
interrogativi che il progresso delle scienze e delle tecniche mediche pongono al limitare in
cui vita e morte si incontrano. Così le riassumeva la lettera pontificale di Paolo VI
indirizzata ai medici cattolici nel 1970: “Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al
medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della
sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte
le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti
casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase
terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di
impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile,
con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e
che va naturalmente verso il suo epilogo: l’ora ineluttabile e sacra dell’incontro dell’anima
con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della passione
di Cristo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita”.
Ecco, questo è il contributo che con rispetto e semplicità i cristiani possono offrire a quanti
non condividono la loro fede affinché la società ritrovi un’etica condivisa e ciascuno possa
vivere e morire nell’amore e nella libertà.

Minima moralia, ovvero un titolo presuntuoso per umili considerazioni

Ho aspettato, ho rimuginato, ho riflettuto e ho pregato, ma tutto ciò non ha tolto la nebbia che il caso di Eluana Englaro ha lasciato sulla superficie dei miei pensieri e la tristezza nel fondo del mio cuore; nebbia che però non riesce nemmeno ad eliminare la volontà di mettere per iscritto le mie idee, sparse e vaghe, incerte e volgari: ma se il blog ha un senso, lo ha proprio quale diario virtuale – e non solo – dove raccogliere pensieri e sensazioni. Ed eccole allora, in ordine confuso e in veste modestissima.

- Sulla mia posizione
Non sono in grado di prendere una posizione netta e sicura, ma da questi giorni sono uscito sinceramente infastidito dalla ricerca esasperata di un punto neutro, agognato da ognuno, dall’alto del quale criticare ogni altro; e sinceramente ero infastidito anche dal fatto che il sottoscritto stesse finendo per fare lo stesso, poco d’accordo con tutti e molto critico nei confronti di molti. Ma per fortuna è arrivata in mio soccorso la gente di Paluzza (paesino dove ora è sepolta Eluana) e, specialmente, il parroco. Ecco finalmente posso dire con chi sto: sto con loro, con la loro semplicità e commozione, con la loro discrezione, assenza di violenza e trasparenza; sto con don Tarcisio Puntel e la Chiesa che rappresentano queste sue parole, dette al padre di Eluana, subito dopo il funerale: “Caro Beppino, le porte della Chiesa sono sempre aperte. Anche per te. […] sui principi non si transige, quello della vita in particolare, ma [...] la Chiesa e' fatta di uomini e che anche loro possono sbagliare, ad esempio nell'uso del linguaggio. E gli ho ricordato che la Chiesa, praticando la misericordia, ha sempre le porte aperte''.

- Su Eluana
Mi dispiace che sia stata l’oggetto di una battaglia, perché su di lei si sono accaniti giudici, politici, medici, ecclesiastici, giornalisti; mi dispiace che sia stata il silenzio che ognuno ha interpretato, dicendo che era testimonianza di dolore, prova di morte, tradimento di una volontà; mi dispiace che sia stata la linea di confine che ognuno ha strattonato e ridotto alle proprie motivazioni. Non so se avesse detto che in queste condizioni avrebbe voluto morire, ma un foglio o un pensiero, in un certo giorno e in una certa età, possono ipotecare il resto dell’esistenza? Non so se soffrisse, sentisse la propria anima imprigionata, fosse schiava della tecnica, ma si può dire che fosse morta diciassette anni fa? Non so, sinceramente non so, se questa dipendenza assoluta dall’alimentazione forzata possa considerarsi un autentico e dignitoso modo di protrarre la propria esistenza, ma somministrare qualcosa per evitare la sofferenza in conseguenza dell’interruzione dell’alimentazione non è una buona-morte/eu-tanasia?

