mercoledì 23 novembre 2011

“Per fare un tavolo ci vuole un fiore”. I giovani e una nuova primavera della politica

Nell’epoca che continua a generare vite in stato di emergenza, si possono riscontrare, tra le altre, due tendenze opposte: una privatizzazione delle esistenze, che riduce la politica a tecnica di difesa dalla paura (“Mi interessa solo ciò che avviene dentro le pareti domestiche, da proteggere con siepi e muri di cinta”); un surplus di impegno civile, che convive con la zavorra di una sfiducia sempre più radicale nei confronti della politica (“Mi interesso degli altri, ma in forme immuni da una politica malata terminale”). Quest’ultima è forse ancora la regione più densamente frequentata dai giovani, per lo meno da quanti hanno deciso di ingaggiare una lotta serrata tra la propria natura, fisiologicamente audace e inquieta, e la cultura che li circonda, patologicamente prona al consumo dell’istante; ma persino coloro che tentano di ribellarsi all’idea di una distanza incolmabile dagli altri e dal futuro sono oramai affetti da una cronica disaffezione verso la politica e da un calo del desiderio riguardo l’impegno politico.
Senza tornare sulle molte motivazioni di quest’anomalia, è forse l’ora di spalancare qualche finestra dopo l’inverno e sentire l’odore di una nuova primavera, in cui protagonisti sappiano essere proprio quei giovani che fino ad ora hanno preferito restare in secondo piano, magari piegandosi silenziosamente sugli ultimi, piuttosto che quanti - pochi ma microfonati - hanno deciso di adeguarsi ad una sceneggiatura scadente, pur di proferire parola in storie già scritte, credendo di accreditarsi con professioni pubbliche di fede e rivendicazioni identitarie. C’è bisogno di questi giovani, non di giovanilismi: forti di una fede che può essere solo sovversiva (tanto meno incastonabile in un partito); pazienti nei tempi della semina e del raccolto, che non è detto spetti loro; capaci di diventare esempio e testimonianza in un quadro di cui la stretta attualità evidenzia la miseria.
Torna allora preziosa una delle storielle solo apparentemente banali di Gianni Rodari.
Per fare un tavolo ci vuole il legno. La politica è convivialità delle differenze, per usare un’espressione cara a Don Tonino Bello, in cui ci si siede tutti allo stesso tavolo: non per assistere allo spettacolo delle differenze, ma per farle dialogare; non per spartire la mensa, ma per condividerla; non per decidere i ruoli, ma per dirsi che tutti sono responsabili di tutti. E chi meglio dei giovani credenti deve ricordare come stare alla mensa non voglia dire cedere a compromessi, ma mirare al bene qui e ora, ricordarsi di gettare lo sguardo non solo su chi occupa il capo della tavola, che spesso ubriaca di promesse, ma su quanti, ai piedi, chiedono le briciole? Il tavolo ha bisogno del legno, come la politica deve nutrirsi della vita quotidiana di ognuno, della sua esperienza, del suo equilibrio e dei rapporti, anche lavorativi, che le danno senso. A motivo di ciò un quotidiano della precarietà non permette una riappropriazione matura della coscienza politica; avere un lavoro (e tornare al proprio lavoro) può consentire di guardare alla politica realmente come servizio; un lavoro che non c’è non può far diventare lavoro ciò che lavoro non è. Il rischio è di finire schiavi di logiche interne ad un mondo che ha la sola necessità della propria riproduzione: i giovani che iniziano a vedere nella politica la soluzione dei propri problemi lavorativi non si rendono conto che stanno già svendendo i loro seppur nobili ideali sullo stesso mercato che rinnegano.
Per fare il legno ci vuole l'albero, per l'albero ci vuole il seme, per il seme ci vuole il frutto, per il frutto ci vuole un fiore. Per ottenere un buon legno l’albero deve essere ben radicato nel terreno: ai giovani è proibito non interessarsi di ciò che succede attorno a loro, perché il prezzo del disinteresse è un appalto di potere ad altri da cui si finisce per dipendere, perché se non si avverte questa reciprocità con il mondo che abitiamo e il tempo che viviamo si diventa aridi e privi di linfa. Senza dimenticare che un cristiano, in virtù del Dio fatto uomo in cui crede, ha l’obbligo, come ben dice Don Arturo Aiello, di essere nella storia, appassionarsi della storia e dell’uomo, perché la storia e l’uomo sono luoghi di grazia. Ma l’albero cresce dal seme e il seme proviene a sua volta dal frutto: questo è forse l’impegno più arduo che spetta ai giovani, ovvero quello di essere insieme, in questo momento storico e in questa nostra Italia, seme e frutto, senza bruciare i tempi, ma rispettando le stagioni. Essere il seme di nuove forme di partecipazione e cittadinanza, all’altezza di sfide alle quali si può rispondere solo con la progettualità, solo con il coraggio, solo con l’entusiasmo di guardare lontano; essere il seme di un abitare che metta al centro davvero l’uomo e non il cemento, che ricostruisca l’uomo, per citare ancora Don Tonino Bello, più che costruirgli (o magari condonargli) la casa. Ma anche essere frutto, che ha resistito alla siccità e all’aridità perché ha attinto acqua altrove, sapendo scegliere le sorgenti sotterranee di un impegno lontano dall’immediato e dall’effimero, e rifiutare le fonti avvelenate della ricerca ossessiva di leader: l’Azione Cattolica è in questo miniera inestimabile di esempi di santità quotidiana e fioritura di un carisma partecipato, mai affidato ad alcun capo carismatico.
Per fare un tavolo ci vuole un fiore. Ai giovani spetta il compito di ricordare che persino per quel tavolo che è la politica serve coltivare la bellezza e la gratuità, ma soprattutto un’altezza di ideali che non significa distacco dalla realtà. In un tempo in cui tutto sembra appaltato al tecnicismo e l’utilità si misura solo con la produttività, i giovani non possono dimenticare che la politica non si risolve nei numeri o nell’efficienza, ma ha realmente bisogno di sogni; di sogni che rilancino il “non per profitto” e promuovano il valore di ciò che appare inutile secondo il vocabolario dei nostri tempi: la cultura, la civiltà, i legami. Ai giovani è dunque chiesto di avere a cuore la poesia di questo fiore e parafrasarla con una prosa all’altezza; di impegnarsi per una politica che sia profezia, non favori di cui vergognarsi; mappa dei bisogni reali, non strategie della scorciatoia; occhio e orecchio sull’umano, non autismo procedurale. Allora agli adulti sarà magari più facile, come ben scrive Ernesto Olivero, farsi dominare dai giovani che crescono nella fedeltà a Dio e dare loro responsabilità anche superiori alle proprie.

Luca Alici



Testo pubblicato sulla rivista mensile dell'Azione Cattolica "Segno", del novembre 2011, intitolata "Educarsi alla politica, educare la politica". Per info: http://www2.azionecattolica.it/

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