martedì 10 giugno 2008

Prodi cristiano adulto

Pubblico un articolo apparso su Repubblica il 7 giugno che rende bene l'idea del trattamento che la Cei ha riservato al centro-sinistra prodiano.

Lo sfogo dell'ex premier per il difficile rapporto con la Conferenza episcopale
"Ho avuto l'impressione di scontrarmi con un'opposizione politica"
Prodi: "I leader della Cei sempre contro di me"

di MARCO MAROZZI

ROMA - "Dissi di essere un cattolico adulto. La frase non mi è stata mai perdonata. Con la presidenza della Conferenza episcopale, ho avuto l'impressione di scontrarmi con un'opposizione politica". Romano Prodi cerca di organizzare la sua vita da ex, ma rivive ancora con amarezza il rapporto con uno degli interlocutori a cui teneva di più. La Chiesa cattolica. Le sue difficoltà terribili come capo di un governo di centrosinistra le ha raccontate anche a La Croix, il più grande quotidiano cattolico francese. "Mai sono stato intervistato dall'Avvenire, il giornale italiano di ispirazione cattolica, mentre La Croix mi ha dedicato due pagine nel maggio 2007".

Prodi non è mai stato intervistato non solo dal giornale della Cei, nemmeno - a differenza di Silvio Berlusconi - dall'Osservatore Romano. Organo della Santa Sede.
Le differenze volute bruciano sulla pelle del professore cattolico che il 31 maggio ha festeggiato i 39 anni di matrimonio, padre di due figli, nonno di quattro nipoti. Ha scritto un suo amico dagli anni di Reggio Emilia, Raffaele Crovi, cattolico, intellettuale anche democristiano, in "Nerofumo", profetico romanzo poco prima della morte: "Perché la Curia Vaticana, ai politici cattolici praticanti e osservanti dei comandamenti, preferisce i politici laici, magari puttanieri, ma osservanti".

E Crovi, vaticinando la caduta del governo Prodi, fa rispondere a un monsignore: "Perché i cattolici praticanti, ritenendosi parte della Chiesa, mettono bocca nelle scelte delle autorità ecclesiastiche, mentre i laici, senza far domande, mettono mano alla borsa".
Prodi, che il libro ha ricevuto, scansa i rimandi. Né parla di politica italiana. "Aspettiamo che il polverone si fermi" dice ai pochi fedelissimi superstiti. "Coerenza e discrezione" ripete, sono il suo atteggiamento rispetto alla Chiesa. A La Croix - fra un cenno all'unica udienza da Benedetto XVI e un affettuoso dilungarsi sugli incontri con Giovanni Paolo II - ha raccontato l'amarezza "soprattutto per le critiche delle gerarchie cattoliche quando adottai provvedimenti in favore degli esclusi". "Telefonai anche per dir loro che prima comunque non c'era niente. Non mi hanno risposto".

Rapporto di spine con Camillo Ruini, l'allora presidente della Cei e rimasto potentissimo, anche se da un anno la Conferenza è guidata da Angelo Bagnasco. Il reggiano Ruini fece conoscere e sposò Prodi e Flavia, né fu assistente, ma ruppe per sempre quando, dopo il crollo della Dc, chiese all'allora discepolo di guidare la rinascita di un partito cattolico. Ottenendo un rifiuto da colui che già pensava all'Ulivo. Prodì rivendica quel "cattolico adulto" con cui si definì quando andò a votare nel referendum sulla fecondazione assistita. Non rispettando - pur votando da cattolico osservante - la chiamata di Ruini all'astensione. Richiamandosi piuttosto a De Gasperi che disobbedì a Pio XII che voleva l'alleanza Dc-Msi al Comune di Roma.

I NUOVI BARBARI 3 – “I CARE”