- Su Beppino Englaro
Non posso permettermi di penetrare il mistero di una scelta e la radicalità di una sofferenza; non posso ipotizzare quali forme il bene di un padre possa avere e quali manifestazioni possa raggiungere; non riesco nemmeno a immaginare cosa significhi vedere la propria figlia inerme e afflitta. Su questo posso solo tacere. Ma una domanda non posso non porla: se alle suore che hanno accudito Eluana è stato impedito di continuare il loro gesto di cura (perché, in coerenza con le idee della figlia, il papà si è sentito di proteggerla da altri, dalle loro idee, dalla loro fede, dall’accanimento del loro amore) perché, una volta morta, ha concesso sua figlia alle idee, all’amore e alla fede di altri (gli zii) che volevano celebrarne il funerale in chiesa (diversamente da quello che avrebbero fatto lui e sua figlia)? La misericordia di Dio e il suo amore non hanno bisogno delle pareti di un edificio per accogliere Eluana (che avranno già accolto in cielo) e se si è convinti di interpretare una volontà, che nessuno esternamente può modificare, perché questo vale fino alla morte e dopo non più?

- Sulla Chiesa
Può la casa della misericordia diventare il fortino della violenza? La presunzione della verità può diventare incapacità di dialogo? Per fortuna che la voce ufficiale della CEI ricorre oggi ad un vocabolario nuovo, fino a qualche mese fa inimmaginabile; altrimenti l’onda montante di scomuniche, illazioni, sospetti, intromissioni indebite, parole dure e prive di amore o minima problematizzazione sarebbero state ancora più pesanti da digerire di quanto lo siano ancora oggi. Perché la Chiesa non riesce a condividere la tragicità delle cose e seminare speranza, invece di trarre da quella che dovrebbe essere la propria povera bisaccia lo scettro degli editti? Può permettersi il Presidente del Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari, Javier Lozano Barragan, di parlare di reato (ma non spetta a lui parlare di reato: siamo ancora alla confusione tra peccato e reato?)? Può il principale quotidiano cattolico, all’indomani della morte di Eluana, nel suo editoriale, invocare tutta la verità? Ma quale verità? Smettiamola con la dietrologia: abbiamo bisogno di voci di spessore diverso, di carismi che si stanno perdendo, di una misericordia che accompagni ogni gesto e parola, anche laddove ci si spinge, giustamente, a dire la propria opinione e a ribadire i propri sani principi e valori. Quale è il confine giusto tra il non tradire il proprio nucleo originale e santo e il provocare continuo disamoramento tra i propri fedeli?

- Sulla politica
Stona un po’ scadere sul versante dell’agenda pubblica della questione, ma forse, il peggio è venuto proprio da qui, e quindi, alcuni appunti al volo:
a) La politica può permettersi di cambiare una sentenza, per quanto giusta o ingiusta, proceduralmente e contenutisticamnete, passata in giudicato? Ma quale precedente pericoloso ciò apre? Si può accettare un simile tradimento del primato del diritto e l’idea che la politica possa cambiare con un decreto legge una decisione che non le piace?
b) Laddove si è abbandonata la strada del decreto legge e si è subito adottata quella del disegno di legge (con in mezzo vergognose illazioni nei confronti del Presidente della Repubblica), che messaggio si lancia al paese, al quale si dice, sostanzialmente che alcune leggi si possono fare in tre giorni e altre no? Quale è il criterio della rapidità? Perché le morti di fame e di sete dei disperati che arrivano a Lampedusa non merito altrettanta rapidità? Perché non si è combinato nulla, prima, in commissione e poi si vuole stabilire la strada giusta in maniera vergognosamente frettolosa?
c) Centro-Destra e Centro-Sinistra possono dare questo triste spettacolo in parlamento per votare una legge di cui nessuno si è interessato fino a ieri e che all’improvviso provoca risse volgari e di bassissimo profilo? Sulla questione eticamente più delicata dell’ultimo periodo, i nostri parlamentari hanno fatto purtroppo tristemente sfoggio della pochezza culturale e politica che li caratterizza.

A questo punto mi taccio e spero che la grandiosa misericordia di Chi è in grado di vedere ciò che sfugge agli occhi umani sappia, in questa vicenda, perdonare chi ha sbagliato, accompagnare chi soffre e illuminare chi ricerca risposte.

domenica 15 febbraio 2009

Una grande voce di amore in un orizzonte di presunzione

Da Avvenire
12/7/08

«Una speranza per Eluana, come per la figlia di Giairo»
«Mai chiudere la porta della vita, il mistero ci sfugge».
Card. Dionigi Tettamanzi


La vicenda di Eluana Englaro, la giovane in "stato vegetativo" da quattordici anni, mi colpisce come credente e cittadino, ma soprattutto mi interpella come Vescovo della terra in cui Eluana abita. In questi giorni sono stati davvero numerosi i sentimenti, le riflessioni e gli interrogativi che sono cresciuti nel mio cuore. Desidero ora confidarne alcuni a quanti il Signore ha affidato alle mie cure pastorali. Vorrei essere discreto, entrando in punta di piedi in una storia umana quanto mai delicata, nella quale "il mistero della vita si fa più denso, quasi inaccessibile alla luce della sola ragione", e lancia una "sfida formidabile per la libertà" di ciascuno di noi.

Rileggendo una pagina del Vangelo

Sfogliando i quotidiani e leggendo i titoli che commentano la sentenza su Eluana, il mio pensiero tende sempre più a staccarsi dalle parole a stampa. Sono parole umane, anche vere, talora indovinate: ma non mi bastano. Cerco allora una "parola nuova", originale, unica: la trovo nel "Vangelo di Marco", quando racconta della figlia di Giairo, un capo della sinagoga, la quale giace gravemente ammalata (cfr. "Marco 5,21- 24. 3543").
Mentre egli sta supplicando Gesù di venire a trovarla e guarirla, dalla sua casa alcuni vengono a dirgli: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Per i parenti e gli amici, dunque, la giovane appare morta, immobile sul letto, incapace di parlare e di sorridere come era solita fare un tempo. Nella sua abituale sobrietà narrativa, l’evangelista non aggiunge altri particolari. Lascia però intuire l’opinione molto decisa, quasi inappellabile, dei portavoce della famiglia: la condizione in cui versa la figliola è ormai senza speranza. Perché darsi ancora da fare per lei, accudirla, disturbare persino il Maestro?
Ma Gesù non è dello stesso parere: «La bambina non è morta, ma dorme». Un’affermazione contraria all’opinione di molti, un’espressione paradossale, quasi ingenua: "aprire una speranza quando la porta della vita sembra essere ormai chiusa per sempre". Il Maestro questa volta si è sbagliato: «Ed essi lo deridevano», ricorda il Vangelo.
In realtà gli occhi di Gesù vedono quello che è invisibile agli occhi umani: i segni della vita personale non sono scomparsi, ma solo resi quasi impercettibili ai sensi, così deboli da non apparire più credibili. Infatti la persona umana, nel suo mistero, sfugge al nostro sguardo. Non è forse così anche per chi non può manifestare la propria coscienza ed entrare in relazione con noi attraverso le parole, i sensi, i gesti?
Chissà se la figlia del capo della sinagoga era clinicamente morta oppure giaceva in uno stato comatoso o vegetativo. Il racconto di Marco non ce lo fa sapere e qui il mio pensiero si ferma. Ma un’intuizione mi prende: "l’intelligenza della vita e la speranza nella vita non sono separabili".
Per comprendere e abbracciare con lo sguardo della ragione la vita dell’uomo in tutte le sue possibili circostanze occorre aprirsi al pensiero del futuro. La ragione deve osare un’apertura sul domani, non può appiattirsi sul presente, rimanere prigioniera di un’opinione o di un’ostinazione, ma spalancarsi a tutta la realtà della vita, quella visibile e quella che i nostri sensi non riescono a percepire.
Allo stesso tempo la speranza della vita scaturisce dal presentimento della realtà nella sua pienezza, della verità tutta intera, quella che sfugge alla scienza dell’uomo ma è rivelata dallo "Spirito di verità" (cfr. "Giovanni 16,13") nella vita stessa di Gesù di Nazareth. Entro così in un ordine più alto, nella sfera della fede, che mi fa contemplare la vicenda di Gesù nella sua singolarità. Lui solo ha potuto dire alla figlia di Giairo: "Thalita kum!", "Fanciulla, io ti dico, alzati!". E ridestandola con potenza alla "vita terrena" ha dato inizio in lei a quella "vita divina" che si compirà in pienezza nell’ultimo giorno con la risurrezione della carne. Nella luce di questa prospettiva trascendente prende forma un giudizio etico, che nasce dalla fede cristiana ma non è estraneo alla ragione: non possiamo spegnere la vita di nessuna creatura umana senza uccidere, insieme a lei, la speranza che vive in essa, quella di essere fatta per la vita e non per la morte.