Circa una cinquantina di anni fa, in un piccolo borgo di montagna, sconosciuto e quasi irraggiungibile, un priore determinato e sanguigno inizia a radunare alcuni giovani ragazzi delle campagne in una stanza della sua nuova canonica: nasce la scuola di Barbiana – senza luce, cattedra, lavagna e banchi – e una rivoluzionaria esperienza pedagogica e culturale. Appena qualche giorno fa, nelle milioni di televisioni che arredano le nostre case, si è sentita raccontare la storia di un genitore che ha aggredito il preside di un istituto, il quale si era “macchiato” della tremenda colpa di sequestrare il telefonino – con fotocamera, suonerie polifoniche, lettore mp3 – a suo figlio: muore, sotto l’ennesimo colpo, una stanca idea di scuola ed un’arrugginita istituzione pedagogica.
La provocazione permette di accostare due estremi e farne vibrare le corde: che tipo di cambiamento può esserci stato, a cavallo di questi due episodi, tanto da passare dall’urgenza alfabetismo all’urgenza bullismo, dall’esigenza di insegnare l’arte dello scrivere e del parlare a quella di debellare continui casi di violenza verbale e non solo, dalla scuola privilegio di pochi alla scuola obbligo disinteressato di tutti? Una vera e propria invasione barbarica, che ha portato con sé disimpegno, disillusione e distruzione di ogni gerarchia: dall’autorità del preside all’autorevolezza degli insegnanti; dal prestigio del sapere al valore dell’apprendere.
In quella piccola stanza di Barbiana, don Lorenzo Milani – di cui ricorrono quest’anno i quarant’anni dalla morte – in una parete aveva fatto scrivere “I care”, ovvero “mi interessa, mi sta a cuore”; nelle molte aule tecnologiche delle nostre scuole, dove le lavagne iniziano a cedere il posto ai computer e i cellulari costituiscono spesso l’unico strumento di comunicazione, l’interesse scompare, annientato da individualità oltraggiosamente in grado di lasciarsi scorrere addosso tutto, senza appassionarsi a nulla.
E proprio l’”interesse” è forse una delle tante possibili chiavi di interpretazione che permettono di collocare questi fenomeni degenerativi, che coinvolgono la scuola, nella cornice più ampia della crisi delle autorità. Tutti i dizionari ne parlano fondamentalmente in tre sensi: l’interesse come passione ed impegno; l’interesse come condivisione e partecipazione; l’interesse come tornaconto personale. Ebbene, i molti casi che negli ultimi mesi ci hanno raccontato di bulli e sconcezze rivelano in realtà una sporgenza dell’ultima accezione sulle prime due: una crisi, cioè, dello stare insieme (inter-esse) e della dedizione (interessamento) e una preminenza totalizzante del mero “libertino” vantaggio egoistico. Si assiste così al frantumarsi del valore pedagogico e formativo dell’insegnante e della piccola comunità che è la classe, embrionale occasione per sperimentarsi in relazione con gli altri; il coinvolgimento di tutti cede alla convenienza di ognuno; la condivisione di un progetto di crescita è sconfitto da una fasulla e fittizia tutela del singolo; il professore perde la propria aurea sacrale, tanto da divenire complice nel vizio o vittima nell’oltraggio; i genitori scarnificano la concezione di ciò che è bene per i propri figli, la cui maturazione non passa più attraverso il rispetto di alcuni doveri, quanto piuttosto per il sempre più ampio diritto a tutto.
Un giovane studente napoletano ha recentemente inviato un messaggio ai quotidiani, rivendicando l’attenzione per la buona “scuola che c’è”, chiedendo di non far vincere la “non scuola” spettacolarizzata dai media: ma tutti gli altri che cosa sarebbero oggi in grado di scrivere nella loro moderna e tecnologica “lettera ad una professoressa”?

martedì 29 aprile 2008

I NUOVI BARBARI 2 – Il potere dello sport

Fino a qualche tempo fa la parola “sport” risuonava con una leggerezza non gravata di troppe responsabilità, ma felice della sua dimensione giocosa; oggi ha le spalle stanche, cariche di interessi e della ricerca senza scrupoli del massimo profitto. I suoi due sistemi circolatori – quello arterioso, che ne ossigena la valenza virtuosamente agonistica, culturale, pedagogica; quello venoso, che porta il peso di una vera e propria economia industrializzata – ne complicano l’esistenza e ne rendono stentata la sopravvivenza: lo sport nutre grandi passioni, ma muove miliardi; insegna a soffrire per un obiettivo, ma ossessiona per una vittoria; educa alla vita, ma esaspera la competitività.
Proviamo allora a vedere se il giochetto dei barbari, che ci siamo inventati come esperimento per capire i nostri tempi, funziona anche in questa cornice complessa e fragile e vale per una dimensione della nostra esistenza che sembra relegata al tempo libero, ma che in realtà ne investe una più ampia porzione. Costretto, e me ne scuso, a generalizzare un po’ (finiranno nello stesso calderone il totem sacro del calcio con le altre mille discipline), l’esperimento vuole però guardare allo sport in genere come allo specchio di una situazione culturale più ampia e pensarlo come provetta attendibile per esaminare lo stato della società e verificarne la crisi delle autorità, come in fondo ci siamo prefissi.
Avete fatto caso a quale crescita esponenziale di esoneri degli allenatori stiamo assistendo? Dal calcio alla pallavolo, passando per i mille rivoli delle altre discipline, la figura dell’allenatore sta indubbiamente attraversando una fase di crisi: da autorità autorevole a calamita di ogni male, da capo del gruppo a capro espiatorio, da bagaglio formativo a bersaglio di giocatori che spesso non sono più in grado di ascoltare, lavorare, sacrificarsi e scoprono che è più semplice gettare a mare il comandante che rispettare le regole della navigazione.
Avete mai assistito ad una gara di giovanissimi sportivi in erba? Siete rimasti forse attoniti di fronte ai comportamenti di genitori esasperati ed esasperanti che testimoniano con le parole – e spesso non solo – una totale e radicale mancanza di rispetto nei confronti dell’arbitro? Quel medesimo spregio del senso del limite che sta alla base dei tanti casi di doping è la medesima causa di un doping pedagogico che non permette di accettare un errore umano e che impedisce il rispetto di chi in campo deve far osservare regole e virtù.
Avete per caso sperimentato come le curve degli stadi abbiano perso l’identità di luogo organizzato di passione e colore per divenire espressione di un’anarchica violenza? La figura storica del capo ultras nasce per “governare” animi “innamorati” di una squadra, mentre oggi non ha più la capacità di organizzare niente, perché giovani schegge impazzite non trovano nulla di sensato nell’ascoltare chi ha più esperienza di loro.
Tre casi banali, sicuramente diversi, forse volutamente radicali, ma senza dubbio emblematici, che offrono uno spettro ampio per rintracciare, anche nello sport, quell’invasione barbarica che spazza via ogni obbligo nei confronti degli altri e di se stessi, abbattendo le differenti figure che domandano rispetto e obbedienza: il vuoto di autorevolezza diviene il buco nero in cui trovano spazio il tradimento dell’idea stessa di sport (e quindi la capacità di formare ed educare se stessi nella propria integralità), la barbarie di un successo ad ogni costo (violentando i propri limiti e il valore dell’avversario) e la deriva individualistica di una autoreferenzialità che ha perso la propensione al sacrificio, al rispetto, all’apprendimento.

Rappresentare un'idea e non numeri

“Il problema degli altri è uguale al mio.
Sortirne tutti insieme è la politica.
Sortirne da soli è l’avarizia”
(Don Milani)