Libertà, responsabilità e solidarietà

Sempre con cuore di "pastore" e nel desiderio di offrire un aiuto alla formazione della coscienza e alla chiarezza dell’azione, vorrei lasciarmi provocare da "alcuni interrogativi" suscitati dalle diverse prese di posizione emerse in questi giorni e soffermarmi così sulle "autentiche esigenze della libertà e responsabilità" di quanti, a vario titolo, hanno in custodia una persona gravemente malata, che dipende, per la sua esistenza, dalle loro cure.
Ricordo anzitutto che il luogo proprio delle decisioni che riguardano la cura di un malato è la "relazione personale e fiduciale" tra il paziente (se è in grado di comunicare con chi lo assiste), i suoi familiari ed il personale medico e infermieristico. È davvero importante custodire e proteggere questa relazione, favorendo lo sviluppo di un dialogo clinicamente obiettivo, moralmente onesto e socialmente responsabile. Al centro di questo dialogo deve stare sempre il bene fondamentale della vita di ogni malato, un bene che non dipende dalla qualità delle sue capacità fisiche, psichiche e comunicative, ma che trova la sua radice nel fatto stesso di esistere. In ogni caso, la rinuncia a terapie sproporzionate o a cure futili non può comportare la sospensione della nutrizione e della idratazione, nella misura e fino a quando esse risultino efficaci nel sostenere la fisiologia del corpo. Anche qualora effettuata mediante vie artificiali, la somministrazione di acqua e cibo costituisce un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita.
Dobbiamo poi domandarci: "il rispetto della scienza e della coscienza dei medici" e delle responsabilità proprie di coloro ai quali è affidata la cura delle persone non autosufficienti non esige una "giusta discrezione da parte delle autorità amministrative e giudiziarie"?
Esse non devono condizionare, con interventi normativi, la libertà ed il compito che ciascuno possiede, secondo le proprie idealità e capacità, di interrogarsi sulle ragioni della cura e della promozione del bene della persona umana sofferente. Una libertà e un compito, questi, che la società è chiamata a promuovere, offrendo opportunità di riflessione, di formazione e di confronto. La Chiesa a pieno titolo, nel rispetto dell’autonomia dello Stato e delle diverse tradizioni e concezioni culturali e religiose, ha qui il dovere di offrire il proprio prezioso e singolare contributo.
Infine, non dovremmo appellarci ad un "senso più forte di solidarietà" creativa e operosa nei confronti della solitudine e dell’abbandono in cui si trovano tanti nostri fratelli e sorelle, ammalati gravemente e da lungo tempo? Grazie all’intelligente e amorevole cura delle "Suore Misercordine" e dei loro collaboratori sanitari, Eluana non ha sperimentato fino ad oggi solitudine e abbandono. La loro testimonianza ci è di conforto e di incoraggiamento a fare altrettanto.

Preghiera e discernimento

Sento forte il bisogno della preghiera. Celebrando l’Eucaristia chiedo al Signore che la nostra comunità cristiana possa trovare "parole vere" e tenere "comportamenti giusti", ispirati a un "vero e grande amore" per la vita di ogni donna e di ogni uomo, in ogni stagione e circostanza.
Avverto la necessità che su questa vicenda umana sensibilissima il clima culturale e sociale sia animato da un "profondo rispetto": il rispetto dovuto a tutte le persone coinvolte – e, sia pure in forme e gradi diversi, lo siamo tutti noi – e nello stesso tempo ai valori fondamentali che danno senso e orientamento al nostro nascere, vivere, soffrire e morire. Ma di fronte all’inestimabile realtà della vita umana, che è sempre un bene in sé, il solo rispetto è ben poca cosa se non è segno ed esigenza di "amore": un amore che chiede di raggiungere la profondità propria della "venerazione" per ogni vita umana. E la venerazione non si ferma al riconoscimento del valore trascendente della nostra esistenza, ma esige anche l’umile consapevolezza e il coraggio di assumersi le responsabilità personali e sociali di difesa e promozione del bene della vita umana. Solo a partire da un atteggiamento di autentica venerazione del "mistero" che è in ogni uomo potrà sorgere una "riflessione necessaria e adeguata", che sia "critica e pacata", illuminata dalla ragione e corroborata dalla fede, una riflessione cioè che non si lasci offuscare dall’emotività né dominare da pregiudizi, e neppure diventi facile preda di strumentalizzazioni o di interessi estranei al vero bene della persona. Come Vescovo esprimo la mia vicinanza umana e cristiana a questa giovane, alla sua famiglia, alle "Suore Misericordine" che, insieme al personale sanitario della "Clinica Talamoni" di Lecco, l’hanno accolta e curata con professionalità e amore grande.

Quali i confini dell'eroismo?

Da Repubblica
12 febbraio 2009

Perché ho il diritto
di scegliere la mia morte
di UMBERTO ECO


BENCHE' il problema mi turbasse molto, e forse proprio per questo, ho cercato negli ultimi mesi di non pronunciare alcun giudizio o opinione sul caso Englaro, per molte e sensate ragioni, ma anzitutto perché non volevo partecipare alla canea di chi stava sfruttando per ragioni ideologiche, da una parte e dall'altra, la vicenda di una sventurata ragazza e della sua famiglia.

Quando il presidente del Consiglio ha preso pretesto dal caso per tentare uno dei suoi ormai reiterati attacchi alla Costituzione, sono intervenuto con Libertà e Giustizia, in piazza, e mi sono unito agli appelli alla vigilanza. Ma nelle poche interviste che non ho potuto evitare ho sempre detto che le poche centinaia di persone che erano con me davanti a palazzo di Giustizia a Milano non erano lì a manifestare sul caso Englaro, perché ero pronto a scommettere che se si fosse fatta la conta si sarebbe visto che metà la pensavano in un modo e metà nell'altro, ma per protestare contro l'attacco al presidente della Repubblica, attentato bonapartista (ringrazio Ezio Mauro per aver rievocato questo precedente) su cui tutti erano d'accordo.

Adesso, sfogliando le gazzette, mi rendo conto come sia difficile dividere questi due problemi e quanta sottigliezza politologica, giuridica e (permettetemi) morale ci voglia a capire quanto i due problemi siano diversi. Ma cosa si può pretendere da chi, come accadeva secoli fa con Terenzio e gli orsi, ha preferito il Grande Fratello alla discussione su questi casi?
Così mi sono trovato citato tra coloro che sul caso Englaro avevano idee chiare e decise. Intervengo per dire che non le avevo, altrimenti le avrei espresse. Solo che, ora che la ragazza è morta, forse si può parlare di questi problemi senza temere di far sciacallaggio su un corpo in sofferenza.