In una delle puntate pre-elettorali de “Le Invasioni barbariche”, all’interno del solito suo piccolo spazio, Vittorio Zincone, forse in una delle migliori cartoline di presentazione, finiva per tratteggiare un quadretto acutamente allegorico e realisticamente simbolico sulla nuova avventura veltroniana del Partito Democratico e così concludeva: “Per rappresentare gli interessi dei vari segmenti sociali deve esserci per forza qualcuno di esterno alla politica e di interno a quei mondi? Ma non è che in questo modo diamo l’idea che nell’Italia moderna nessuno è in grado di rappresentare altro che se stesso?”.
Provando a prendere sul serio una questione di spessore che in un’agenda politica tutta centrata sui bisogni e non più sulle architetture, dettate da una quotidianità sempre più pressante e soffocante, rischia di apparire esercizio di pura accademia, viene da declinare tali punti interrogativi su due piani: il primo legato all’orizzonte più ampio e nazionale della nostra politica; il secondo correlato ad una delle sue novità principali, ovvero, per l’appunto, il Partito Democratico.
Mi preme davvero però evitare innanzitutto due fraintendimenti: la lettura antipatica e “spocchiosa” di chi per “contro-tendenza forzata” si stacca dal coro multiforme dell’anti-politica e prova a difendere “il” politico; quella ingenua e “sciacallesca” di chi analizza un risultato complesso e negativo (completatosi con i ballottaggi di qualche giorno fa), finendo per puntare il dito e cercare i classici capri espiatori.
Ed allora procedo.
Primo punto: la politica chi rappresenta?
Certamente l’apertura ad ampi settori della società civile, pur ingabbiata nelle maglie costrittorie delle liste chiuse volute da questa legge elettorale, ha regalato un passo avanti verso la democrazia (la tanto odiata “casta” ha guardato finalmente al mondo fuori dal palazzo e lo ha arruolato); ma ciò, alla lunga, non rischia però di accelerare una deriva che renderà presto o tardi la presunta cura un veleno subdolo? Se infatti un simile passo lo si compie appiattendo verso il basso la progettualità, riducendo ad una somma algebrica il tentativo di far riportare i conti, non si rischia definitivamente di s-cadere in una visione tecnicistica e industrialistica della politica? E cioè: se finalmente il politico di professione ha deciso di arricchirsi delle braccia e delle menti provenienti dalla vita quotidiana e queste ultime hanno voluto entrare nell’agone politico, è il caso che entrambi lo facciano provando a rappresentare interessi più alti, e non solo propri (che è ed è stato l’unico vero grande male della politica italiana e non solo); se una mentalità “manageriale” può apportare in termini di risultati e pianificazione un surplus di efficienza, non vorrei che ciò significasse avere una politica ridotta alla somma aritmetica dei singoli interessi, incollati dalla prospettiva comune di risolvere grane quotidiane e non più cementati dal comune orizzonte valoriale che unisce la nostra generazione a quelle passate e a quelle successive (nonché ridurre la sacralità delle cariche istituzionali al servizio di un’operatività del governo che finisce per spazzare via gerarchie e garanzie).
Morale della favola: temo che rappresentare se stessi sia pensare a se stessi; non essere in grado di rappresentare gli altri voglia dire non volerli aiutare: eccoci qua, di fronte al terrore che la politica viva un rigurgito di egoismo autoreferenziale, vittima delle reggenza oltre il limite di supplenti che sono divenuti titolari della cattedra a causa di titolari in congedo a cui è piaciuto più del lecito. La politica è un progetto di vita e di società non centrata su se stessi, ma sugli altri; ridurre la politica all’autoreferenzialità del risultato è farle violenza; il politico è così ridotto a funzionario, la politica a funzione, la rappresentanza ad acquisizione, la cittadinanza a mercato.
Secondo punto. Il Partito Democratico che cosa ha rappresentato?
Certamente l’apertura di un’ampia, importante e ambiziosa nuova strada, indubbiamente la semplificazione del panorama politico italiano, senz’altro un progetto alto rattrappito dalla tempistica di una campagna elettorale improvvisa e rapida. Ma ora più che mai, sconfitta alla mano (e alcune non trascurabili note liete da ricordare), sarebbe il caso che si desse il tempo fisiologico per decidere quale progetto di società vuole rappresentare e chi vuole rappresentare: si è fatto qualche calcolo nel periodo pre-elettorale, che ha dato l’idea di mettere insieme intercettatori di voti più che calamite di idee; si rischia di fare vecchi calcoli ora, con il solito imperativo del “contiamoci” che ha il sapore scaduto della politica stantia. Non c’è da contare un bel niente, c’è piuttosto da realizzare un’idea di paese che è ben presto raffigurabile e non conflittualmente ampia: abbattere la logica del ”mio, ora e subito”. La politica è architettura, disegna il futuro e prende spunto dai modelli del passato, usando l’oggi solo come occasione di progetto: evitare di avere un pantheon di riferimenti e guardare a ciò che oggi può produrre il mio orticello è condursi progressivamente all’isolamento e all’aridità.
E’ questa la vera sfida del Partito Democratico da domani: non cedere a reflussi di vecchia politica e finalmente provare a costruire un’idea di società che funga realmente da catalizzatore per chi voglia rappresentarla, indipendentemente da chi rappresenta, e per tutti coloro che devono essere risvegliati dal torpore dell’egoismo e dall’autoreferenzialità. Conta cosa si rappresenta e non chi; semplicemente perché se si sceglie la prima e se ne dimostra il valore si può essere esempio, modello e governo per molti, mentre se si sceglie il secondo si è sempre inevitabilmente scissi e ricattabili: l’idea da realizzare coinvolge e offre una soluzione, il bisogno da soddisfare crea conflitto e divide. Il vero obiettivo, elevato e prezioso, che non si può svendere al miglior offerente di voti e ricatti elettorali e che non merita di essere assassinato sull’altare della sconfitta, diventa allora quello di distogliere l’Italia da una deriva individualistica montante, che non deve essere inoculata nei meccanismi della democrazia: una sfida che, per parafrasare Franco Vaccari, deve essere personale e comunitaria. “Se solitaria è populista, se corale è politica” (F. Vaccari, Portici, Politica vecchia e nuova passione, AVE, Roma 2007).

venerdì 28 marzo 2008

I NUOVI BARBARI 1 – La crisi delle autorità

Ripubblico una serie di articoli usciti su "La Voce delle Marche" l'anno passato, che prendono spunto dall'idea baricchiana o baricchesca, fate voi, de "I Barbari" e dedicati ad alcuni luoghi di crisi, oggi, dell'autorità. Ecco il primo.


Fermiamoci, congeliamo ogni nostra urgenza e ascoltiamo, magari giusto un secondo, il tempo in cui viviamo e il mondo in cui abitiamo: quanti mutamenti trascurati e ingovernati! Mille flussi costeggiano le nostre vite senza che ce ne accorgiamo o decidiamo di gettarci uno sguardo responsabile: queste righe – e le prossime che seguiranno per qualche settimana – nascono proprio dal tentativo di intercettarne almeno uno, per provare a riflettere su qualcosa di non così trascurabile, che ci dovrebbe interrogare e che colpevolmente, invece, ci lascia indifferenti – almeno così sembra.
Da qualche giro di Terra attorno al Sole a questa parte siamo costretti, volenti o nolenti, ad assistere ad un evidente “imbarbarimento” dei sentimenti, delle regole, delle libertà, dei diritti del nostro convivere (per fare due esempi: impiccagioni orgogliosamente trasmesse on line, quando non lo sono in tv, e morbosamente ricercate; guerriglie urbane e uccisioni dentro e fuori un campo di calcio, per non parlare di un disdegno pubblico di cui le logiche economiche dettano cadenze e modi); allo stesso tempo, da quando il “virus” dell’idea si è diffuso (chissà il primo che lo ha messo in circolo, chissà quanto durerà), qualcuno, con occhi diversi, sta facendo ricorso, con continuità, proprio alla figura dei “barbari” per dipingere i profondi tratti di cambiamento che connotano il nostro tempo (dalle invasioni barbariche cinematografiche e televisive, ai barbarici sommovimenti, più o meno tellurici, raccontati da Baricco, Mura, Veneziani).
Impressionato da tale coincidenza e convinto che la metafora barbarica abbia tutti i requisiti per raffigurare molti dei fenomeni che stanno “raffreddando” le nostre vite, vorrei provare a trovare l’ennesimo sintomo di una nuova invasione, di cui siamo al tempo stesso vittime e protagonisti. Senza pessimismi o presunzioni di sorta, si potrebbe infatti leggere gran parte degli eventi che troviamo sui giornali sotto la luce di un unico comune denominatore: la mancanza quasi assoluta di rispetto dell’autorità costituita e legittima; oppure, detto in altro modo, la perdita, quasi irreversibile, di autorevolezza da parte di ogni autorità.
Dal professore al genitore, dalla forza dell’ordine al capo ultras, dal politico alla legge scritta, dalla tradizione alla norma morale: la nostra società sta progressivamente dimenticando il ruolo formativo e vincolante di alcuni imperativi, la cui legittimazione diviene arbitraria; il desiderio muta in diritto; la libertà nasconde la licenziosità; la verticalità sana di alcune relazioni viene scalzata da una orizzontalità che annulla la profondità di piani. Il barbaro è originariamente colui che parla un idioma diverso e porta con sé un insieme di tradizioni inaccettabili: chi viene da lontano e incute terrore; oggi il barbaro è colui che non accetta più il sistema di autorità che lo ha formato e si ribella ad esso: chi vive nella medesima società in cui è nato ma ne rifiuta i principi, divenendo straniero nel proprio paese, a causa di una “lingua” selvaggia che si fa fatica a comprendere.
Inizia allora qui un viaggio in cinque tappe, che non vuole avere l’onore di trovare ricette, quanto l’onere di individuare un problema e raffigurarne le molteplici declinazioni e derive, senza paure, seppur con un vivo senso di allerta: a voi decidere se e a che punto salire a bordo.

Luca Alici

venerdì 29 febbraio 2008

E' tanto difficile essere pensanti?