In effetti non intendo parlare della morte di Eluana Englaro. Voglio piuttosto parlare della mia morte, e ammetterete che in questo caso ho qualche diritto all'esternazione.

Dovendo parlare della morte mia, e non di quella altrui, non posso non citare alcuni aspetti della mia vita, tra cui il fatto che qualche anno fa ho scritto un romanzo intitolato La misteriosa fiamma della regina Loana, dove il protagonista, dopo un primo incidente cerebrale per cui perdeva la memoria, cadeva nuovamente in coma.

Non so se scrivendo volessi affermare qualcosa di scientificamente valido o cercassi solo un pretesto narrativo, ma fatto sta che ho impiegato più di cento pagine a far monologare il mio personaggio ormai in coma (non avevo allora calcolato se ridotto a vegetale, imputato di morte cerebrale o in coma eventualmente reversibile - segno che non avevo precise preoccupazioni scientifiche).

In ogni caso il personaggio, in quello stato che chiamerò di "vita sospesa", pensava, ricordava, desiderava, si commuoveva. Sapeva benissimo che probabilmente i suoi cari lo credevano ridotto allo stato di una rapa, o al massimo di un cagnolino dormiente, ma si accorgeva che i medici sanno pochissimo di quanto succede nel nostro funzionamento mentale, e che forse dove essi vedono un encefalogramma piatto noi continuiamo a pensare, che so, coi rognoni, col cuore, coi reni, col pancreas...

Questa era la mia finzione letteraria (per calmare coloro che dall'eccezionale si attendono tutto, dirò che alla fine il mio personaggio sprofondava nel buio) ma devo dire che se l'avevo pensata era perché un poco ci credevo. Non sono sicuro che là dove gli strumenti scientifici di oggi vedono solo una terra piatta, e una assenza di anima, ci sia del tutto assenza di pensiero - e lo dico con sereno materialismo, non perché ritenga che un'anima sopravviva alla morte delle nostre cellule ma perché non mi sento di escludere che - morte e definitivamente alcune cellule - altre non sopravvivano e prendano il controllo della situazione, testimoniando di una straordinaria plasticità non del nostro cervello (questo ormai lo sanno tutti) ma del nostro corpo.

Insomma, siccome sospetto che quando si è sani si pensi anche con l'alluce, allora perché no quando il cervello non dà segni di vita?

Non farei una comunicazione in merito a un congresso scientifico, ma in qualche modo ci credo. Visto che c'è gente che crede al cornetto rosso lasciatemi credere a questo.

Ora che cosa vorrei, se se mi trovassi in una situazione del genere?

A cercare proprio col lanternino tutte le possibilità credo proprio che esse si riducano a tre. Prima possibilità, sopravviverei come una rapa, senza coscienza, senza poter dire "io", reagendo al massimo a qualche modificazione dell'umidità atmosferica, come se fossi una colonnina di mercurio. In effetti a queste condizioni non sarei più "io", ma appunto una rapa e non vedo perché dovrei preoccuparmi di me.

La seconda possibilità è che in quello stato si riviva tutto il proprio passato, si torni all'infanzia, si abbiano visioni e si realizzino quelli che in vita erano stati i nostri desideri, insomma si viva una sorta di sogno paradisiaco. È un poco quel che accade al personaggio del mio romanzo, ma poi purtroppo anche lui cala nelle tenebre.

La terza ipotesi è la più angosciante, è che in quella vita sospesa ci si interroghi su cosa faranno e penseranno di noi i nostri cari, si riviva col cuore in gola gli ultimi momenti di coscienza, si tema per l'orrido futuro che ci attende, o addirittura ci si consumi come ha fatto mia madre negli ultimi dieci anni che è sopravvissuta a mio padre, raccontando a noi figli, ogni volta che poteva, come era stata orribile la notte in cui mio padre era stato colto da infarto, e se non fosse stata colpa sua che aveva preparato una cena forse troppo pesante. Questo sarebbe l'inferno - e ho accolto quasi con sollievo la morte di mia madre perché sapevo che stava uscendo da quell'inferno.

Adesso facciamo una botta di conti alla Pascal. Di tre possibilità solo una è gradevole, le altre due sono negative. In termini di roulette (e sui grandi numeri, tipo diciassette anni di vita sospesa) si è già perso in partenza. Ma il problema non è questo. Io sono pronto a dichiarare che, nel caso incorra nell'incidente della vita sospesa, desidero che non si protraggano le cure (anche se potrei perdere alcuni istanti o millenni di paradiso) per evitare tensioni, disperazione, false speranze, traumi e (permettetemi) spese insostenibili ai miei cari. Ma chi sono io per distruggere la vita a una, due, tre o più persone per la remota possibilità di avere qualche istante o qualche anno di paradiso virtuale?

Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri. Guarda caso, è quello che mi ha sempre insegnato la morale, e non solo quella laica, ma anche quella delle religioni, è quello che mi hanno insegnato da piccolo, che Pietro Micca ha fatto bene a dare fuoco alle polveri per salvare tutti i torinesi, che Salvo D'Acquisto ha fatto bene ad accusarsi di un crimine non commesso, andando incontro alla fucilazione, per salvare un intero paese, che è eroe chi si strappa la lingua e accetta la morte sicura per non tradire e mandare a morte i compagni, che è santo chi accetta l'inevitabile lebbra per baciare le piaghe al lebbroso.
E dopo che mi avete insegnato tutto questo non volete che io sottoscriva alla sospensione di una vita sospesa per amore delle persone che amo? Ma dove è finita la morale - e quella eroica, e quella che mi avete insegnato, che caratterizza la santità?

Ecco perché, turbato a manifestare la sia pur minima idea sulla morte di Eluana (non sono, maledizione, fatti miei, ma dei genitori che l'hanno amata più di quanto l'abbia amata Berlusconi, che ha sinistramente fantasmato sulle sue mestruazioni) non ho esitazioni a pronunciare la mia opinione circa la mia morte. E all'amore che una morte può incarnare. "Laudato s' mi Signore, per sora nostra Morte corporale, - da la quale nullu homo vivente po' skappare: - guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; - beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, - ka la morte secunda no 'l farrà male".

Biopolitica e biopotere: il caso di Eluana?

Da Repubblica
12-02.2009

Il caso Englaro ci ha posto e ci pone di fronte a una questione di sovranità
Se nasce la biopolitica
di CARLO GALLI



Ora che Eluana non c'è più - sfuggita, com'era sua volontà, al dominio degli oltranzisti della vita - , la decenza e la pietà ci impongono il silenzio sullo straziante caso personale. Tuttavia, la questione politica che si è aperta non può essere frettolosamente richiusa.

Il cosiddetto caso Englaro ci ha posto, infatti, e continua a porci, di fronte a una questione di sovranità. Siamo davanti a quello che alcuni giuristi e alcuni filosofi definiscono "caso d'eccezione", cioè a quel punto in cui il sistema delle norme e delle istituzioni è minacciato, e lascia vedere, sotto le maglie lacerate della legalità, il nucleo originario della politica: il nesso fra corpo umano e corpo politico, in cui si mostra che la politica ha a che fare, primariamente, con la vita e con la morte degli esseri umani, e che la sovranità è la decisione che opera su questa materia incandescente. Un tempo era prerogativa del sovrano decidere se mettere a morte o lasciare in vita un uomo (o una donna): oggi, al contrario, si è trattato di decidere tra il far vivere e il lasciar morire. E questa decisione si è posta all'ordine del giorno perché sta vacillando la normalità costituzionale liberaldemocratica, che cercava di tenere vita e politica il più possibile distinte e separate: secondo il nostro ordinamento, infatti, la politica non afferra direttamente la vita, ma la protegge lasciandone la libera disponibilità al cittadino, riconoscendogli il diritto cruciale di rifiutare le cure mediche (art. 32 Cost.). La sovranità della legge dello Stato liberale e democratico conferisce al singolo la sovranità su se stesso, sulla propria vita e sul proprio lasciare la vita.