Enzo Bianchi, La Stampa (24 febbraio 2008)
I CRISTIANI E LA POLITICA

Vent'anni dopo la scomparsa del «partito dei cattolici» e l'inizio della loro diaspora in diversi spazi politici privi dell'esplicita denominazione di «cristiani», sembra oggi riemergere la domanda se non sia necessario in qualche misura - senza per questo ripetere vecchie architetture - che i cattolici si ritrovino collocati in una precisa formazione che abbia anche il coraggio di autodefinirsi in un nome e in un simbolo.
Oggi non è purtroppo il tempo, ma mi auguro che un giorno si possa fare una lettura pacata e consapevole della presenza dei cristiani, e dei cattolici in particolare, nella politica italiana, soprattutto nei decenni del dopoguerra, e nutrire fierezza per l'apporto che essi hanno dato all'idea e alla costruzione dell'Europa, allo sviluppo della democrazia nel nostro paese, all'affermarsi di principi legati alla difesa e alla promozione della persona umana, alla prassi di una laicità nella politica anche nell'Italia «cattolica» di quegli anni. Occorre tuttavia riconoscere come la nuova situazione, che vede la presenza di cattolici in partiti diversi, può essere colta positivamente per la vita ecclesiale e anche per quella sociale, ma resta vero che i cattolici non sono riusciti ad avere una voce capace di mostrare la loro «differenza» e la convergenza della loro ispirazione.
Va riaffermato che i cristiani vivono nel mondo come gli altri uomini, sono cittadini come gli altri, devono essere responsabili della costruzione della polis come tutti gli altri: non è loro concesso di disertare dalla città, né di fare una «fuga mundi» disinteressandosi dell'evoluzione del vivere civile, ma con creatività, intelligenza e competenza devono prendere parte alla realizzazione di una società in cui crescano l'umanizzazione e la qualità della convivenza.
I cristiani però - proprio perché il loro «Dio è un'idea politica», come ricorda il grande teologo J.B. Metz - possiedono una determinata visione del mondo e dell'essere umano, hanno delle convinzioni che non vanno assolutamente relegate nell'intimo o nel privato, ma che, in una società pluralista, devono essere presenti e ascoltabili nello spazio pubblico, sociale e politico. La fede cristiana che confessa un Dio che si è fatto uomo, storia degli uomini, non può accettare di non contribuire a plasmare la vita sociale e la cultura degli uomini: senza rivendicare una superiorità rispetto al contributo di altre componenti religiose, filosofiche o ideologiche, senza chiedere privilegi o ascolti discriminanti, i cristiani vogliono e devono poter esprimere le loro convinzioni nello spazio pubblico e politico e poter di conseguenza lavorare a servizio dell'umanità. Essi sono coscienti che ciò che viene chiesto dalla loro fede è sempre umanizzazione, difesa della dignità umana, promozione della giustizia, della pace e della riconciliazione.
Ma noi oggi assistiamo a grandi difficoltà e a grandi tensioni proprio su questa presenza: a differenza delle altre religioni monoteistiche, il cristianesimo ha progressivamente elaborato, pur con fatica e non senza contraddizioni storiche, una distinzione tra fede e politica, tra autorità politica e autorità spirituale, ritornando alle parole autoritative di Gesù riguardo al dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Sembrerebbe quindi che lo statuto della collocazione dei cristiani nella polis sia chiaro, ma in realtà oggi appare più confuso che mai: anche per questo forse qualcuno pensa all'ipotesi di un partito che raccolga i cattolici (anche se ormai non più presente in alcuna società occidentale) in modo da ridare eloquenza ed efficacia ai credenti impegnati nella politica.