Ciò che è capitato è la conferma che questa distinzione vien meno, che cioè il discorso politico è ormai direttamente discorso sulla vita, che il potere politico si fa potere di vita, che è ormai biopotere, e che la politica è apertamente biopolitica. E prende la forma di una sorta di allevamento dell'essere umano, che - per il suo bene, deciso da altri - non può sottrarsi alla tutela, e deve venire esonerato dal suo diritto sovrano su se stesso.

Il caso d'eccezione implica una decisione, ne è il frutto. Molte possono essere le cause contingenti che hanno determinato il caso Englaro - distrarre l'opinione pubblica dalla crisi economica con argomentazioni tra il sentimentale (la pretesa "condanna a morte" di una fanciulla) e il paleopolitico (la costituzione "filosovietica"), segnalare al Vaticano in occasione degli ottant'anni del Concordato la propria disponibilità a un'alleanza strategica in nome dell'autoritarismo etico, mettere in difficoltà il Pd; tuttavia, la decisione di Berlusconi di tentare di opporsi a una sentenza definitiva della magistratura con lo strumento della decretazione avente forza di legge è stata anche la decisione di istituire un percorso che, a partire dal cortocircuito fra vita e politica, avrebbe dovuto passare dal disegno di una società eticamente protetta a ogni altro ambito giuridico e politico. La decisione, cioè, di proporre una nuova normalità postcostituzionale, di tipo plebiscitario e decisionista: l'appello al popolo per rafforzare la potestà legislativa dell'esecutivo, per fare del governo il signore, in generale, della necessità e dell'urgenza.

La presa sul corpo di Eluana ha voluto essere anche la presa sul corpo politico della Repubblica. La scenario che quella decisione ci ha prospettato consiste infatti nella perdita delle distinzioni fra pubblico e privato, fra religione e politica, fra Chiesa e Stato, fra popolo e Parlamento, fra potere legislativo esecutivo e ordine giudiziario, fra legge universale e provvedimento ad hoc: "legge salva-Eluana" è stato battezzato il ddl frettolosamente affidato dal governo a un Parlamento trattato come un votificio. E questo mondo indistinto è anche un mondo rovesciato: lo Stato liberaldemocratico che riconosce al singolo la sovranità su se stesso è stato definito il frutto di un'ideologia malvagia e mortifera che lo vuole superiore al cittadino; lo Stato autoritario che non ne riconosce la volontà è stato fatto passare, invece, per liberale.

Attraverso le varie strategie (politiche, mediatiche, amministrative) con cui ha gestito il caso d'eccezione, la destra ha mostrato la propria vera natura, cioè di ritenere che la realtà politica sia un magma indistinto, plasmabile a piacimento: che tutto sia possibile, che ovunque si tratti sempre e solo di una questione di potere.

Ma il caso d'eccezione esige anche una risposta: la prima, doverosa e coraggiosa, è stata quella di Napolitano, per la quale il Capo dello Stato ha pagato e paga il prezzo di attacchi incredibili; ma devono proseguire l'opposizione, l'opinione pubblica, i media. La risposta non può non essere la energica riconferma della Costituzione, preziosa fonte di libertà e democrazia proprio in quanto contiene le distinzioni giuridiche e istituzionali che la destra annulla, proprio perché ha in sé la decisione per il liberalismo democratico che comporta anche il rispetto dei diritti sovrani del cittadino. È questo il tempo, insomma, di una nuova decisione contro il biopotere per l'habeas corpus, contro le tentazioni plebiscitarie per la normalità istituzionale, contro il decisionismo e l'autoritarismo per la libertà e la democrazia.