Comunque il fenomeno della diaspora appare irreversibile e quindi ci chiediamo come possono i cattolici, senza l'inquadramento in un proprio partito, essere ciò che devono essere? Già all'epoca della fine del partito dei cattolici, consapevole delle difficoltà e dei vuoti che avrebbero potuto aprirsi, avanzai una proposta che però non venne presa in seria considerazione né tanto meno attuata. Non mi pare fuori luogo riproporla ora: si tratterebbe di istituire nello spazio ecclesiale, a livello regionale come a quello nazionale, un forum, un luogo in cui i semplici cristiani e i pastori - dunque le figure rappresentative della chiesa - potessero confrontarsi, riflettere, dibattere sui differenti temi che emergono nella società e sui quali diventa prima o poi necessario un intervento legislativo da parte dello stato. Sarebbe lo spazio per un convenire organico dei credenti, una assemblea in cui fare soprattutto opera di discernimento dei problemi, delle situazioni critiche, delle urgenze presenti nella polis, per verificarle alla luce del vangelo e per smascherare al contempo gli «idoli» che troppo facilmente seducono anche i cristiani.
Insomma, un'assemblea di credenti, ecclesiale nella sua natura e qualità, che insieme cercano, riflettono, discutono e cercano di giungere a una convergenza sulle esigenze dettate dal vangelo in un determinato luogo e tempo della storia degli uomini. Da lì potrebbe emergere ciò che un cristiano deve testimoniare e operare nel mondo, in conformità alla sua fede e alla «differenza cristiana». Ma, va ribadito con chiarezza, tutto questo percorso deve restare nell'ambito pre-politico e pre-economico, non deve cioè giungere a esprimere soluzioni tecniche. Amo definire questo spazio - difficile da creare e custodire, ma preziosissimo - come «profetico» perché in esso il linguaggio usato è quello della fede, l'autorità invocata è quella del vangelo e della grande tradizione, il magistero ascoltato in materia di fede e di morale è quello dei pastori della chiesa. «Spetta alle comunità cristiane - scriveva Paolo VI nella mai abbastanza ricordata Octogesima adveniens - analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili del vangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione nell'insegnamento sociale della chiesa».
Da uno spazio di questo tipo ogni cristiano è rinviato alla sua responsabilità di cittadino e alla sua eventuale collocazione politica, affinché lì operi secondo l'ispirazione del vangelo: i modi e le soluzioni tecniche per tradurre queste ispirazioni stanno nell'ambito della politica, dell'economia, del diritto e, come tali, ricadono sotto la responsabilità del singolo credente-cittadino. Questi, allora, agirà non più nell'ambito profetico pre-politico, ma si impegnerà in prima persona in politica, liberando così, tra l'altro, le figure rappresentative della chiesa, i pastori, da accuse di ingerenze politiche nella società ed evitando di creare divisioni nella comunità cristiana. È in questo senso, credo, che il concilio, cui ci riferiamo sempre volentieri, diceva: «È di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori» (Gaudium et spes 76,1).
Ritengo che in questo modo i cattolici non sarebbero afoni, né confusi o contraddittori nelle loro scelte, mostrerebbero la convergenza e la forza dell'ispirazione evangelica, ma anche la pluralità delle scelte politiche ed economiche di cui si assumerebbero la responsabilità senza coinvolgere le figure rappresentative ecclesiali che non hanno competenza in materia. Si andrebbe verso una chiara distinzione degli ambiti di operazione come dei soggetti operanti e, al contempo, verso una unità nell'ispirazione e quindi nella testimonianza della «differenza cristiana».
La chiesa non può lasciarsi chiudere nel particolarismo stretto dei movimenti politici che magari rivendicano un'impropria esclusiva. Così scriveva ancora Paolo VI: «Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi… ciò che unisce i fedeli è, in effetti, più forte di ciò che li separa». Sì, nessun partito può dire di essere l'unico depositario del messaggio cristiano in una società pluralista animata da progetti politici in concorrenza, i quali non potrebbero che trarre beneficio da un confronto serio con la «differenza cristiana» resa eloquente da cattolici responsabili e impegnati.

sabato 2 febbraio 2008

Tacere non è rispetto

Riporto, trascritto, e quindi tagliato - visto che non se ne trova ancora una versione "informatica" - uno degli "schiaffi buoni" di Don Milani, da meditare

«L’opinione pubblica attribuisce ai cattolici di destra lo strano privilegio d’apparire quelli che viaggiano sul sicuro saldamente agganciati alla roccia della Chiesa […] Le cose non sono così semplici. La via che conduce alla Verità è stretta e ha da ambo i lati precipizi. Esistono eresie di sinistra ed eresie di destra. Il fatto che qualche importante cardinale penda verso le eresie di destra non dà ad esse patente di ortodossia. Siamo nella Chiesa apposta per sentirci serrare dalle sue rotaie che ci impediscono di deviare tanto in fuori che in dentro […] Se questa tranquillità la Chiesa non ci potesse dare non meriterebbe davvero star con lei. Si potrebbe andare a brancolare nel buio della libertà come i lontani. Così stando le cose io non mi spiego come voi cattolici di sinistra siate ancora tanto timidi di fronte ai cardinali. Forse è che mancate di quadratura teologica […] Esigete dunque un trattamento di parità. Siete figlioli devoti della Chiesa voi e loro, per quanto dissenzienti loro da un cardinale voi da un altro […] La Dottrina dice che il Papa è infallibile. Eretico è chi lo nega ed eretico è chi estende ad altri questo attributo. Non vedo poi argomenti per attribuire maggior dignità all’eresia per eccesso che a quello per difetto. Cattolico è dunque chi si ricorda che i cardinali e i vescovi son creature fallibili. Eretico chi mostra per loro un rispetto che travalica i confini del nostro Credo. Caso mai, se proprio una distinzione si volesse fare ci sarebbe solo da dire che tra due tendenze egualmente ereticali, l’eresia per eccesso ha l’aggravante d’essere ostacolo al ritorno dei lontani. Si può avvicinarsi alla Chiesa se essa con rigore dogmatico chiede al neofita solo ciò che ha il diritto di chiedergli. Non a una Chiesa in cui si debba sottostare giorno per giorno alle opinioni personali e agli umori di ogni cardinale. Noi la Chiesa non la lasceremo perché non possiamo vivere senza i suoi Sacramenti e senza il suo Insegnamento. Accetteremo da lei ogni umiliazione […] ma ce lo dovrà dire il Papa con atto solenne che ci impegni nel Dogma […] E fino a quel giorno vivremo nella gioia della nostra libertà di cristiani. Criticheremo vescovi e cardinali serenamente visto che nelle leggi della Chiesa non c’è scritto che non lo si possa fare. Il peggio che ci potrà succedere sarà d’essere combattuti da fratelli piccini con armi piccine di quelle che taglian la carriera. Ma son armi che non taglian la Grazia né la comunione con la Chiesa. Il resto tenteremo di non contarlo. […] Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo loro bene. Vogliamo il loro bene, cioè che diventino migliori, più informati, più seri, più umili. Nessun vescovo può vantarsi di non aver nulla da imparare. Ne ha bisogno comme tutti noi. Forse più di tutti noi per la responsabilità maggiore che porta e per l’isolamento in cui la carica stessa lo costringe. E non è superbia voler insegnare al vescovo perché cercheremo ognunoi di parlargli di quelle cose di cui noi abbiamo esperienza diretta e lui nessuno. L’ultimo parroco di montagna conosce il proprio popolo, il vescovo quel popolo non lo conosce. L’ultimo garzone di pecoraio può dar notizie sulla condizione operaia da far rabbrividire dieci vescovi non uno. L’ultimo converso della Certosa può aver più rapporto con Dio che non il vescovo indaffaratissimo. E il vescovo, a sua volta, ha un campo in cui può trattarci tutti come scolaretti. Ed è il Sacramento che porta e quelli che può dare. In questo campo non possiamo presentarci a lui che in ginocchio. In tutti gli altri ci presenteremo in piedi. Talvolta anche seduti e su cattedre più alte della sua. Quelle in cui Dio ha posto noi e non lui. L’ultimo di noi ne ha almeno una di queste cattedre e il vescovo davanti a lui come uno scolaretto. E qualche volta, credimi, c’è bisogno urgente di trattarlo così! Non è forse come un bambino un cardinale che ci propone a esempio edificante un regime come quello spagnolo? Non c’è neanche da arrabbiarsi con lui. Diciamogli piuttosto bonariamente che non esca dal suo campo specifico, che non pretenda di insegnarci cose di cui non ha nessuna competenza. Non l’ha di fatto e non l’ha di diritto. Ne riparli quando avrà studiato meglio la storia, visto più cose, meditato più a fondo, quando Dio stesso gliene avrà dato grazia di stato. Oppure non ne parli mai. Non è da lui che vogliamo sapere quale sia il tenore di vita degli operai spagnoli. Son notizie che chiederemo ai tecnici. Di lui in questo campo non abbiamo stima. Lo abbiamo anzi sperimentato uomo poco informato e poco serio. La vita di un vescovo! Io ne so poco, ma me la posso immaginare perché conosco qualche sacerdote importante e anche qualche grosso militare e qualche grosso primario di ospedale. Parallelo al crescendo di importanza un crescendo di isolamento […] Passa per il mondo senza toccarlo. Non abbastanza alto per essere illuminato dal Cielo. Non abbastanza basso per insozzarsi la veste o per imparare qualcosa. Fa errori puerili, s’intende di tutto, giudica la storia, la politica, l’economia, le vertenze sindacali, il popolo con la beata incoscienza di un infante, con l’innocente pretenziosità del generale di armata o del contadino di montagna. È appunto come il generale di armata e come il contadino di montagna un uomo cui nessuno fa scuola. Un infelice. E tanto più è un infelice per il fatto che nel frattempo perfino i laici cattolici hanno aperto un po’ di occhi. Loro che il muro di incenso non proteggeva dai morsi della storia [...]. Un prigioniero bisogna aiutarlo e liberarlo, e tanto più quando è prigioniero il nostro padre. se non gli sbraneremo il muro di carta e non gli dissolveremo il muto di incenso Dio non ne chiederà conto a lui ma a noi. Ci toccherà rispondergli di sequesetro di persona» (continua…)